Quando la speranza scaccia ogni rassegnazione arrivando ad
annullare la percezione del tempo. L’amore di una madre che rifiuta la vita
reale, creandosi uno spazio tutto suo nell’attesa di rivedere il
figlio.
La sala d’attesa
Un profondo sbadiglio
testimonia la notte di festeggiamenti del capostazione; nella testa risuona
ancora il triplice “campioni del mondo”, urlato da Martellini dal Bernabéu di
Madrid. Il berretto d’ordinanza messo di lato, si dirige alla bacheca, tenendo
in una mano un foglio e nell’altra una puntina. Le suole provocano un noioso
scricchiolio sul pavimento di linoleum. La sala d’attesa è vuota, fatto che gli
permette di rampognare nei confronti di chi, senza logica, ha piazzato la nuova
panchina proprio sotto la teca.
Una
folata di vento fa vibrare i vetri opalescenti della porta d’entrata, come se
un fantasma vi stesse bussando. Nella saletta di servizio suona il preavviso
dell’imminente passaggio del rapido delle 7.15, uno scampanellio che invita il funzionario
a gettare un’occhiata alla banchina deserta. I binari riverberano i raggi del
sole, rotaie che ogni giorno sostengono lo sferragliare di numerosi convogli.
Pochi, tuttavia, sostano nella piccola stazione, edificata negli anni del
Fascio dalla boria del gerarca che, natio nel borgo, aveva fatto carriera nei
palazzi romani.
L’impeto di un uragano spalanca la porta
facendo sobbalzare l’ufficiale. Buriana personificata dalla figura corpulenta
della signora Silvana, che piomba nel locale e, con un saluto sbrigativo, si
dirige svelta verso il ripostiglio. In perenne corsa, vive come se il tempo la
braccasse ringhiando, pronto ad azzannarla al primo accenno di sosta.
Rassettata casa, ha già portato il pane alla signora del terzo piano, fatto
l’iniezione al dirimpettaio, ramazzato il cortile del palazzo, rifocillato i
gatti del quartiere e si appresta ora a spazzare la stazione. Mansione che
sbriga con estrema velocità, ma con spirito meticoloso. Afferrato un panno, si
getta con veemenza sui vetri dell’entrata.
Un
doppio fischio precede il fragore del diretto che attraversa la stazione
smuovendone l’aria. Una folata penetra nella sala d’attesa, assieme al rumore
del convoglio.
La sagoma di una figura
esile appare attraverso i vetri. Silvana, riconoscendola, spalanca la porta per
farla entrare. La saluta, ottenendone un lieve cenno del capo. Maria, tuttavia,
non è scortese; la sua testa è altrove: tornare al presente le farebbe troppo
male. Il corpo segue il regolare fluire del tempo, mentre il calendario della
sua mente è fermo al 23 ottobre del ’47.
Silvana ha già spazzato
l’angolo della sala dove, da trentacinque anni, puntuale come il Natale, Maria
piazza la seggiola, che si porta da casa, e aspetta. Attende il treno, il
convoglio che le riporterà Francesco, unico ingranaggio in grado di rimetterne
in moto la vita. Figlio che ama più di se stessa; partito per il fronte russo è
stato dato fra i dispersi di quella devastante follia.
Il
chiacchiericcio precede l’entrata di due signore, dal portamento distinto e lo
sguardo inquisitore. Viaggiano sempre in coppia, come i carabinieri. In paese
sono soprannominate “I telegiornali”: nulla sfugge loro della vita privata del
borgo, conoscono i peccati di ogni anima; ne sanno più del curato, che esercita
da tempo immemore il rito della confessione. Senza interrompere lo scambio
d’informazioni, si dirigono alla biglietteria. Una mano allunga i contanti
attraverso la fessura di quella che pare una ghigliottina incastonata nella
parete; il capostazione risponde con un sorriso e consegna i documenti di
viaggio.
Maria
non degna loro lo sguardo, le mani lavorano svelte i ferri da lana in un
susseguirsi di diritti e rovesci. L’ennesima maglia per il figlio. Il pensiero
rinnova il ricordo della partenza. La stazione, nuova allora, era bardata di
tricolori per salutare i figli della patria. Gli occhi, gonfi di lacrime, non
smettevano di fissare il suo Francesco, bellissimo nell’uniforme da alpino.
Sicuramente il più bello fra i coscritti del ’22. Orgoglio che, per qualche istante,
aveva mitigato il dolore per la partenza. Un’ultima carezza, le raccomandazioni
per il freddo e poi solo il vapore e il fumo della locomotiva che, spietata, le
strappava il cuore dal petto, ipotecandone un futuro incerto.
Prima
individui sparuti, poi a gruppi, iniziano ad arrivare i pendolari. Attraversano
la sala d’attesa salutando con un cenno il capostazione. Tute blu, colletti
bianchi, borse portadocumenti o portavivande in mano, si piazzano sulla
banchina nell’attesa del treno. In comune, il tedio ripetersi di una
quotidianità a tinte grigie.
Maria sospende il lavoro
sentendo sopraggiungere il convoglio; l’emozione aumenta, la stessa speranza
che la teneva in vita durante la guerra, quando aspettava che il postino le
consegnasse una lettera dal fronte. Per mesi erano state regolari, scritte con
bella grafia e farcite di parole fiduciose. L’arrivo dell’inverno, però, aveva
minato ambedue le cose. Sempre più rare, le missive si fecero scarne, scritte
con grafia stentata e, una madre lo sente, con una fiducia mal simulata,
gettata fra le frasi per non darle pensieri. Epistole conservate come reliquie:
legate da un nastro di raso, giacciono nel comodino pronte per una carezza. In
disparte, invece, il telegramma del ministero della Guerra dove, con freddezza,
si comunica che il caporale Casson Francesco, del battaglione Verona, risulta
disperso dalla terza decade di gennaio.
Lo stridio dei freni
accompagna la fermata del treno. Nessuno scende in questo borgo che sonnecchia
nella pianura, solo partenze, che torneranno in serata con le mani segnate dal
lavoro o la testa piena di calcoli lasciati in sospeso. Il capotreno fa un
cenno al macchinista, che rimette in moto la locomotiva. Il capostazione lascia
la banchina, dirigendosi nella stanzetta di servizio. Silvana saluta i
presenti, rigettandosi nella corsa della giornata.
Nella
sala resta lo sferruzzare di Maria, il fruscio della lana e dei suoi pensieri,
che si nutrono di ricordi e speranza. Fiducia rinvigoritasi con la fine della
guerra; la mancanza di notizie del figlio, in un certo senso, la rassicurava:
niente nuove, buone nuove. Non era raro veder tornare reduci dati per dispersi.
Francesco era un atleta, un instancabile lavoratore, non si scoraggiava
facilmente. Se soltanto v’era una possibilità di tornare a casa, certamente
l’avrebbe afferrata. Da allora, l’attesa è diventata motivo di vita:
contrariamente al marito che, realista, iniziò a diluire il dolore
nell’osteria, lei aspettava fiduciosa sull’uscio di casa il passo felpato del
figlio. Il 23 ottobre del ’47, a entrare in casa, tuttavia, fu il destino che,
non pago, le portò via anche il compagno. Incassò il colpo cancellando dalla
mente l’evento; da allora, ogni mattina si sveglia, vive la giornata d’attesa
nella piccola stazione, convinta che il marito sia all’osteria e, passato il
treno delle 19.08, fa ritorno a casa; beve una tazza di caffè e latte, recita
il rosario e, senza aspettare il rincasare di quello scellerato del marito, se
ne va a letto. Chiudendo gli occhi, cancella dalla mente l’intera giornata.
La
mattina scorre riscaldata da un sole quasi agostano; altri convogli sfrecciano
sfiorando la stazione, altri vi fanno sosta con un esiguo scambio di
passeggeri. Una quotidianità scandita da orari fissi, che Maria conosce a
memoria come i santi del paradiso, cui, tutti i giorni, invoca
un’intercessione.
Passato
il locale delle 12.17, Maria si alza dalla seggiola, vi depone il lavoro a
maglia e, lisciandosi il grembiule a motivi floreali, si appresta a lasciare il
locale. Il capostazione le augura buon appetito, lei risponde con un cenno
della mano e si avvia a piccoli passi verso l’uscita, ma, stranamente, il
fischio dell’espresso è seguito da una fermata imprevista.
Maria
ha un sobbalzo; si volta, vedendo la vettura rallentare sino a fermarsi: per la
prima volta dopo anni, cammina sino ai binari, fissa il vagone verde oliva
davanti lei. Il cuore le batte forte. Si apre una porta della terza vettura
dopo la locomotiva: ne scendono due ragazzi e il capotreno. Il capostazione
parlotta con questi che, indirizzato un gesto ingiurioso ai due, dà il via
libera al macchinista risalendo in vettura. Il treno riprende la sua corsa.
Maria guarda i due
ragazzi che camminano con fare smargiasso. Il capotreno, vedendola turbata, le
si avvicina. «Erano senza biglietti e tantomeno soldi» spiega. «Li ha scaricati
qui per dargli una lezione».
Maria
sospira; per un istante, aveva sperato in un risarcimento del destino. Si volta
senza dire nulla e lascia la stazione: deve mangiare, mantenersi in salute per
il ritorno di Francesco.
Nella
canicola pomeridiana, il lavoro a maglia procede a rilento: a volte il rovescio
scansa il dritto, riproponendosi più volte. Maria, con pazienza, disfa e
ricomincia, ma gli occhi le bruciano, le palpebre calano adagio assieme alla
testa che ciondola a volte in avanti, a volte all’indietro. Decide di
arrendersi a un breve pisolino.
Il riposo è interrotto,
però, dallo schiamazzo di un bimbo che, entusiasta, entra nella sala
trascinandosi dietro il nonno. Vuole vedere i treni, sentirne il boato quando
sfrecciano sui binari, percepirne l’odore, lo sferragliare e il bisbiglio della
corrente nei fili appesi. Oggi spera di scorgere le scintille del pantografo.
Il
nonno lo convince a fatica ad aspettare all’interno della sala: fuori infuria
la canicola. Il bimbo non riesce, però, a star seduto. Sfiora con le dita le
pareti tinte a smalto, saltella, infila l’indice fra le bacchette di metallo
che formano la panca. Fissa Maria; ne conosce la storia, per sentito dire.
Prova dispiacere per lei, sa cosa significa perdere qualcuno cui si è
affezionati: lui ha perso Ringhio, il suo cane.
Il
treno, intanto, ha sospeso la propria corsa; piedi stanchi scendono gli
scalini. Il bimbo presta attenzione solo allo sguardo di Maria, che fissa la
porta che dà sui binari. Occhi esausti che cercano un volto ormai in bianco e
nero, come nell’ultima fotografia, in cui indossa la divisa.
Il
bimbo, con passo cauto per non disturbare, le si avvicina. I due sguardi si
incrociano, gli occhi piccoli di Maria si perdono nell’immensità azzurra di
quelli del bimbo. Vi scorge emozioni bandite dal suo cuore. Vede schiudersi un
corridoio, che collega il presente al tempo sospeso nella sua mente. Un
contatto che le toglie il fiato. Gli occhi le si inumidiscono; per un istante,
smette di pensare a Francesco, vive il presente nella tenera innocenza del
bimbo.
Il
piccolo le sfiora la mano. Il viso di Maria riscopre il sorriso. Le costa
fatica, quanto tornare a camminare dopo mesi di allettamento. Un sorriso
stentato, che fa a pugni con le lacrime che le rigano le guance.
Il
bimbo s’intimorisce, si ritrae sentendo la colpa del pianto. Maria riprova un
altro sorriso, questa volta più naturale. Alzato il braccio, allunga la mano
tremante cercando la guancia del bambino. La sfiora, cogliendone il calore.
Il
fischio del treno entra nella sala, spezzando il filo di pensieri che unisce i
due. Maria ritrae il braccio e smorza il sorriso, tornando al lavoro a maglia.
Il bimbo le volge le spalle e, tornato dal nonno, lascia la stazione.
di Pierangelo Colombo, edito nella raccolta: Prospettive (2017)
di Pierangelo Colombo, edito nella raccolta: Prospettive (2017)
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