‘È finita!’
Il verdetto deflagra nella
testa di Sandro quando perde l’equilibrio. A fermarne la corsa è una radice
affiorante dal suolo, mentre le mani, protese ad attutire la caduta, infilandosi
fra dei rovi scoccano una frustata di dolore che saetta dritta al cervello. Una
scossa che ne accelera i movimenti; trovandosi a carponi, estrae le mani dal
cespuglio e, aggrappandosi a un arbusto, si risolleva macchiandone la corteccia
con il sangue. Il ginocchio destro gli duole: attraverso lo squarcio dei
pantaloni, scorge l’abrasione. Non ha tempo, però: il latrato dei cani che gli
danno la caccia lo forzano a riprendere la fuga senza recuperare il fiato,
senza poter decidere la direzione da prendere; deve solo correre il più veloce
possibile in linea retta, risalendo il crinale della montagna. Respira
sbranando l’aria come se stesse per finire; l’affanno zittisce la foresta,
lasciando solo l’eco dei latrati.
Il cuore sta per esplodere,
incapace di sostenere ancora la corsa; l’aria gelida non basta a smorzare
l’incendio che divampa nella gola arida. Lo sconforto ha il sopravvento
sull’istinto di sopravvivenza; se dovesse primeggiare, imporrebbe a Sandro di
abbattersi su uno dei nevai che maculano la foresta, in una resa agli aguzzini.
Sospende la fuga poggiandosi di
spalle a un leccio; ingoia saliva che spreme dalla lingua ridotta a una spugna
secca. Cerca inutilmente di sospendere il respiro per captare se, fra
l’abbaiare dei cani, si odano anche le urla dei tedeschi, segnale di un
eventuale avvicinamento. I polmoni, però, rifiutando ogni ordine, continuano a
ingoiare aria spingendo il cuore verso la gola.
La caparbietà della vita sprona
il ragazzo a riprendere la fuga; sfila sgraziato fra i tronchi coperti di
muschio, con una falcata zoppa che non rende onore al suo nomignolo, Vento,
reminiscenza dei giochi littoriali da matricola universitaria. Un appellativo
promosso a nome di battaglia dai compagni di resistenza.
La foresta si fa fitta, la luce
fioca di un sole dicembrino filtra a stento tra le fronde dei lecci.
Oltrepassata una china, Vento perde il contatto sonoro dei cani; le ginocchia
cedono all’improvviso gettandolo a terra. Tenta di rialzarsi, ma delle
convulsioni allo stomaco lo piegano facendogli rimettere bile.
Il silenzio degli inseguitori
lo disorienta: potrebbero essere lontani, oppure sul punto di afferrarlo.
Percorso da brividi, riprende il passo e cammina claudicante, ubriaco di
sfinimento; fa per superare un cespuglio quando gli frana la terra da sotto i
piedi. In un istante si ritrova a scivolare lungo un ghiaione, guidando una
piccola frana. Discesa che termina in un torrente; l’acqua gelata spazza via
ogni torpore dai muscoli che, dando fondo alle ultime energie, lo trascinano
sulla sponda sgusciando al riparo di un arbusto.
Sentendosi al sicuro, si
rannicchia per non dissipare calore, quasi a trattenere la vita. I pensieri
prendono il sopravvento sull’adrenalina. Una certezza più che una
considerazione: qualcuno ha tradito.
Il pensiero logico si riordina,
mettendo in fila gli avvenimenti. I volti dei compagni escono dalla bruma
dell’affanno, tornando nitidi: Nibbio, Pablo, Lampo e il Grigio seduti in
cerchio nella riunione a organizzare l’azione, in quella che sarà la loro ultima
notte. Qualcuno è stato falciato dalla prima sventagliata di mitra. Li ha visti
cadere faccia in avanti; di spalle, non è riuscito a riconoscerli. Nella
concitazione captava solo la voce di Nibbio, il caposquadra, che ordinava la
ritirata. Ma i tedeschi sparavano come forsennati, una potenza di fuoco che
riduceva i colpi dei loro Mab 38 a delle mosche che volano in senso contrario a
uno sciame di calabroni.
“Via, Via!” urlava Nibbio, un
ordine che rimbalzava in un passaparola coperto dalle deflagrazioni e il sibilo
dei proiettili. Vento è stato fra i fortunati. Il suo compito, nell’azione,
avrebbe dovuto essere quello di copertura alla fuga del commando a raid
ultimato. Anche se, dalla postazione riparata, ha potuto ben poco contro i
mitragliatori nemici che falcidiavano i compagni.
Qualcuno ha tradito. L’obiettivo
era sabotare la piccola centrale idroelettrica, presidiata da un esiguo
manipolo di tedeschi; nell’ultimo sopralluogo non erano state avvistate
mitragliatrici. Il commando si era equipaggiato con armi leggere, inefficaci in
quella che si è rivelata un’imboscata.
I caricatori di Vento si sono
svuotati rapidamente, annullando ogni piano di ritirata. Disperato, contava gli
ultimi colpi, prendendo tempo, cercando una via d’uscita. Poi, l’esplosione:
Nibbio, l’unico ad avere delle granate, si è sacrificato dando un’ultima
possibilità di fuga ai compagni.
“Via! Nel bosco, via!” ha
urlato, lanciando una seconda bomba.
Gettato il fucile, Vento si è
dato alla fuga. Quasi subito è cessata la buriana di colpi e il silenzio è
calato sulla sua corsa; un silenzio che rivelava un massacro, un silenzio
spazzato dai cani, lanciati all’inseguimento dei pochi superstiti.
In un giorno così assurdo, in
una guerra così dissennata, persino il tempo ha perso ogni misura; stretto a
sé, Vento non coglie lo scorrere dei minuti e delle ore. Vorrebbe fermare la
vita nel tepore di sicurezza sotto l’arbusto. Il suo mondo è crollato nel giro
di pochi minuti, gli amici passati a un’eternità immutabile.
Il crepuscolo tinge di un rosa
slavato il cielo grigio; gli abiti bagnati amplificano il gelo, percuotendo il
ragazzo con delle convulsioni. Vento sa che deve rimettersi in cammino, ma la
volontà è debole: sarebbe più semplice arrendersi a un sonno consolatore.
Lasciarsi avvolgere da una notte senza luci, dove il futuro è ostaggio del male
che lo riduce a incubo. Una notte priva di speranza nell’alba.
Si solleva con fatica e gli
occhi si colmano di lacrime, spillate dal dolore fisico, ma anche dalla
consapevolezza d’essere sopravvissuto. Vita che irrompe prepotente reclamando i
bisogni accantonati: le fauci secche chiedono acqua; Vento le soddisfa, affogandole
nella corrente gelida del torrente. Beve con avidità, sentendo il liquido
scivolare nello stomaco.
L’oscurità scende repentina
sulla foresta, assorbendo ogni forma; il ragazzo deve orientarsi con l’udito,
seguire il corso d’acqua che lo porterà sicuramente a valle. Procede a tentoni,
piccoli passi per non inciampare. Percorre un tratto che non saprebbe
quantificare: potrebbe essere la lunghezza di un campetto di calcio o l’intera
via Emilia; ogni percezione spaziotemporale si è dissolta nella notte. Anche la
ragione, gravata dalla stanchezza, inizia a vacillare: s’insinua l’idea
d’essere morto nell’imboscata e ora, fantasma, vaga nel limbo del tempo.
A scuoterlo è l’odore di fumo
captato dalle narici; forse un focolare, dato che vi distingue l’aroma di
zuppa, probabilmente di cavoli. Usando l’olfatto come una bussola, si lascia il
corso d’acqua alle spalle per addentrarsi nella boscaglia. Non cammina molto
prima di sbucare in una radura. Gli occhi riprendono il predominio dei sensi
scorgendo, a un centinaio di passi, una luce, una finestrella. Una malga.
Avvicinatosi di soppiatto, si
acquatta sotto la finestra illuminata, e origlia, captando una litania che non
afferra. Si solleva, guardando attraverso il vetro, e scorge le figure di due
anziani seduti dinanzi al camino acceso, mentre una terza, una ragazza
visibilmente gravida, è seduta in disparte e, tenendolo nella mano destra,
sgrana un rosario conducendone la preghiera.
Vento non vorrebbe disturbare,
mettere in pericolo della povera gente chiedendo aiuto. Il tepore del fuoco,
però, è invitante, così come il profumo della zuppa. I visi dei due vecchi gli
ricordano i nonni materni, due persone straordinarie, che mai vorrebbe vedere
in pericolo. Desiste, così, dal chiedere asilo. Percorre il perimetro della
casa e, sul versante opposto, trova una stalla. Apre piano l’uscio per non
spaventare le bestie. Dall’odore riconosce subito la presenza di capre. Qualche
timido belato sembra salutarlo mentre, a tentoni, attraversa il piccolo gregge
cercando un angolo dove appartarsi. Trovato un mucchio di paglia pulita, vi
sprofonda; il tepore ha gioco facile nel vincere stanchezza e fame, ed è subito
sonno.
A risvegliarlo uno strattone.
Vento apre gli occhi che, accecati dalla luce del giorno, intravedono la figura
di un uomo. Stropicciandosi gli occhi, mette a fuoco l’immagine: dinanzi a lui
c’è il vecchio della malga che gli punta addosso una forca di legno. Dietro di
lui, appena fuori l’uscio spalancato dell’ovile, c’è la vecchia che,
spaventata, tiene la mano a coprirsi la bocca.
Il vecchio squadra i vestiti
logori, il ginocchio ferito e il viso sporco di fango del ragazzo; risoluto,
gli fa cenno, con la forca, di sollevarsi.
«Mi chiamo Sandro. Mi sono
perso» lo rassicura Vento.
«Sei un bandito?» chiede il
vecchio, senza astio.
«Sì».
Vento non vuole mentire.
Il vecchio abbassa la forca,
forse spiazzato dalla sincerità.
«Qua dietro c’è una fontana». Indica
l’uscita. «Portagli del sapone e dei vestiti di Marco» dice alla moglie.
«Adesso ti lavi» ordina al ragazzo, «ti cambi e te ne vai. Portati via i tuoi
stracci e gettali il più lontano possibile da qui».
«Grazie» risponde Vento,
consapevole del rischio che affronta il vecchio aiutandolo.
Zoppicando lascia l’ovile,
mentre il vecchio rientra nella baita. Raggiunta la fontana, si sciacqua il
viso. L’acqua gelata è un tonico che scuote i sensi. La vecchia lo raggiunge, gli
porge un pezzo di sapone e, posati i panni, rincasa. Il ragazzo si lava
velocemente: non vuole creare problemi, intende allontanarsi il prima
possibile.
L’aria che scende dalla vetta è
gelida, il cielo promette neve da un momento all’altro. Vento si riveste in
fretta, raccoglie gli stracci facendone un fagotto e si volta verso la casa;
vorrebbe salutare, ma non scorgendo nessuno s’incammina.
«Aspetta!» La voce lo raggiunge
di spalle. Voltatosi, vede la vecchia sull’uscio che gli fa cenno di
avvicinarsi.
«Buon Natale!» gli augura la
donna, porgendogli un pezzo di pane nero. Vento aveva dimenticato il Natale,
eclissato dalla guerra.
«Nostro figlio Marco è disperso
in Russia» spiega lei. Vento, conoscendo l’economia di parole della gente di
montagna, intuisce in quel dono la preghiera di una madre affinché il proprio
gesto sia ricompensato, dalla provvidenza, nei confronti del figlio.
I due si fissano negli occhi;
Vento vorrebbe abbracciarla, ma sa che sarebbe straziante per lei, così,
chinato il capo, la ringrazia: «Che Dio vi benedica».
Da quanto tempo non evocava la
divinità in senso positivo, per benedire e non per bestemmiare la sorte. Dio,
che lui stesso aveva maledetto abiurando ogni credo. Dio, di cui ora ne implora
l’esistenza per ricompensare quelle persone.
«Anna?» La voce del vecchio è
una scure che trancia il legame fra i due. «Anna, corri!» ordina perentorio. Il
viso della donna si fa serio, l’ansia scansa la malinconia nei suoi occhi.
Senza salutare rincasa, lasciando l’uscio socchiuso. Vento è perplesso, incerto
se attribuire al vecchio la volontà di allontanarlo oppure, udendo il tono
concitato della voce, pensare a una emergenza. Il pensiero corre alla ragazza
gravida.
Avvicinandosi all’uscio
socchiuso, sbircia all’interno della casa: il vecchio avverte la donna che alla
nipote sono iniziate le doglie. La vecchia attraversa la stanza, afferra una
pigna di pezze dirigendosi nell’altra stanza. Vento bussa sull’uscio e, senza
attendere, s’intrufola nella casa.
«Se serve aiuto, ho studiato
medicina» dice, anticipando ogni reazione del vecchio. «A Modena» precisa. In
realtà, aveva studiato veterinaria; faceva praticantato prima di fuggire in
montagna dopo l’8 settembre. Non aveva mai aiutato a nascere nessuna creatura,
tantomeno bambini.
«È nostra nipote, sfollata da
Carpi» spiega il vecchio. «Ha perso tutto» aggiunge, come monito di riguardo.
Vento si toglie la giacca e,
rimboccatosi le maniche, si fa versare dell’acqua calda insaponandosi le mani.
Il vecchio lo aiuta e, dopo avergli passato un canovaccio pulito, lo invita a entrare
nella camera da letto.
Entrando, Vento sente
richiudersi l’uscio dietro di sé; il vecchio resta fuori, rispettando il
proprio ruolo. Vento rabbrividisce vedendola riversa sul letto, madida di
sudore e bianca quanto un cencio; si rende conto che non può tornare indietro:
ha fatto il passo più lungo della gamba e ora teme di cadere. La vecchia lo
guarda, stupita, ma senza fare domande: è chiaro che si fida del marito.
Il travaglio dura l’intera
giornata; le contrazioni si alternano fra picchi ravvicinati e momenti di
riposo. Durante la calma, il ragazzo ripesca nella memoria la teoria appresa
sui libri di testo; durante le crisi, invece, recita mentalmente il padrenostro
in latino, imitando la vecchia.
E già notte fonda quando,
sfinita, la ragazza inizia il parto. Il primo sospiro di sollievo arriva nel
vedere spuntare la testa del bambino: non è podalico. La nonna aiuta la nipote
incitandola a spingere e detergendole il sudore. Vento vede prima il viso del
neonato, poi le braccia assieme al busto e, infine, le gambe. Lo sorregge con
mani tremule, temendo di fargli del male.
«È una femminuccia» informa le
donne. «È uno scricciolo, ma è sana». Stato di salute convalidato dal sonoro
vagito in risposta alla sculacciata. Tagliato il cordone ombelicale, consegna
la neonata alla madre che, stremata e raggiante, la stringe a sé.
Lasciando la camera alle tre
donne, Vento va a rassicurare il vecchio.
«Resti con noi, oggi» lo invita
l’uomo.
«Meglio di no, per il bene di
tutti» risponde, porgendo la mano per commiato. Dalla finestra s’intravede il
lucore dell’alba.
«Aspetti!» lo ferma il vecchio
e, direttosi alla credenza, prende del formaggio.
«No, grazie» lo anticipa il
ragazzo, «servirà più a loro». Indica la camera da letto. «Mi avete già dato
tanto: la fiducia nel futuro, la certezza che al termine di ogni notte, anche
la più buia, c’è sempre un’alba radiosa».
Il vecchio gli si avvicina e
gli stringe la spalla con una mano.
«Che nome le darete?» chiede
Vento, prima di uscire.
«Oggi è santo Stefano: la
chiameremo Stefania».
«Stefania» ripete, soppesandone
il suono. «È un bel nome».
Seguendo il sentiero si
allontana, zoppicando verso la valle. Radi fiocchi di neve cadono aggrappandosi
alla sua giacca. Non sa cosa lo aspetti in futuro, ma sa che non può arrendersi,
così come non si arrende la vita. Deve lottare anche per Stefania, perché tutti
meritano un futuro migliore. E, ripensando ai compagni, intona un canto: «Siamo
i ribelli della montagna, viviam di stenti e di patimenti, ma quella fede che
ci accompagna sarà la legge dell’avvenir…»
Leggete e divulgate liberamente, non dimenticate, però, di menzionare l'autore. 😉
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