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giovedì 28 febbraio 2019

Lettera da un internato


Durante la seconda guerra mondiale molti furono gli internati, fra questi anche gli IMI: Internati Militari Italiani. Giovani soldati del regio esercito che, dopo l’8 settembre, si ritrovarono allo sbando. Deportati nei campi di lavoro, subirono umiliazioni e fame.
Oggi, attraverso un mio racconto, voglio ricordare quella terribile esperienza descritta in una lettera che un soldato scrive ai propri cari.
Buona lettura.

Lettera da un internato



Reverendo curato,
vi scrivo questa mia lettera sperando possa arrivarvi; il sergente farà in modo di consegnarla alla Croce Rossa.
Scrivo a voi in quanto i miei genitori, povera gente, non sanno leggere; per questo, vi chiedo la cortesia di rassicurare loro: dite pure che sono in salute e che non si prendano pena per me.
Sono prigioniero, assieme a quel che resta del mio plotone, in un campo sul confine della Polonia. C’è tanta neve; il freddo indurisce i muscoli e le ossa dolgono. Anche ora, nello scrivere, la mano trema. Nella baracca ci si scalda con paglia e qualche coperta. Sembra che solo i pidocchi sopportino il gelo: nemmeno lasciando la biancheria al freddo della notte questi muoiono. Fortuna vuole che la nostra baracca abbia i vetri alle finestre; c’è puzzo di piedi, biancheria sporca e sudore, ma, almeno, non c’è aria corrente; spifferi sì, e tanti.
Dite alla mia mamma che mi riguardo la salute, mi copro e di sera la penso sempre. La immagino che esce fora dalla malga a prender legna dal sottoscala.
Ricordo nelle preghiere anche Mario, il mio fratello maggiore; non abbiamo sue notizie da quando è partito per la Russia. Qui al campo ho conosciuto dei reduci del battaglione Verona, dov’era Mario. Non sanno darmi notizie di lui, ma dicono che molti sono stati fatti prigionieri o sono nascosti. Speriamo bene.
Sperare è cosa importante per tirare avanti, anche se costa fatica. Vi confesso che negli ultimi tempi la mia fede traballa come uno zoppo. La sera, quando fa silenzio, ripenso a cosa ho fatto e a cosa mi stanno facendo. Mi domando se Dio ci sta guardando e cosa pensa di noi. Perché lascia che succeda tutto questo? Voi lo sapete, sono sempre stato un buon cristiano, ma adesso ho paura. Paura che, un giorno, dovrò rendere giustificazione per la gente che ho accoppato.
“Credere, obbedire e combattere” ci dicevano, e io ho creduto di fare il mio dovere, obbedendo agli ordini che la patria mi dava, e ho combattuto sparando a uomini che difendevano il loro paese, la loro vita. Io ero tranquillo con la coscienza, perché facevo quello che dovevo. Ora, però, chi ci comandava non c’è più e chi è venuto dopo ci ha abbandonati senza ordini. In un giorno, i nemici sono diventati alleati e i tedeschi nemici. Ci hanno accusato di tradimento. Traditore io, che son sempre stato di una sola parola.
A volte, in sogno, rivedo la faccia dei soldati a cui ho sparato; la voce di quel ragazzo che, in un fosso con la gamba fracassata, urlava come un vitello chiamando la mamma; in Albania si dice ‘mami’. “Mami, mami!” chiamava, e io non avevo il coraggio di tirargli il colpo di grazia. Adesso questo ragazzo sarebbe ancora mio nemico? O sarebbe un alleato a cui coprire la ritirata? Possibile che basta un giorno, una firma per capovolgere il mondo intero?
Ho visto il male spargersi come gramigna, soffocando ogni pietà. Quella compassione che persino Francesco, il macellaio nostro paesano, ha sempre avuto quando, a gennaio, passava nelle malghe ad ammazzare il maiale. Ma noi contiamo meno dei maiali, persino meno dei pidocchi. Ancor oggi un ufficiale ha giustiziato un mio compagno accusandolo di sabotaggio. Si chiamava Giovanni, poveretto; eravamo insieme in Albania. A lui interessava solo tornare a casa, nella sua Val Trompia, a pascolare le pecore. Quale sabotaggio? Era un pastore, non ha mai lavorato in fabbrica e l’hanno messo sul tornio: ventiquattro pezzi all’ora e ben funzionanti, altrimenti “Kaputt, saboteur!”.
In fabbrica ci sono stato per tre settimane. È dura: dalla mattina a sera per dieci, dodici ore, con pane e acqua nello stomaco che non bastano a tenerti su, e le gambe cedono. L’ufficiale che passa nel reparto conta i pezzi, urla e minaccia con la pistola. Nel chiasso dei macchinari quasi non si sente il colpo. Si vede un uomo cadere a terra e subito due lo portano fuori, mentre un terzo lo sostituisce. Nemmeno con le bestie si fa così: con i muli bisogna esser decisi, ma quando sono sfiniti li si fa riposare.
Non so cosa siamo diventati: qualche mese fa eravamo soldati che conquistavano terre straniere; oggi siamo bestie, aggiogate a un destino sempre più nero. Non voglio molto dalla vita: chiedo di tornare alla mia malga, a faticare, spaccarmi la schiena sotto il sole caldo, salire ai pascoli con le capre. Un piatto di pastasciutta, ecco cosa vorrei adesso, con un fiasco di rosso e il camino acceso dove arde un bel ciocco di quercia. E poi, sdraiarmi in un letto vero: con il materasso, le lenzuola che sanno di erba tagliata.
Per fortuna, sono stato assegnato a una fattoria qui vicino. Vi abita una donna con tre figlioletti e un vecchio con il bastone. Il marito è partito soldato e lei ha bisogno di manodopera. Sapendomi esperto in stalla, il mio sergente, burbero ma buono come il pane, mi ha proposto, così da togliermi dalla fabbrica. Il lavoro mi piace, sono solo, c’è da faticare, ma se non ci penso mi sembra d’essere nella baita, sui nostri monti.
L’altro giorno c’era la luna nuova; la capra doveva figliare, ma aveva problemi. La donna ha convinto il soldato che mi fa da guardia a lasciarmi lì per la notte, per assistere al parto. Siamo stati nella stalla, mentre fuori il vento ululava come un lupo. La povera capretta ci metteva l’anima per tirare fuori il piccolo; soffriva parecchio, mi faceva una pena. Poi, alla fine, c’è riuscita: tirandolo per le zampe, ho aiutato il capretto a uscire; era tutto bagnato e con gli occhi chiusi. Che emozione quando ha belato. Quasi subito si è messo ritto sulle zampette e, ancora traballante, ha cercato le mammelle.
Nella malga ne ho viste di capre venire al mondo, ma stavolta è stato diverso. In questa naia bastarda ho visto troppa gente accoppata, villaggi bruciati, gente disperata. Campi lasciati orfani delle braccia che, invece di produrre pane, falciano persone. Vedere la vita arrivare al mondo fa bene al cuore, è una boccata d’aria in una stanza piena di fumo nero. Mi son ripromesso che, se tornerò alla malga, non mangerò mai più un capretto, nemmeno a Pasqua, anche se dovesse esser di precetto. E vi assicuro che, con la fame che ho, non è una promessa da poco.
   Con la signora mi intendo poco, a gesti; ho capito, però, che il marito è disperso in Russia, come Mario.   
   Chissà se si conoscono e, soprattutto, se sanno di non esser più alleati. Il fronte russo non è distante da qui; magari un giorno vedrò due soldati che, reggendosi l’uno all’altro, risalgono il pendio: uno potrebbe essere il marito della signora, l’altro Mario. Sarebbe proprio bello.
   Non tutti i tedeschi ci odiano: la signora mi tratta come un bracciante; quando le faccio dei piaceri, come riparare il tetto o la ruota del carretto, mi regala delle uova. Le nascondo bene nel pastrano e la sera le offro ai miei compagni. Le buttiamo tutte intere, con il guscio, nella pentola della zuppa, assieme a quel che capita, anche bucce di patate se ci sono. Tutto fa brodo, e qui bisogna restare in forze: ogni mese c’è la visita medica e, se non sei buono per lavorare, ti mandano nel campo vicino. Vedi la fila di soldati che camminano, si trascinano, senza più forza o volontà. Sembrano vitelli che, pur presagendo il mattatoio, si lasciano condurre rassegnati senza voglia di reagire, quasi fosse una liberazione, ma in realtà è una resa. Non sappiamo cosa succede lì, ma nei giorni che seguono, dai camini si alza un fumo così grigio che fa paura. Un fumo che porta cenere che si stende sulla neve. Tutto diventa grigio.
Bisogna stare uniti. Un giorno guardavo un fiocco di neve che scendeva lento: da solo è fragile, basta un soffio di alito caldo e subito si scioglie; così siamo noi, fragili, in balia di chi ci vuol vedere schiavi, ma quando i fiocchi diventano tanti e tutti si uniscono, allora diventano una bufera, e la bufera sconfigge anche gli eserciti più grandi.
Non posso conoscere il mio destino, ma spero solo che, se un giorno dovessi diventare cenere, il vento mi porti lontano e, sorvolando le Alpi, mi depositi vicino alla baita del Casson, da dove si vede tutta la nostra bella valle. Dove la domenica mattina si sente il suono delle campane rimbalzare fra le montagne.
Se così deve essere, vi chiedo un favore: se mai passaste di là, guardate la valle anche per me e dite una preghiera per i miei veci.   

Di Pierangelo Colombo; edito nella raccolta: Prospettive (2017)

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