Stereotipi,
pregiudizi, cattiverie gratuite; a volte le parole possono essere pietre, dure,
acuminate e letali. Come può una ragazzina sapersi difendere dai luoghi comuni?
Quanta sofferenza nel vedersi tramutare un desiderio realizzato in un incubo.
Oggi voglio
presentare un mio racconto breve dedicato proprio ai pregiudizi della gente.
Buona lettura.
Una felpa fucsia
Passo leggero
e un’espressione rilassata, da cui traspira un’euforia insolita; chiunque
conosca Erika abbastanza bene giurerebbe, nel vederla camminare spedita e
briosa con lo zaino sulle spalle, che sia all’ultimo giorno di scuola e, con
l’eco dell’ultima campanella nelle orecchie, brami di gettare i libri sulla
scrivania dimenticandosene per l’intera estate. Ma il calendario confuta questa
ipotesi: è il 7 gennaio; i mucchi di neve sporca negli angoli della strada ne
danno testimonianza. La direzione che la ragazza percorre, oltretutto, non
l’allontana dalla scuola, ma conduce dritta proprio là, dov’è lo stridore di
denti.
Erika sembra
ansiosa di riprendere le lezioni interrotte dalle vacanze natalizie, ma la sua
testa è ad anni luce dalle particelle pronominali. La sua euforia è legata a
una felpa, anzi “la” felpa: capo che, secondo le vestali della moda giovanile,
è credenziale assoluta per conquistare un posto nel club delle ragazze in.
Seguendo la
transumanza lavorativa del padre, Erika si era trasferita nella cittadina sul
finire dell’estate. Rimpiangendo i compagni della primaria, a settembre aveva
dovuto fronteggiare non solo la novità della prima media, ma anche una selva di
coetanei del tutto sconosciuti e, soprattutto, quel suo cognome che la bolla
quanto una lettera scarlatta: Radoz, casata che la marchia indicandone le
chiare origini slave. Extracomunitaria, come se la parola indicasse una
scientifica inclinazione, incisa nel DNA, a delinquere. Nero su bianco, i
titoli dei quotidiano certificano: “ Catturata banda di slavi”; “Gli aggressori
avevano l’accento balcanico”; “Extracomunitario scippa pensionata”. Benzina sul
fuoco della sovrana vox populi.
Erika sperava
di lavare la propria “colpa” adeguandosi allo stile di vita delle coetanee. Fin
dal primo giorno di scuola, si era sentita una recluta in abiti civili
inquadrata in un plotone di commilitoni in alta uniforme. Era orgogliosa,
quindi, della felpa fucsia che indossava, costata un vero salasso ai propri
genitori. Avrebbe voluto togliersi il giubbotto per esibirla come un trofeo,
proprio come da mesi faceva Chiara che, femmina alfa, l’indossava come una
seconda pelle.
«Ciao» la
salutano le compagne al suo arrivo.
«Ciao»
risponde Erika, impaziente di sfoggiare la felpa.
«Hai sentito
cosa è successo a Chiara?» Capta la conversazione fra due compagne. «L’altra
sera, i ladri le hanno svaligiato casa».
La notizia
getta Erika nel panico: l’ennesimo furto comporta l’ennesima accusa sottintesa
alla sua gente, a suo padre; opinione dettata da stereotipi collaudati: rumena
è uguale a prostituta, albanese è uguale a ladro.
«Hanno rubato
oro, orologi, computer. Sua madre ha detto che hanno persino svuotato il
frigorifero, lasciando gli avanzi sul tavolo. Hanno preso persino i vestiti. Anche
quelli della Chiara».
Una scossa
elettrica attraversa Erika, lasciandola basita: la felpa. Chiara aveva la
stessa medesima felpa, stesso il colore, stessa la taglia. Un déjà vu che la
riporta indietro di alcuni anni, a quando, in terza primaria, a un suo compagno
era sparito l’astuccio e, inesorabilmente, l’ombra del dubbio era calata su lei
che, arrivata da poco, parlava un italiano stentato, vestiva gli indumenti
smessi del fratello, ma aveva i pastelli colorati nuovi di zecca, come quelli
del derubato.
Erika sa cosa
significa lottare contro i pregiudizi, le frasi della gente, le occhiate d’accusa
dei compagni, la difesa titubante dell’insegnante. Un’esperienza che l’aveva
portata a non chiedere nulla ai compagni, nemmeno in prestito. All’insaputa
della madre, raccoglieva e conservava ogni scontrino che potesse attestare la
proprietà della cancelleria.
Attonita,
segue il labiale della compagne, ma il pensiero batte come un martello: “E se
Chiara dice che la felpa è la sua?” Le guance avvampano. “Devo stare calma:
arrossire è come confessare”. Chiude la zip del giubbotto sino al mento: “Non
devono vederla” pensa, mentre le dita uncinano il bordo delle maniche,
tirandole il più possibile per coprire i polsi.
La voce di
Chiara deflagra alle sue spalle, una vibrazione che Erika sente scivolare lungo
la schiena come le spire di un boa pronto a soffocarla.
“Devo fare
qualcosa!” pensa, ma il tempo corre veloce e la campanella incombe. In aula,
toltasi il giubbotto, l’avrebbe attesa la berlina.
«Ti senti
bene?» chiede Sara, vedendone il pallore.
«Ho mal di
pancia» risponde, cogliendo la palla al balzo un istante prima del trillo della
campanella.
«Ti prego, di’
che sono assente; torno a casa, non mi sento bene».
«Va bene, ma…»
Sara non ha nemmeno il tempo di rispondere; Erika fugge, scomparendo dietro
l’angolo.
Le lacrime le
scendono calde sulle guance pallide, la felpa si fa rovente addosso. La stessa
felpa fucsia desiderata più di ogni altra cosa, per la quale i genitori avevano
fatto dei sacrifici pur di regalarle un Natale indimenticabile.
Cammina senza
meta lungo la via che esce dal centro abitato. Il cielo plumbeo promette
pioggia, mentre dei muratori imprecano in un cantiere. Pensa a suo padre, ai
sacrifici nel lavoro faticoso; ripensa al pomeriggio in cui l’aveva
accompagnata alla boutique. L’imbarazzo di lui quando la commessa aveva chiesto
in cosa poteva servirlo. Gli occhi lucidi d’emozione per la figlia.
Erika
singhiozza, al pensiero di disfarsi della felpa che potrebbe rivelarsi un capo
d’accusa. Le manca il fiato al pensiero, ma non sopporterebbe gli sguardi dei
compagni.
Come
giustificare alla madre questa sua rinuncia? Conoscendone l’indole, la
matriarca istituirebbe un tribunale inquisitore per carpirne la verità, con le
inevitabili arringhe finali sull’orgoglio, la difesa dei propri diritti e tanti
sacrosanti assalti ai mulini a vento.
Alcune rade
gocce di pioggia cadono a punteggiare l’asfalto come piccoli coriandoli. Erika
si ferma davanti a una vecchia recinzione metallica. Guarda distratta un vecchio
cane che, seduto nel prato, la osserva a sua volta; troppo stanco per alzarsi e
controllare l’intrusa.
Scorrendo
sulla rete gelata, la mano della ragazza scova il capo di un fil di ferro che,
sporgendo, forma un piccolo uncino. Il sangue le si raggela nelle vene quando
l’idea prende forma nella sua mente. Delle mille ipotesi costruite, forse, è la
più dolorosa, ma anche inevitabile. Si sfila il giubbotto e lo appende alla
recinzione; poi, con mano tremante, infila l’uncino nella manica della felpa, poco
sopra il gomito. Trattiene il respiro, come se l’ossigeno sia stato bruciato da
una vampata. Un colpo deciso, e il rumore dello strappo ne percorre le vene
sino a lacerarne il cuore. Uno squarcio che libera rimorsi, collera e
delusione. Le lacrime le rigano il volto, mentre fa ritorno a casa, preparando
le menzogne da raccontare ai genitori.
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