Il primo giorno
di scuola, specie passando dalla primaria alla secondaria, può essere carico di
aspettative, ma anche di ansie. Se poi i genitori, loro malgrado, sono una
fonte di imbarazzo, allora, la frittata è fatta.
Oggi voglio dedicarvi un racconto breve, ironico, ma con una
sottile vena di realismo.
Buona lettura.
Il primo giorno di scuola
La zampa di un orso con lunghi artigli. Una
tartaruga con un passero sul guscio; la testa di un rinoceronte
Esamino tutte le venature
maculate delle piastrelle, creandone figure astratte. Un misero tentativo di
frenare i pensieri che, a centinaia, sembrano lanciarsi in picchiata dal
cervello sino a rimbalzare nello stomaco come palline da ping-pong.
«Lara?
Sei ancora viva? Sono le sette e mezza!»
«Sì,
papà, ho finito».
Sono
diciassette minuti che me ne sto seduta sulla tazza del cesso. Secondi che, a
intermittenza, sfrecciano come una moto giù per la strada per poi farsi lunghi
come una quaresima. Le gambe indolenzite iniziano a farmi male. Un miscuglio
d’ansie mi contorcono le budella scacciando ogni bisogno corporale.
Undici settembre: mai
ricorrenza nefasta poteva essere così azzeccata nel combaciare con il mio primo
giorno di scuola. Scuola Secondaria di Primo Grado, mi correggerebbe la maestra
Elena; perché gli adulti devono sempre complicare ogni cosa? Perché, quando i
miei genitori si sono sottoposti a questa tortura si limitavano a chiamarla
scuola media?
Già, la maestra Elena;
oggi non troverò il suo volto rassicurante. Fra poco meno di un’ora conoscerò i
nuovi professori: Mariani, Cazzaniga, Frisoni, nomi e cognomi che in questi
brevi, troppo brevi, mesi estivi ho imparato a memoria. Così come ho
memorizzato, a mo’ di poesia, l’elenco dei compagni che andranno a comporre la
prima B. Oggi non avrei certo difficoltà a chiamare l’appello. Ho trascorso ore
stesa sul letto, magari durante un temporale, a studiare, attraverso
l’onomastica, i probabili compagni di persecuzione; cercando d’assegnare un
volto ad ogni nome, immaginandone il profilo di simpatia, avvenenza o
smorfiosità. “Nome omen” come dice a volte papà; cosa ci si può aspettare da
una Daria Tromba o da una Rosa Pisello? Per non parlare di Felice Vaccaro.
«Lara!
Non vorrai far tardi il primo giorno?»
«Arrivo,
papà! Arrivo!».
Perché?
Perché fra me e quella peste di mio fratello ci dovevano essere proprio cinque
anni di differenza? Perché la mamma ha scelto di accompagnare lui nel suo primo
giorno di scuola, lasciando a me papà? In fondo, si tratta soltanto della prima
elementare, la succursale della materna; il mio, invece, è un tuffo nel buio.
Con papà, poi, una persona che saprebbe metter ansia al Dalai Lama.
Sono
mesi che mi ripeto che, in fondo, è una scuola come le altre, che non ho nulla
da temere, a parte le notizie dei telegiornali catalizzate dall’ansia crescente
di mamma: bullismo, baby gang, pedofilia, droga, fumo e pediculosi. Certo,
sarei più tranquilla se ci fosse almeno uno dei compagni della primaria. Un
viso conosciuto; mi accontenterei persino di Samu: il massimo dell’antipatia,
una vera macchinetta per far peti e produrre caccole, ma pur sempre amico mio.
Invece no, il “papi” ha deciso che sarebbe stato meglio per me frequentare la
scuola che ha instillato in lui il sapere, che ha dato inizio alla sua ascesa
verso l’olimpo del potere; scuola che, per giunta, è di strada verso il suo
studio. Non importa se non conosco nessuno, o se si trova dall’altra parte di
Milano. Così ha deciso e così è; l’ha sancito con un colpo di mano sul tavolo,
come fosse il martello del giudice.
Dio,
ti prego, fa che quella che vedo nello specchio non sia io imploro. Uno
scorfano avvolto nella carta da regalo. Sembra che abbia rispolverato il
vestito della prima comunione; cosa c’era di male in un paio di jeans
scoloriti, una t-shirt di una misura più grande e un paio di Nike? Invece no,
papà afferma che è la prima impressione quella che conta: “Siamo quello che
appariamo”, ma così conciata sembro l’ultima figlia della serva.
La
mamma, poi, mai una volta che mi capisse; probabilmente lei è nata adulta,
“imparata”, non ha vissuto la mia età, non ricorda l’imbarazzo di presentarsi
davanti a venticinque coetanei vestita come un manichino di Armani, con una
capigliatura che urla: “Arrivo ora dal parrucchiere” e dei brufoli spuntati
nella notte come funghi.
«Uè,
Nani, forza che la storia ti aspetta».
«Ho finito, papà».
Vorrei
morire. Ho una gran voglia di piangere, ma devo trattenermi; oggi ci
mancherebbe soltanto la paternale sulla sicurezza in me stessa, l’autostima, il
mondo è dei forti e mille pippe su come lui ha fatto questo e ha fatto quello.
Un cazziatone intergalattico in grado di farmi sentire una merda, estranea alla
sua dinastia.
La
testa mi scoppia; domande, dubbi vi frullano formando paure: e se Chiara avesse
ragione? Se la media del nove mi fosse stata “regalata” dalla maestra Elena
perché le ero simpatica? Se papà non fosse un uomo importante avrei avuto gli
stessi voti?
Affronto
a testa alta il corridoio che dal bagno porta alla camera da pranzo. Dissimulo
ogni emozione avviandomi verso la tazza di latte che, come cicuta, mi attende a
tavola. Vorrei fuggire, prendere il tram che porta in centro, vagare per le vie
stemperandomi nella gente. Mi seggo, invece, sorridendo a papà che,
incravattato, mi porge i biscotti. Lo stomaco è asserragliato come Troia
assediata dagli Achei. Perlomeno, qualche nozione di storia affiora dalla
nebbia che offusca il cervello.
La
fame mi è più lontana di Alfa Centauri. Il latte, che ingurgito a forza, sembra
scivolare nello stomaco come pioggia su di un terreno troppo arido. Vorrei
evitare questa tortura che mi lascerà lo stomaco in subbuglio per tutto il
giorno, ma gli occhi di papà mi sorvegliano come un secondino che controlla il
prigioniero pronto alla fuga.
«Andiamo!»
esclamo, per sospendere un gioco che non riesco più a sostenere.
«Certo;
sistemo una cosa e arrivo» risponde papà, scartabellando scartoffie nella sua
borsa da lavoro. Mi seggo sul bracciolo del sofà, mentre lo sguardo corre a una
foto di famiglia, a quando si viveva ancora tutti sotto lo stesso tetto. Una
foto che sembra sbucata dal film La stanza del figlio, dove, sorridenti,
non immaginavamo ancora lo svincolo che avrebbe separato le nostre strade.
Il
pensiero corre a mamma che, a casa, starà vestendo Nicolò, sicuramente
imbambolato davanti alla tivù, mentre la cartella nuova anela di salirgli in
groppa.
«Presto.
Presto che è tardi!» tuona papà, mentre, come la dea Kali, con le mani riesce
ad afferrare: borsa, chiavi, occhiali da sole, iphone e giacca. Il rumore della
serratura, che sigilla la porta blindata, riecheggia per il ballatoio, mentre
il vociare di una signora risale la tromba delle scale.
L’odore
di nuovo contrasta con l’aria vissuta e i post-it sparsi sul cruscotto del SUV
di papà. Ho sentito soltanto parlare della teoria della relatività, e spero
sinceramente di non doverla approfondire, ma quale esempio più esaustivo della
guida di mio padre per dimostrare che il tempo è relativo? L’orologio sul
cruscotto sembra frenato dalla velocità con cui sfrecciamo, scartando le altre
auto come fossero birilli. Non mi stupirei se arrivassi a scuola un minuto
prima di quando sono salita in auto.
L’uscita
della tangenziale segna il punto del non ritorno: imbucato viale Padova nessuno
potrà più salvarmi; mille occhi m’attendono, con scherni, battute e derisioni
per l’apparecchio ai denti, i vestiti, i brufoli, la pancia, le scarpe, le
unghie e persino la marca del dentifricio che uso.
La macchina rallenta,
tuffandosi nel traffico cittadino. Scatta allora l’illusoria furbizia di papà:
scartando di lato, aggredisce vicoli tortuosi come un predatore che piomba
sulla sua cena. Un bisonte che si crede agile come un furetto, ma s’incaglia
nella prima strettoia insultando il destino e la scaltrezza di altri che, come
lui, erano convinti d’aver scovato la chiave segreta del mondo.
L’edificio
scolastico affiora da dietro un angolo nella sua cruda austerità. Finestre
aperte, pronte a inondarci di sole e sonnolenza. Lo scarto improvviso dell’auto
mi scaraventa contro il finestrino, appena in tempo per scorgere il dito medio
alzato di un ragazzo, cui abbiamo tagliato la strada impedendogli di
attraversare sulle strisce. Afona getto uno sguardo a papà che, imperturbabile,
sorride sottintendendo un: “Tutto a posto, Nani!”
“Ti
prego, fai che non sia della mia scuola; fa che non mi riconosca” supplico il
Dio dei liceali. Preghiera interrotta, però, quando, investendo una
pozzanghera, schizziamo un gruppo di ragazzine che, furibonde, c’indirizzano
una sequela d’insulti. Vorrei sprofondare ma, impietrita, resto a far bella mostra
di me, lasciandogli il tempo di abbozzare un identikit dettagliato. Le lacrime
stanno per tracimare, mentre il volto imperterrito di mio padre scruta un
possibile parcheggio. Vorrei urlargli di andar via, di portarmi a fare una
plastica facciale, di spergiurare di non essere mio parente, ma un vicino che
si è offerto per un passaggio. Ma al peggio non v’è fine: un posto libero fra
una fila di auto appare a illuminargli il volto. Una berlina s’è già fermata e,
inserendo la retro, mostra l’intenzione di impossessarsene. Un topino al
confronto del volpone di mio padre che, con un affondo sull’acceleratore e un
colpo di clacson, spegne sul nascere ogni illusione della sprovveduta al
volante.
«Ma
papà, è arrivata prima lei» sbotto, non trattenendo la stizza.
«Vince
il più forte! Ricorda, nani, il mondo è dei furbi».
Impietrita,
volgo lo sguardo alla signora che, furibonda, abbassa il finestrino
apostrofandoci come incivili, rozzi e coglioni. Impavido e noncurante, mio
padre scende per accompagnarmi sin dentro il cortile della scuola. Vorrei
restare sola, scappare, piangere, ma la confusione in cui sono sprofondata è
tale da sembrare un’ameba agli occhi dei futuri compagni. Sto ritta, con il
capo chino, come uno struzzo che non sa dove nascondere la testa. Ascolto
l’incaricato fare l’appello, raccogliendo le reclute delle prime. «Agostani
Ilaria, Bellini Sara».
“Ecco,
tocca a me; fra Buzzi e Crippa ci sono io”.
«Buzzi
Samuele, Colussi Lara, Crippa…»
Una
scarica elettrica mi investe, come il suono del gong che dà inizio a un
incontro di pugilato. Alzo la testa, non per il coraggio ritrovato, ma
semplicemente per non andare a sbattere da qualche parte. Mi dirigo verso la
fila della prima B che va costituendosi; davanti a me il ghigno soddisfatto di
Buzzi Emanuele: il ragazzo del medio alzato.
Il
cuore mi si ferma. “Grazie, Dio, che ascolti sempre le mie preghiere”. Mi volto
per non guardarlo e noto le ragazze con i vestiti inzaccherati che mi fissano
astiose dall’ingresso: “Perfetto, sicuramente saranno di seconda o, peggio, di
terza”.
Le
lacrime iniziano a colarmi lungo le guance, la vista si fa acquosa ma,
nonostante ciò, riesco a riconoscere nella professoressa davanti a noi la donna
del parcheggio.
Chi
ben inizia…
Di Pierangelo Colombo; edito nella raccolta Prospettive,
2017
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