Il terrorismo, di qualunque matrice, politica,
ideologica o religiosa, è una delle più bieche e barbare azioni che un uomo
possa compiere. A farne le spese sono persone innocenti e inermi, inconsapevoli
che un’azione folle possa mettere termine alla propria vita e segnare di un
dolore incancellabile quella dei sopravvissuti.
Oggi vorrei dedicare questo mio
racconto a quelle persone cui è stata negata la libertà di vivere e gioire. Per
non dimenticare mai le vittime.
Mai dimenticherò
Nello
scorrere della vita accadono avvenimenti in grado di deviarne la traiettoria.
Eventi improvvisi che ci piombano addosso come una slavina che investe un
giovane albero, piegandolo sin quasi a sradicarlo. Il tempo aiuterà la sua
determinazione a crescere e il tronco tornerà perpendicolare al terreno, ma
alla base, a memoria, ci sarà sempre quella piega, quella curvatura, a
rammentare la violenza subita.
A
distanza di anni, i ricordi sono ancora nitidi. La stazione Termini era un
brulicare di gente; lingue straniere formavano un’intricata ragnatela dove
s’impigliava la voce che, dal megafono, annunciava partenze e ritardi, mentre i
carrelli, carichi di bagagli, intralciavano il passaggio.
«Eccolo!
È il nostro» gridò mio padre, all’annuncio dell’espresso Roma-Monaco di Baviera
con il relativo binario. Il timore di restare senza posti a sedere ci fece
scattare in una sfida contro gli altri passeggeri. Momenti concitati di cui
serbo ancora il ricordo, come l’odore del convoglio ferroviario, la vernice
opaca dei vagoni, i lunghi corridoi percorsi nell’affannosa ricerca di tre
posti liberi. Gli scompartimenti allineati come piccole cellette dove i
passeggeri ronzavano sistemando i bagagli.
La
tensione venne smaltita quando, preceduto dai tonfi degli sportelli, il
convoglio iniziò a muoversi pigramente, lasciando Roma incendiata da un
tramonto estivo. In breve, gli scompartimenti si tramutarono in bivacchi:
l’odore di soppressata e cotolette impanate si mescolava al vociare allegro
della gente che, trascorsi pochi minuti, aveva fatto conoscenza presagendo
quella caciara che mitiga la noia del viaggio.
Personalmente, ero
annoiato dai discorsi degli adulti; sbruffando, andai in cerca di qualcuno con
cui scambiare due chiacchiere. In barba alle raccomandazioni di mia madre,
decisi di varcare quella soglia inquietante che, sferragliando, separava la
nostra vettura dalla seguente. Richiusa la porta alle spalle, vidi, seduto nel
corridoio, un ragazzetto dai capelli scompigliati intento a sfogliare un mazzo
di figurine.
«Ce
l’hai Chinaglia?» chiesi, palesando l’orgoglio laziale.
«Certo!»
rispose. Il ghiaccio era rotto: nulla era più propizio di un mazzo di figurine
per far amicizia. Per qualche strana alchimia, nacque subito una confidenza
spontanea; ci raccontammo in breve, tralasciando di presentarci: a volte, i
nomi sono orpelli inutili. Scoprimmo di avere molto in comune: entrambi
quattordicenni, odiavamo la scuola sognando di diventare calciatori
professionisti.
«Io
sono un terzino» disse, orgoglioso.
«Io
attaccante» ribattei, tronfio. Esaltandomi, mi attribuii dei gol che «Pelé se
li sogna». Fantasticammo campionati dove sfidarci in partite memorabili; sfide
che, a confronto, Italia-Germania era una partitella da oratorio.
«Il
mio campione!»
La
voce di sua madre ci colse di sorpresa: era uscita in corridoio e, passando,
gli fece una carezza scompigliandone i capelli. Lo vidi avvampare per la
vergogna, ma lo compresi.
Il
buio, intanto, era sceso a nascondere il paesaggio. Le luci del vagone
trasformarono i finestrini in specchi dove fluttuavano i nostri riflessi. Il
tempo volava, gareggiando in velocità con il convoglio; le luci delle stazioni
sfilavano come lampi oltre il finestrino. Prossimi a Firenze, molti viaggiatori
si erano appisolati mitigando il vociare. La quiete fu interrotta
dall’improvviso scappellotto di mio padre che, furioso, mi stava cercando.
Sorbii la paternale lungo il tragitto verso il nostro scompartimento. Mesto, mi
sedetti accanto al finestrino cercando di carpire i profili di un paesaggio
appena accennato dalla luce della luna.
Oltrepassata Firenze, il
convoglio iniziò a intrufolarsi fra le valli appenniniche sferragliando nelle
gallerie; nella vettura c’era silenzio quando, poco dopo la mezza, lo vidi
apparire nel corridoio mostrandomi fiero la figurina di Chinaglia. Chiesi il
permesso di uscire.
«Tieni»
disse, offrendomela. «Tanto per me è doppia».
«Grazie»
risposi, trattandola al pari di una reliquia.
«Hai
una ragazza?» chiese, in un bisbiglio.
«Certo»
risposi, arrossendo per la meschina menzogna.
«C’è
una ragazza che mi piace, ma non so come fare» si confidò, abbassando lo
sguardo e facendosi paonazzo. Ricordo ancora il luccichio degli occhi nel
descrivermi quella che considerava la ragazza più bella del mondo. «… e poi ha
una piccola voglia sotto l’occhio destro, proprio sopra lo zigomo. Una
macchiolina color cappuccino a forma di goccia».
Sospirava
descrivendola, s’illuminava con sorrisi immensi appena velati di rimpianti e
imbarazzi.
«Fino a qualche mese fa
era solo una compagna di classe come le altre» disse. «Siamo stati vicini di
banco e non ho mai provato nulla. Ma un giorno, non so come, nel vederla
entrare in classe mi sono sentito mancare, come una pallonata nello stomaco che
ti lascia senza fiato. Da allora, non riesco a pensare ad altro. Per lei rinuncerei
a qualunque partita».
Quell’affermazione
mi lasciò sbalordito: per me era una bestemmia.
«Ma non trovo coraggio di
farle capire…» Sospirò, cercando consiglio. «Ho comprato questo per lei; credi
le piacerà?» chiese, mostrandomi un braccialetto di cuoio intrecciato. «Però,
non so come darglielo». Era cotto quanto una pera, ma non trovava nemmeno il
coraggio per un apprezzamento.
Del tutto impreparato
sull’argomento, proferii bestialità inconcepibili con il senno di poi. Battute
di film mal digerite e, quindi, maldestramente adattate alla situazione. Lui
ascoltava speranzoso, attento a non farsi sfuggire una parola; credo, però, si
sia reso conto della mia puerilità. Per non offendermi, finse interesse, ma
l’espressione delusa fu eloquente. Il treno, intanto, ci sballottava scorrendo
sui binari che seguivano le valli buie. Parlammo sino a quando gli occhi
iniziarono a bruciare per il sonno represso. Fu allora che ci salutammo;
nessuna stretta di mano o scambio d’indirizzi, soltanto un semplice e onesto
“ciao”.
Accucciatomi
al mio posto, pensavo alla meta ancora lontana, mentre il dondolio della
carrozza mi cullava incoraggiando il sonno.
Dormivo
della grossa quando, improvviso, un boato parve squarciare la terra, seguito da
uno scossone impressionante che, in un batter di ciglia, mi sbalzò sul
pavimento. Una cannonata esplosa a poca distanza, un’esplosione che rimbombò
nella galleria sballottando il treno. Un boato che ancor oggi, come una
bastonata, va a spezzare la ragnatela di ricordi riducendo la trama in un
ammasso di grovigli.
Il
bagliore, le urla, il fumo. La paura che saettò nella vettura illuminata
soltanto dalle fiamme che provenivano da fuori. Il fumo acre e denso che
penetrava da ogni fessura assieme a un calore allucinante. L’odore nauseabondo
di morte che si spandeva, terrorizzandomi. E poi le urla, gli strilli di dolore
che penetravano nel cervello come aghi incandescenti.
Rammento
le mani di mio padre che, afferrandomi, mi strapparono dall’inferno portandomi
fuori, in una corsa verso i campi. Da lì, la visione spettrale del vagone in
fiamme; il treno pareva una bestia ferita, mentre delle torce umane,
strillando, si divincolavano al suo interno.
Era
il 4 agosto ’74 e il treno si chiamava Italicus; dati che, prima dell’una e
ventitré di quel giorno, erano insignificanti per un ragazzo della mia età,
mentre oggi, restano come una cicatrice a rammentarmi l’ineluttabilità del
destino. Seduto in quella maledetta carrozza avrei potuto esserci io. Il mio
nome, assieme a quello dei miei genitori, sarebbe potuto comparire fra i dodici
martiri di quella follia umana. Dodici morti, fra cui un ragazzino di
quattordici anni e la sua famiglia. Un ragazzino dai sogni e dalle speranze
comuni, un ragazzino come tanti, ma a cui è stato negato il diritto sacrosanto
di vivere e amare.
Quel
viaggio cambiò la mia vita: smisi di giocare a pallone, così come non presi mai
più un treno. In quel viaggio, su quel convoglio, assieme alla spensieratezza e
alla figurina di Chinaglia, persi un amico.
Quel
boato, come un colpo di spugna, cancellò i miei sogni e la mia fanciullezza
scaraventandomi in un mondo di incubi e paure.
Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono
il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del
deserto.
Elie Diesel
Di Pierangelo
Colombo; edito nella raccolta Prospettive (2017)
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