A volte basta ritrovare una vecchia scatola di latta per
risvegliare ricordi lontani nel tempo. Profumi, sensazioni, rimpianti che ci
assalgono come una buriana, emozioni preziose come lo sono i ricordi.
La scatola di latta
Ci risiamo! Ogni volta la
stessa storia; mi dico: “Solo un saluto. Entro, chiedo se occorre qualcosa e
scappo senza lasciarmi intrappolare. Nemmeno un caffè!”
Inevitabilmente, però,
mia madre riesce a farmi pentire del brandello di tempo che faticosamente
ritaglio fra ufficio, commissioni, casa, due figli e un marito. Pare che
invecchiando regredisca a uno stato infantile, riacquistando l’ostinato egoismo
egocentrico tipico dei bambini, dove tutto è dovuto seduta stante.
A volte, credo che
trascorra le giornate ad arrovellarsi per escogitare mille faccende,
commissioni, lavori dall’urgenza inderogabile da assolvere ad ogni costo, pena
l’apocalisse. E così ci ricasco ogni volta, combattuta fra l’incalzante
ticchettio dell’orologio e la sua vocetta limpida che mi sommerge di sensi di
colpa. Un giorno è il ficus da travasare, quello successivo i sacchetti di
lavanda per l’armadio, oppure i vetri della finestra da pulire perché “arriva
Pasqua”.
Questa
sera è toccato a un buono postale che, ventennale, dovrebbe essere in scadenza.
Inutile arrogare scuse: la vecchia scala di legno è già piazzata di fronte
all’armadio a muro, cimitero domestico di tutto ciò che, utile e non, ha fatto
il suo tempo. Trattengo a stento la rabbia, mentre, sbruffando, mi dirigo verso
il sito archeologico. Salgo diffidente i vecchi pioli in legno guardando mia
madre che, minuta, cerca di puntellare la struttura tarlata e traballante; mi
domando se sia lei a sorreggere la scala o viceversa.
La
sua voce mi guida nella ricerca con la stessa precisione di un GPS;
dall’armadio si spande un delicato profumo di lavanda, mentre le pareti
rivestite di sughero assorbono ogni rumore. Arrivata all’ultimo ripiano soffio
delicatamente per cacciare la polvere, che riveste un piccolo universo perduto
nel tempo. Lo strato di pulviscolo rivela i lunghi anni d’abbandono di
cianfrusaglie e scatole quasi dimenticate; eppure, la memoria di mia madre si
dimostra infallibile, indicandomi la posizione e il colore della vecchia
scatola di scarpe che, assieme ad altre mille scartoffie, custodisce il
prezioso documento. Spesso mi capita di domandarmi come una persona che sa
calcolare il conto del panettiere a mente senza sbagliare di un centesimo possa
dimenticarsi d’assumere le pastiglie, costringendomi a telefonate quotidiane
per ricordarglielo.
Le passo la scatola, che
afferra soddisfatta. L’impresa è quindi giunta al termine con successo; da
buona Indiana Jones in gonnella potrei scendere comodamente dalla scala,
salutare e uscire di scena trionfante, tornando alle mie incombenze, ma la
curiosità è femmina e, così, mi blocco, soggiogata dal fascino
dell’esplorazione.
Allungo
le mani, afferrando una vecchia scatola di latta che, bassa e rettangolare,
stuzzica la mia curiosità, mentre mia madre s’allontana stringendo a sé lo
scrigno del tesoro. Rimuovo, con il dorso della mano, la polvere che ammanta il
coperchio riscoprendo, con un sussulto, la superficie laccata su cui capeggia
un ricco motivo floreale. Riconosco la scatola di biscotti che, costante fissa,
era il fulcro delle colazioni nella mia infanzia. Palpito d’emozione
dischiudendone il coperchio: assieme al profumo di biscotti, una miriade di
ricordi, immagini e suoni fuoriescono, travolgendomi in un tripudio di
sensazioni. Un turbine che mi riporta indietro nel tempo, sino ai giorni
spensierati dell’infanzia, quando credevo che non potesse esistere altra vita
se non accanto ai miei genitori.
In
balia dei sensi, riesco quasi a cogliere il borbottare della moka che precede
il diffondersi dell’aroma caldo e avvolgente del caffè; sento la casa risuonare
magicamente delle nostre voci, gli strilli, le risate, i rimbrotti di mia madre
e le battute di scherno di mio padre. Una profonda malinconia mi pervade
ripensando ai giorni lontani e irripetibili; a una vita che pare così distante
da sembrare soltanto un sogno. Ogni angolo della casa, ogni oggetto rivela
ricordi che credevo essere sprofondati nell’oblio, mentre ora, fervidi e
nitidi, riemergono lasciandomi senza fiato. Immagini che, pur susseguendosi
veloci come fotogrammi, mi lasciano, però, il tempo di riassaporare il gusto
dolce delle felicità: le labbra della buonanotte di mia madre, bacio caldo e
lieve; le sue carezze dolci sui miei capelli, la voce avvolgente di mio padre
che, leggendo storie avventurose, m’incantava con un fiume di parole su cui,
come una barchetta di carta, mi lasciavo trasportare attraversando mondi
fantastici. Rammento il cristallino cinguettio del canarino che, risuonando nel
tinello, pareva volermi suggerire le risposte quando, al mattino, ripassavo la
lezione di storia.
Emozionata dai ricordi,
vorrei acciuffarli e stringerli a me per non smarrirli nuovamente, ma,
volatilizzandosi come profumo di glicine, svaniscono inafferrabili.
Cala
il silenzio, riportandomi al presente; le voci vanno mestamente tacendo. Un
silenzio rotto solamente dallo stanco ticchettio del vecchio orologio a muro.
La casa riacquista quel vuoto iniziato con la mia adolescenza: quando la voglia
d’indipendenza mi spingeva, come un uccellino sul bordo del nido, a spiccare il
volo verso un mondo aperto e inesplorato. Un vuoto reso incolmabile con la
scomparsa improvvisa di mio padre. Soltanto ora mi domando come mia madre possa
essersi abituata a questo silenzio, addormentarsi o svegliarsi la mattina in
quell’enorme letto vuoto; cucinare, apparecchiare, mangiare sempre sola.
Respirare un’aria impregnata di ricordi, fotografie, emozioni che, aleggiando
nell’aria, la riportano a quella vita dissoltasi nel tempo.
Comprendo
ora che, sentendosi inutile come una girandola chiusa in un armadio, s’aggrappa
alle mie brevi visite elargite con il contagocce per riassaporare ancora un
surrogato degli antichi fasti, di quella felicità che, seppur precaria fra
mille alti e bassi, era, in ogni caso, il sale della vita. Vuole accertarsi che
qualcuno s’adopera ancora per lei, riudire dei passi famigliari o il tono della
mia voce riecheggiare fra queste mura per sentirsi ancora viva e non sepolta in
un mausoleo foderato di nostalgie.
Controllo
a stento un nodo alla gola. Un caldo impulso mi spinge verso di lei con la
voglia di stringerla in un abbraccio.
Simile a un re magio,
tenendo la scatola di latta come fosse uno scrigno di mirra, m’avvicino a lei
che, seduta nel tinello, mi guarda stranita. Limpidamente, fissandomi negli
occhi, mi dice: «Domani potresti passare dall’ufficio postale?»
Senza risponderle, depongo delicatamente la scatola sul
tavolo. Osservo in silenzio le sue dita ossute, pervase da un leggero fremito,
che accarezzano dolcemente la superficie liscia della scatola. Senza dire
nulla, alzandosi dalla sedia, m’avvolge in un abbraccio materno, dimostrandomi,
per l’ennesima volta, che forse sono io ad avere ancora bisogno di lei.
Di Pierangelo Colombo, edito nella raccolta: Prospettive (2017)
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