Ieri Angelo ci ha lasciati; insignito con ben cento
primavere, per tutto il vicinato era nonno Angelo. Ci ha lasciati alla vigilia
di questa primavera, con i ciliegi in fiore e le robinie che, fra qualche
settimana, avrebbero inebriato l’aria con la fragranza dolciastra del polline,
invitandolo, come sirene, a uscire di casa. Se n’è andato in punta di piedi,
com’è sempre vissuto, con quella cortesia d’altri tempi e un sorriso per tutti.
Nell’ultimo nostro incontro mi chiese del canarino che,
nelle giornate soleggiate, ponevo, appendendone la gabbia sotto la tettoia
d’entrata di casa mia, proprio dirimpetto al portico dove lui, su di una
seggiola, si godeva il tepore del sole. Ne parlava sorridendo, godendosi il
ricordo di quel canto che, attraversando l’aia, arrivava ad allietarlo. Ironia
della sorte, proprio oggi, quel canarino ha spiccato l’ultimo volo; carico dei
suoi anni, ha lasciato immobile la piccola altalena su cui si dondolava e, da
domattina, non colorerà più l’apertura della finestra al giorno salutando la
luce.
Amo pensare che, Angelo e il canarino, si rincontrino nuovamente alla
luce di un sole caldo e luminoso, allietandosi vicendevolmente con un sorriso e
un canto squillante.
Il vecchio e il canarino
Mani
fiacche e tremule muovono le ruote della sedia a rotelle, venuta a supplire
gambe stanche e fragili. L’odore di stantio aleggia nell’aria, assieme allo
scricchiolio della gomma sul pavimento. Un raggio di sole, insinuandosi nella
fessura dell’imposta, squarcia la penombra incendiando il pulviscolo; una lama
che traccia sul pavimento una meridiana di luce, orologio solare che,
scivolando sul cotto, palesa l’inesorabile fluire del tempo. Minuti strazianti
per il vecchio che, vagando per la stanza, accarezza ogni ricordo che vi
aleggia.
Non
c’è angolo, oggetto, graffio sui mobili che non rievochi malinconie di una vita
lontana. Ricordi passati in rassegna in un ultimo saluto, prima d’essere reciso
dalle proprie radici. Sfiancato, attende la resa come un soldato certo della
disfatta. Una guerra contro la solitudine iniziata con il mesto addio a
Manuela: vita, gioia, amore. Otto interminabili anni a sopportarne l’assenza, i
più lunghi degli ottantatré vergati nelle ossa.
I
ricordi sono le armi affilate con cui respingere gli assalti della solitudine,
in una casa dove tutto parla di lei, compagna di vita, bella e fragile come una
farfalla. Amore a cui non ha perdonato il torto d’essersene andata prima di
lui. Ora teme che, partendo, non abbia abbastanza spazio nella testa per
contenerne i ricordi, accumulati come tesori. Teme di scordarne la voce
squillante, il luccichio cristallino degli occhi, la pelle vellutata.
Getta
un’occhiata all’angolo della credenza, dove rigide scatole di farmaci hanno
occupato quello che fu da sempre il posto delle MS senza filtro, pacchetto
morbido. Il pensiero, però, rimbalza fra le pareti come la pallina di un
flipper, attirato da quella maledetta valigia in camera. Un vortice da cui non
riesce a sottrarsi. Ricordi atavici di quando, da bambino, era minacciato: “Se
continui così, ti spedisco in collegio!”. Ironia della sorte, toccherà a suo
foglio rinchiuderlo in una casa di cura.
Scivolato
dalla sala verso la cucina, con gesti quotidiani, prepara la moka del caffè.
Dal giorno dell’infarto, quando il cuore crepandosi ha iniziato a fare le
bizze, non può berne. Un precetto del medico seguito scrupolosamente, ma non ha
mai rinunciato al rito di mettere la moka sul fornello: adora sentire il
borbottio della macchinetta, l’aroma spandersi per la casa rendendola viva;
rassicurato dal calore amaro stretto nel palmo della mano. A salutarne il rito,
saltellando fra una bacchetta e l’altra, il canarino che colora l’aria della
cucina con il proprio cinguettio.
«Gran
brutta roba la vecchiaia» replica il vecchio. «Che ne pensi, Zabaione?» Lo
guarda teneramente. Dono dell’unico nipotino, l’uccellino doveva essere un
compagno il cui canto avrebbe scacciato la malinconia del nonno; una voce che
riempisse il silenzio della casa.
«La vecchiaia è un
rampicante che ti si attorciglia addosso con lentezza» professa. «Senza che te
ne accorgi, ti avvolge soffocandoti come le spire di un cobra; rallenta i
muscoli, rimbambisce la testa, intorpidisce gli occhi e ti appesantisce. Ti fa
tornare bambino. Vedrai che fra qualche tempo mi metteranno anche il
pannolone». Sorride amaro. «Ma se mi lamento io, che vado dove sarò curato e
riverito» prosegue, «tu cosa dovresti dire? Non sai nemmeno che fine ti spetta.
Nessuno ha tempo per curarsi di te. Non c’è anima che possa trovare indulgenza
e trattarti come un essere vivente. Acqua e becchime ogni due giorni, spazzare
la gabbia una volta la settimana, vuoi mettere che impegno?» Stringe forte i
pugni per il senso d’impotenza.
«Zabaione, che nome
assurdo. Soltanto Nicolas poteva affibbiartene uno del genere. Ricordo ancora
quando, raggiante, è entrato da quella porta reggendo la gabbietta. Aveva
quattro anni allora, ti ricordi? Si metteva sempre sulle mie ginocchia fingendo
di guidare il camion del babbo, mentre io facevo ruotare queste mie gambe per
tutta la casa. Per fortuna, ho sempre avuto le braccia forti, da carpentiere,
non come queste». Batte a mani aperte le cosce. «Che sono diventate molli come
gambi di sedano appassito. E pensare che mi arrampicavo sulle impalcature come
un gatto».
Il
canarino, inclinando la testa, fissa il vecchio con l’occhio destro e ribatte
cinguettando.
«Povero Zabaione. Se
potessi, ti porterei con me a Villa dei Cedri». Sospira. «Chissà perché gli
ospizi hanno sempre questi nomi da vivaio? Villa dei Tigli, delle Querce, delle
Betulle o Fronde Ghiandose. Non credo, però, ci sia una Villa dei Cipressi, né
tantomeno Villa dei Crisantemi: espliciterebbe l’idea del precimitero. Ma tu
che ne sai di alberi? Sei nato fra le sbarre. L’unica foglia che vedi è
l’insalata che ti metto io. Gli alberi ti fanno paura, ecco la verità».
Si
burla. «Ricordi quando Nicolas ti ha aperto la gabbia? Disse di non averlo
fatto apposta, ma poi, un giorno, mi confessò la verità: voleva regalarti
l’esperienza di posarti su di un albero, anche se di Natale. E tu? Da buona
‘aquila’ quale sei, hai scagazzato per tutta la sala, ti sei posato su ogni
mobile senza degnare d’uno sguardo quel povero abete spelacchiato». Ridacchia.
«È stato divertente, però, vedere tutti rincorrerti per acciuffarti e
rimetterti in gabbia. E io a sentirmi in colpa per aver riso il giorno di
Natale senza la mia Manu».
Gli
occhi tornano a inumidirsi. «Avresti dovuto conoscerla: l’avresti amata. Lei
era un tozzo di pane bianco nella carestia, una sorgente fresca nella siccità,
un riparo sicuro nella buriana, un’altalena in una gabbietta come la tua. Lei
era speciale: energia per la vita, come un raggio di sole la cui luce
s’infrange sul corpo illuminandolo, mentre la sua energia vi penetra
riscaldandolo e infondendogli una forza straordinaria. Lei mi ha fatto
accettare la vita dopo l’incidente. Ah, ma non pensare sia stato tutto rose e
fiori. Quante discussioni, specie su Matteo: era una madre apprensiva. Dicono
che l’amore non è bello se non è litigarello, quindi, se contassimo tutti i
bisticci, il nostro non era bello, ma meraviglioso. Vivere assieme è stato un
racconto scritto di getto, a cui non cambierei una sola virgola, anche se
sbagliata».
Sospira.
«Mi manchi» sussurra nell’aria. Un nodo alla gola ne soffoca il respiro e,
singhiozzando, scoppia in un pianto dirotto. Lo lascia sfogare: l’emozione
d’abbandonare casa e ricordi è ingovernabile.
«Meglio
sfogarsi ora» confida, «che davanti a Matteo. È già abbastanza mortificato: non
è facile nemmeno per lui. Ha una famiglia a cui badare, il lavoro e i debiti.
Non merita altri pensieri. Ci manca solo un vecchio frignone fra i piedi. Lo so
che gli spiace chiudermi là dentro, ma cosa può fare? Sono vecchio e mi serve
una balia, ma una badante costa troppo: la pensione basta a mala pena per me.
Venderà la casa e pagherà la retta dell’ospizio». Sospira. «Chissà chi verrà ad
abitarci?»
Si
guarda attorno, senza capacitarsi dell’idea. «Ricordo quando l’abbiamo
comprata: era il tempo in cui i sogni facevano il tiro alla fune con i debiti.
Ma allora eravamo giovani e forti».
Guarda trasognato le
pareti della cucina, i ricordi si fanno vividi. Una catapulta che lo proietta a
quel pomeriggio dove, entusiasti, stavano tinteggiando casa. Lei era
bellissima: i lunghi capelli legati in una crocchia, le goccioline di tempera
bianca che le disegnavano minuscole lentiggini sulle guance, mentre il sorriso
innamorato sprizzava entusiasmo. Il sole entrava dalla finestra. Sfiniti dal
lavoro, si erano presi una pausa, mentre dalla radio la voce di Battisti
alleviava la fatica. La sala era ancora deserta, solo un tappeto persiano
tessuto a Busto Garolfo.
Si
amarono stesi sul quel tappeto, come fosse la prima volta, con un trasporto
tale da farsi un tutt’uno, un solo respiro, un solo pensiero. Forse minuti,
forse per ore: il tempo s’era annullato.
Il
cinguettio del canarino ridesta il vecchio. Ed è proprio in quel limbo fra la
realtà e il sogno, che, inebriato, crede di percepire il profumo di mughetto:
il preferito della compagna. Istintivamente si volta verso la porta, pervaso da
un brivido. Allunga il braccio, stendendo la mano verso qualcosa che solo il
pensiero può percepire. Una sensazione di pace che l’avvolge come uno scialle,
riscaldandolo.
«Per fortuna, non hai le
orecchie grosse come le mie». Torna verso la gabbia. «Così senti solo un terzo
delle panzane che sparo, il resto scivola via come gocce d’acqua sulle piume.
Volevo salutarti e, invece, ti sto triturando gli zebedei con discorsi tristi.
In fondo, vado in una casa di riposo camuffata da Grand Hotel. Manu diceva che
la vita non è altro che una villeggiatura in questo mondo. Gli ospedali sono
gli aeroporti: c’è chi arriva con un vagito e chi parte con un biglietto di
sola andata, ma è comunque un viaggio e un viaggio ha sempre una meta. Peccato,
però, che io abbia paura di volare». Sospira. «Tu, invece, non hai paura di
volare, spero. Sai cosa ti dico? La libertà è un dono prezioso, non va
sprecato. Quando io ero libero tu eri in gabbia, e ora che io sarò rinchiuso è
giusto che ti faccia dono della mia libertà».
Posata
la gabbia sulle ginocchia, il vecchio si dirige verso la finestra socchiusa.
Entusiasta come un ragazzino, la spalanca respirando profondamente l’aria; apre
poi la porticina della gabbia con mano tremante. Il canarino, passato lo
smarrimento iniziale, afferra l’istinto e, con un colpo d’ali, vola sul
davanzale. Il piccolo pennuto sembra voltarsi a dare un’ultima occhiata al
vecchio con gli occhi pieni di lacrime, ma con un sorriso enorme. Poi,
spiegando le ali, balza dalla finestra volando nell’aria fresca di maggio.
Il
vecchio sente il cuore palpitare; distende le braccia seguendo le ali
dell’amico. Il trasporto dell’emozione è tale che gli pare di sentire l’aria
afferrarlo per le braccia e sollevarlo; si fa leggero, così etereo da spiccare
il volo.
«Io sarò a Villa Cedri!»
urla, con voce rotta dall’emozione. «Vienimi a trovare, se vuoi. Se invece vai
da lei, ricordale che l’amo».
E,
con un ultimo sorriso, chiude gli occhi.
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