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sabato 25 novembre 2023

25 novembre, per dire BASTA!

25 novembre, giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne; "mai come in questo periodo si sente il dovere..." frase che, ogni anno si ripropone riferendosi ai fatti di cronaca che indirizzano l'attenzione a una problematica che, in realtà, affligge la nostra società ogni giorno. Facciamo che ogni giorno sia un 25 novembre finché non festeggeremo la giornata dell'uguaglianza universale.
Ora, però, è nostro dovere riflettere e pretendere che tutti si sentano coinvolti in questa lotta all'ignoranza. 
Vorrei dare un mio contributo, seppur piccolo, dedicando questo racconto breve a chi, con tenacia, lotta per ritrovare una propria indipendenza, perché la libertà è un diritto inalienabile.  


 Il volo dell’aquila

 

  Il movimento è essenziale, l’universo stesso è un’esplosione in costante espansione; la materia, la vita è in continuo mutamento. Il calore è prodotto dalle vibrazioni delle molecole; i cadaveri sono freddi. 
  Un lungo cammino inizia da un primo piccolo passo recita l’adagio, vincere l’immobilismo è quindi il principio. Lara ne è consapevole, è abbastanza intelligente da capire che nessuno recapita a domicilio successi ed esperienze. Sa che la vita, quella vera, pullula al di fuori delle solide mura domestiche. Ogni giorno il fato getta nell’aria i semi delle opportunità; a volte granelli minuscoli, quasi impercettibili, ma se afferrati e adagiati su di un semenzaio fertile, germoglieranno radicandosi nel terreno. Saranno, tuttavia, le cure riservategli a permettere alla pianta di dare frutti.
  Lara, però, teme il mondo, anche se odia la vita che conduce; un bruco che desidera farsi farfalla, ma prova terrore al pensiero di rompere il bozzolo dove si è rifugiata. Un guscio che la ripara, ma non le permette più di respirare. Le pareti di casa sembrano stringersi come l’interno di un palloncino che va sgonfiandosi. Il sofà non è più placebo, ora le rimane soltanto il letto: quell’istante in cui, spegnendo la luce, tutto svanisce lasciando la sola sensazione di lenzuola pulite e tepore. Un battito di ciglia che la riconcilia con il vivere. Più duraturo, invece, un bel bagno caldo: immergersi nel surrogato del liquido amniotico, rievocando il battito materno.  
  Immersa nell’acqua ne assorbe il calore, ascoltando il ritmico gocciolio del rubinetto. Inspira profondamente lasciandosi pervadere dal profumo di mandorla del bagnoschiuma. Lo stato d’ansia pare assopirsi, i pensieri stemperarsi nel vapore che aleggia nell’aria, smorzando la cognizione del tempo. Sgravata dal peso corporeo resta immersa finché le dita avvizziscono.
  Sedutasi sul bordo della vasca si stringe nell’accappatoio; una goccia, addensandosi, scivola verso il basso percorrendo lo specchio appannato. Non sopporta la visione opaca, l’immagine sfocata che vi si riflette. Presa una salvietta asciuga la superficie spaventandosi del proprio pallore; gli occhi rifuggono la realtà, cercando l’unico elemento del corpo accettato: i lunghi capelli ricci.
  Sfilandosi l’accappatoio si volta mettendosi di profilo, non sopporta la vista frontale; eppure, gli occhi non si staccano dal riflesso, lo sguardo scivola via dai capelli, sfiorando il collo segue la sinuosità della spalla soffermandosi sulla scapola.
  «Cos’è questa?» chiese un giorno, ancora bambina, alla madre.
 «Questa?» rispose la donna, sfiorando la lieve protuberanza che la bimba indicava contorcendo il braccio.
   È l’attaccatura per le ali» rispose la donna.
  «Ali?»
  «Sì, le ali. Se avrai coraggio e crederai in te stessa, un giorno avrai delle ali con cui volare.»
  «Perché tu non le hai? E nemmeno papà?»
  «Tutti le abbiamo, ma non sono visibili. Le mie, ad esempio, mi hanno permesso di raggiungere la vetta più alta del mondo.»
  «Sei stata sull’Everest?» chiese sbalordita.
  «Molto più su.»
  «Ma è l’Everest il monte più alto» ribadì la bimba.
  «Da dove ero io, L’Everest pareva una piccola cunetta.»
  «Mi prendi in giro» ribatté la piccola, imbronciata.
  «Quando sei nata tu» spiegò la madre, «ho raggiunto il punto più alto del cielo: il culmine della felicità. E sono state le ali, che mi sono costruita, a portarmi fin lassù. Ali tessute di sogni, ma soprattutto fatica e amore.»
  «Anch’io avrò delle ali?» chiese la bimba, perplessa.
  «Certo. Ma non basta avere delle ali, anche la gallina le ha, ma non può che fare dei piccoli balzi. Per imparare a volare occorre credere in sé stessi e non perdersi mai d’animo. Tentare e ritentare, e ogni volta che si precipita a terra rialzarsi per riprendere il volo. E se vuoi librarti in alto come l’aquila, devi farti delle ali grandi e potenti come le sue, con sacrificio e volontà, perché, l’aquila, per spiccare il volo ha bisogno di spazio e forza.»
  Lara ripensa a quella vita, così diversa e lontana nel tempo da sentirsi la protagonista di due film diametralmente opposti.
  Aveva provato a volare, ma le sue ali erano delicate e, come Icaro, avvicinatasi troppo al sole si erano bruciate: l’uomo che avrebbe dovuta proteggerla ne aveva sbiadito ogni splendore, riducendola a dolore. Una storia lunga, dal finale liberatorio, ma è difficile cancellare il passato che, se non immunizzato, diviene un vortice di depressione.
  Ora, seppur libera, prova il peso della solitudine, un senso che, come un vuoto d’aria, toglie portanza alle ali facendola precipitare. La terapeuta le ha fornito un paracadute, certo, ma questo rallenta solamente la discesa. È consapevole del compito che l’attende: saper attutire il contatto con il suolo, riprendere fiato e, spiegando le ali, riprendere il volo. Ma avere i piedi per terra la disarma: uscire da casa, lasciare il sofà per affrontare nuovamente il mondo le incute una paura folle. Come potrà ritrovare la fiducia verso l’umanità? Abbandonarsi a un altro uomo o confidarsi con delle donne che, svestiti i panni dell’amicizia, le hanno voltato le spalle? Ritrovare quel senso di protezione tradito da chi, sminuendo, non ha teso la mano a trarla dalle spire del mostro? 
  Non sopporta più, tuttavia, la solitudine; la bolla in cui si è rifugiata sa di stantio. Sente il bisogno di spazi aperti, di socialità, anche se il solo pensiero le mette i brividi. Per mesi è stata una mosca che, attratta dalla luce, batteva continuamente la testa sul vetro, quella barriera interposta fra lei e la vita. Ora è il tempo di spalancare la finestra e librarsi nell’aria.
  Trema come una foglia dinanzi all’uscio di casa, l’uscita non ha come meta il rassicurante studio della terapia, è un volo senza paracadute, senza destinazione prefissata se non tornare a vivere. Nessun attacco di panico, ma l’ansia d’incappare in un nuovo mostro, l’ennesima delusione.
  Gira la maniglia scostando di poco l’uscio, con il rumore della città entra un refolo d’aria. Inspira profondamente controllando un principio di vertigini. Il bagaglio del passato, che non potrà mai abbandonare, non le schiaccia più le spalle. Si sente vestita, protetta dagli sguardi della gente. Lei è la vittima non la colpevole, ha il diritto di pretendere nuovamente la felicità, ha le forze per ritrovare sé stessa. Vuole tornare a volare come sua madre, regale come un’aquila, ma come tale necessita di un potente slancio per decollare, di spazio e coraggio.
  Scende gli scalini senza aggrapparsi al corrimano, la fronte alta, il passo deciso. Si sofferma sul marciapiede, osserva la gente che cammina spedita verso i propri obiettivi. Inspira nuovamente e, puntando verso il proprio, spicca il volo.    



Racconto edito di Pierangelo Colombo, classificatosi terzo nel Premio Città di Verona.

Condividete pure, ma non scordatevi di citare l'autore. 😀

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