A volte dimentichiamo le nostre radici, accantoniamo i
ricordi volgendo lo sguardo al futuro; basta uno sguardo, però, per
riassaporare malinconie di un tempo lontano, riti e abitudini che ci hanno resi
felici, persino il sapore di cibo povero sa arricchire le nostre memorie.
La piccola Awa e il leone
«Ehi, piccola, il gatto ti ha mangiato la
lingua?» chiede mamma Arame rivolgendosi ad Awa che, con il muso appiccicato al
finestrino dell’auto, ammira rapita l’alba del nuovo giorno. Il sole, sbucando
dalle fronde di un pioppeto, tinge di rosa delle nuvole rade nel cielo. Awa si
volge a lei, mostrando un sorriso gioioso.
«Papà?
I leoni sono già svegli a quest’ora?» domanda Awa, sbirciando gli occhi del
padre nello specchietto retrovisore.
«I leoni sono pigri» risponde lui. «Dormirebbero
tutto il giorno se non ci fossero le leonesse a tenerli svegli».
«Proprio come papà, se non ci fossi io»
interviene la mamma con un sorriso malizioso. L’euforia della piccola Awa ha
contagiato l’intera famiglia. Da giorni agogna questa gita programmata da
tempo: finalmente, al parco zoologico, avrebbe visto i leoni.
I
genitori lasciarono il Senegal che lei aveva appena compiuto i tre anni. Troppo
piccola perché abbia dei ricordi di quella terra lontana, dove il sole e la
sabbia si fondono formando povertà e profumi, colori e magia; Awa non ricorda
nulla, se non immagini create dalla propria fantasia attraverso i racconti di
papà Khadim. Storie di leoni, gazzelle, topini e conigli. Favole dalle ali
sottili, ma capaci di far volare la fantasia. Planando su pianure, mari,
deserti e montagne, l’immaginazione di Awa arriva in quei luoghi dove il cielo
pare così vicino alla terra che soltanto la forza degli alberi ne impedisce la
caduta. Dove le notti sono rischiarate dalle stelle e dalla luna brillante.
Awa ha otto anni e non ha mai visto un leone
in carne e ossa, anche se a scuola tutti i compagni credono il contrario; è
naturale che, vedendo la sua pelle d’ebano, la prima domanda sia: “Hai mai
visto un leone?”. Perché, nero equivale ad Africa e Africa significa leone,
elementare. Avrebbe dovuto spiegare loro che nemmeno suo padre ne aveva mai
visto uno, se non sui libri di scuola, in un’aula ricavata nella capanna più
grande del villaggio, dove l’unico animale feroce era un vecchio cane, famelico
sterminatore di topi da granaio.
Awa,
però, aveva tralasciato ogni delucidazione, trovando più appropriato raccontare
aneddoti inventati di sana pianta su incontri ravvicinati con il re della
savana. Non era solita raccontare bugie, ma così facendo si sentiva al centro
dell’attenzione. I visi dei compagni, trasognati, pendevano dalle sue labbra:
non si sentiva più la bambina di colore perennemente sotto esame, ma una
piccola eroina. In ogni caso, anche loro ci andavano giù pesante: chi era amico
di Kakà, chi di Valentino Rossi.
E ora che il bioparco sta per diventare una
realtà, è felice, impaziente di vedere un leone vero, da vicino. Da oggi, le
sue storie saranno un po’ meno inventate.
L’emozione
raggiunge il culmine quando, scendendo dall’auto, sente i versi di alcune
belve. Non trattiene oltre l’entusiasmo; fare i biglietti le pare una perdita
assurda di tempo. Alcuni inservienti stanno ancora finendo di ripulire le
voliere dei pappagalli quando Awa e i suoi oltrepassano finalmente i cancelli.
«Possiamo vedere subito i leoni?» domanda
Awa, strattonando il braccio del padre.
«Perché tanta fretta? Non scappano mica,
sai?»
«Ti prego, papà» supplica, spalancando gli
occhi.
«Va bene, andiamo a
salutare il risveglio del re» accondiscende, incapace di resisterle. Spiega la
cartina del parco e, studiando il percorso, s’avvia alla ricerca del recinto,
mentre la piccola trotterella felice e impaziente al suo fianco.
Una
dopo l’altra, si succedono le diverse recinzioni dove brucano placidi una
coppia di gnu, un branco di gazzelle e una famigliola di zebre che, ancora
sdraiate, muovono la coda. L’imponenza di un rinoceronte scalfisce appena
l’impazienza di Awa, la cui fantasia cancella gli steccati e le reti di
protezione trasformando il parco in una vera savana. Gli alberi sparsi nel
parco si trasformano in cespugli spinosi, in imponenti baobab, dai cui rami
alcuni leopardi sonnacchiosi osservano i loro movimenti.
«Ecco!
Awa ti presento i leoni; leoni, questa è la piccola Awa, principessa dell’oasi
orientale» recita pomposo il padre, indicandole la grande gabbia. Oltre le
spesse sbarre di ferro, sdraiata per sorbirsi il tepore del sole c’è una coppia
di vecchi leoni, mentre un pettirosso si pavoneggia su di un masso poco
distante. Scorgendoli, Awa sente montare l’emozione, quasi le viene da
piangere.
Accigliato
e con gli occhi socchiusi, il maschio se ne sta con la testa ritta a mo’ di
sfinge, mentre la femmina è placidamente sdraiata su di un fianco.
Sospendendo
il respiro, Awa contempla i suoi idoli mangiandoseli con gli occhi. Starebbe
ore a osservarli, affascinata dalle possenti zampe, la folta criniera, il pelo
traslucido, le grandi fauci. Sverrebbe al solo udirne il ruggito, ma quando il
suo sguardo incrocia quello del vecchio leone, la felicità sembra infrangersi
come un bicchiere caduto sul pavimento. Occhi di un bruno opaco, spenti e privi
di qualsiasi desiderio. Scendendo verso le guance, due piccole striature nere
sembrano disegnare il percorso di una lacrima.
Awa ha un sussulto: nello
sguardo del leone vede solitudine e frustrazione, un sovrano senza regno che,
oziando, sogna le distese libere e selvagge della savana. Occhi che bramano le
sconfinate pianure, il sole immenso, un branco da guidare e proteggere, mentre
l’aria calda sa di polvere e sangue. Awa pensa a quanto straniero possa
sentirsi il leone in questo mondo che non gli appartiene; a quanto stretta e
fredda deve sembrargli la gabbia che ne imprigiona e stempera l’istinto.
La
malinconia che prova la rigetta nel ricordo dei primi giorni di scuola: giorni resi
tristi dal sapore amaro dell’inadeguatezza; esperienza che le aveva fatto
assaporare lo scherno, la diffidenza, il pregiudizio e l’ipocrisia. Giorni in
cui la propria diversità aveva attirato occhiate e curiosità, come il leone
richiama gli sguardi dei visitatori. Leone che non per scelta o necessità ha
lasciato la terra natia, il territorio dei propri avi a lui destinato, ma che
l’uomo gli ha sottratto arbitrariamente.
Lo
sguardo del leone riporta Awa alla crudele realtà; la sua fantasia si dissolve
come foschia mattutina lasciando affiorare gli steccati, le sbarre grigie e
fredde, mentre i baobab tornano a essere alberelli scortecciati dagli artigli
dei felini.
Awa alza gli occhi verso
quelli di suo padre; cerca sollievo, calore e un rifugio dalla malinconia.
Gli
occhi di papà sono rivolti lontano, per scrutare qualcosa che fluttua nello
sguardo del re: un paese lontano, radici che ridestano il desiderio di riti,
usanze, sapori. Profumo di cibo povero, ma insaporito dal calore umano. Voci,
visi, profumi custoditi negli scrigni dei ricordi riemergono colmandolo di
malinconia, emozioni penetranti quanto il profumo del nardo selvatico.
Awa
coglie la sofferenza del padre, la delusione di sogni demoliti da una cinica
realtà. Capisce ora il tono nella voce con cui, entusiasta e sommesso al tempo
stesso, le descriveva il suo villaggio, la famiglia, l’aria e i colori.
Comprende il vecchio leone e Khadim: soffrono gli stessi ricordi, lo stesso
malinconico mal d’Africa.
«Papà! Andiamo via?» chiede, con un filo di
voce.
«Certo, piccola mia».
Khadim
avvicina a sé la bambina che, con occhi lucidi, si stringe a lui affondando il
viso nella camicia, respirandone il profumo di sandalo. Si allontanano
lasciandosi alle spalle la gabbia dei leoni; Awa non dimenticherà mai lo
sguardo del re senza più un regno.
di Pierangelo Colombo, edito nella raccolta: Prospettive (2017)
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