IL CIELO SOPRA IL MARE
«Niente principesse da
queste parti». Fu la scintilla che fece deflagrare il mio amor proprio. A
ferirmi non il modo o l’impeto nel pronunciarla, né la persona che diede voce
alla frase, un perfetto estraneo, ma il sentirmi disarmata dinanzi alla verità.
D'altronde non è l’intensità della scintilla che produce l’innesco, bensì la
miscela fra il gas e l’ossigeno. Se la casa è satura di gas questo non esplode,
per farlo abbisogna di una adeguata percentuale d’ossigeno; e in quell’istante
il mio stato d’animo era immerso nella letale miscela fra l’esplosivo senso
d’inadeguatezza e un’effimera fiducia di sentirmi al sicuro.
Ero adolescente e,
allora, detestavo l’estate, ma più ancora odiavo la villeggiatura in riviera.
Un’avversione viscerale lenita dalle implorate, seppur sporadiche, giornate di
pioggia. Benedivo Giove Pluvio che, pietoso, concedeva delle pause alla tortura
impostami dai genitori. Da psicoterapeuti improvvisati, a confermare la bontà
di un’ipotetica iniezione di autostima, mi sottoponevano a una gogna:
integrarmi fra le coetanee che sfilavano lungo la passatoia del bagno Florida.
Detestavo l’estate, il caldo e la necessità di svestirsi. Ipertricosi,
cellulite, vene varicose, discromie cutanee formano alcuni sottogruppi
nell’insieme dei problemi estetici nella specie umana; patologie diffuse quanto
aberrate in estate ma che, in un modo o nell’altro, trovano delle soluzioni. Il
rimedio al mio, di problema, si chiama protesi ortopedica, arto artificiale,
gamba di legno. Espediente efficace che, nella gran parte dell’anno, si cela
con un modesto paio di comodi pantaloni. L’estate, invece, mette a nudo la
mancanza e lo dimostra lo sguardo della gente. Occhi che, indipendentemente
dalla volontà, sembrano volermi avvisare d’essere uscita di casa dimenticando
d’indossare le mutande; l’imbarazzo con cui un estraneo indica l’esserti
rimasta attaccata della carta igienica ai pantaloni.
Gli sguardi parlano,
urlano quello che la bocca tace o bisbiglia. Poverina è l’aggettivo più
odioso, la stoccata che fa più male: perché giunge alle spalle. È una scossa
che arriva dritta al cervello; un brivido che corre lungo la schiena e annacqua
gli occhi.
Il primo impatto in un
incontro frontale è silenzio, l’imbarazzo di un istante lungo un’eternità. Gli
occhi vedono solo quello che manca. La smorfia involontaria, un sorriso tirato,
rammenta puntualmente la differenza: quel materiale inorganico che puntella un
passo altrimenti zoppo. Subito i pensieri si fanno tangibili, captabili come
onde radio: E ci lamentiamo delle sciocchezze. Povera, chissà cosa le
è successo. Era una ragazza così carina. Ringrazio Dio che i miei figli
sono sani.
Biasimo che avvampa
quanto un fuoco di Sant’Antonio. In un batter di ciglia ci si sente una scarpa
spaiata. Quella che per mia madre era una palestra di vita per me era morire
dentro; finché non conobbi Macello.
L’idea mi balenò in
testa appena lessi l’opuscolo, un fulmine che squarcia l’oscurità: Agriturismo
i Cipressi, un mese di stage in una struttura lontana dal mare. Assistente in
un campo estivo per bambini in cambio di vitto, alloggio e crediti scolastici.
Con buona pace dei miei avrei sistemato l’estate con un colpo di spugna. Nella
valigia pantaloni e camicette, niente short, costumi o gonne.
«Innanzitutto il
benessere dei bambini», mi accolse la responsabile del campus.
«Sì, certo» risposi
all’ovvietà.
«Quindi accantoniamo
paturnie o pulsioni rivoluzionarie adolescenziali e dedichiamoci a loro
sorridendo».
Un volo planare di
vocaboli per togliermi dalla faccia l’espressione da piccola fiammiferaia
agonizzante. Intuita la stoccata sfoggiai il migliore dei sorrisi.
«Anche meno» disse,
«l’importante non è la spontaneità, ma fingere bene».
Una Minerva nei panni
di una fatina: tanto dolce con i marmocchi quanto pronta a impietrire colleghe
e assistenti. Una cucchiaiata di miele, tuttavia, se paragonata al cinismo del
fattore, il proprietario della baracca.
Figuro che si era
palesato nel tardo pomeriggio; pareva un mugnaio appena uscito dal mulino, ma
invece della fragranza di grano odorava di fieno, polvere incollata al collo da
rivoli di sudore. Ripulita la mano in uno straccio, la porse stringendo vigorosamente
la mia.
«Domani iniziamo i
laboratori con i cavalli. Mi serve aiuto per prepararli. Nella selleria
troverai delle tute da lavoro di varie taglie».
«Tuta da lavoro?»
domandai disorientata.
«Ti assicuro che in
stalla è utile».
«Ma io credevo…»
balbettai, convinta in un incarico di baby-sitter. «Forse c’è un
equivoco. Io sono la stagista».
«Niente principesse da
queste parti» ribadì con voce distaccata.
«Ma io non posso fare
lavori pesanti». Avrei voluto usare un tono perentorio, ma ne uscì un miagolio
umiliato.
«E chi li ha chiesti?
Mi serve un aiuto, non Ercole».
Maledìi la segreteria
della scuola per non aver informato il fattore della mia situazione. Avvampando
alzai il pantalone destro, ma l’orlo stretto si bloccò a metà polpaccio.
«Prurito?» chiese lui.
«Porto una protesi».
Parole spinte fra i denti stretti.
«Quindi? Io ho chiesto
una mano non una gamba».
«Non è divertente»
ribattei, ma non con la forza che avrei voluto, perché tutta convogliata a
trattenere le lacrime.
«Mai stato così serio.
Non sono io a vedere dei limiti».
Ribollivo di rabbia e
terrore come non mi era mai successo. La testa mi scoppiava, l’umiliazione
andava a rinfocolare la rabbia che si accumulava aumentando la pressione, il
desiderio unico era quello di fuggire. Mi trovai dinanzi a un bivio da manuale:
emettere un SOS per farmi recuperare da mia madre o sottomettermi al despota. Scelsi
il secondo.
Provavo odio nei suoi
confronti, un maledetto ariete che, in un sol colpo, aveva demolito il castello
di aspettative che mi ero creata. Sognavo un’oasi, una zona franca dove
fingermi normale, invece, mi ritrovai a essere un animale da soma da
ricompensare con una ciotola di riso.
«Vieni!» ordinò,
ritenendo chiusa la discussione. Lo seguii stringendo i pugni, avrei voluto
mandarlo a quel paese, ma l’orgoglio accecava la ragione spingendomi a
combattere come un lottatore messo in un angolo. Attraverso un varco entrammo
in un recinto dove pascolavano due cavalli. Il più vicino era un baio dal pelo
lucido, la criniera fluente e uno sguardo fiero da puledro purosangue, poco
oltre c’era un ronzino dal pelo sorcino, emaciato e dal vigore di un
lombrico.
«A te affido Macello»
disse. Istintivamente associai il nome al derelitto. Avrei, quindi, dovuto
strigliare, spazzare, lavare e bardare un maledetto brocco che puzzava più di
un muflone muschiato? Perché non il purosangue? Voleva affidare un derelitto a una
menomata?
«Ma si chiama Marcello
o Macello?» domandai. Mi ripugnava rivolgergli la parola, ma speravo d’aver
capito male.
«Macello».
«C’è un motivo?»
«Perché era diretto al
macello», rispose, «era ridotto male. Al padrone serviva un cavallo da lavoro,
ma il bischero», diede una pacca sul garrese dell’animale, «ha il cuore
deboluccio».
Guardai il cavallo
negli occhi. Quello destro era cecato.
«E come mai è finito
qua?»
«Quando porti un
animale al mattatoio pare intuirlo: s’impunta. Macello, invece, era mansueto».
«Quindi le ha fatto
pena e lo ha messo a riposo da lei» terminai la frase, per chiudere il
discorso.
«Affatto!» ribadì, «non
è stata compassione. Diciamo fiuto per gli affari. Per il vecchio proprietario
i cavalli devono essere buoni solo per correre, per lui Macello era un peso
morto. Io, invece, l’ho guardato senza preconcetti e ho visto un animale perfetto
per i bambini. Con pochi euro mi sono preso un cavallo che da cinque anni uso
per l’ippoterapia».
«Ma rimane un cavallo
mezzo azzoppato».
«Questo è quello che
vedi con l’idea che un cavallo se non corre, salta o tira una carrozza deve per
forza pascolare ozioso. Io vedo un animale docile che trasmette delle emozioni
che un purosangue non saprebbe dare».
Non seppi mascherare
una smorfia d’incredulità.
«Imparerai a
conoscerlo» concluse. Preso il cavallo, poi, mi insegnò a condurlo, dissellarlo
e strigliarlo. Azioni che avrei ripetuto quotidianamente, assieme allo spazzare
il box dal letame, assicurargli la razione di fieno e biada, portarlo nel
tondino a passeggiare quando non doveva lavorare. Praticamente ero la sguattera
dell’equino; con i bambini ebbi poco a che fare. Nonostante tutto, però, non
provavo astio nei suoi confronti: l’odio era indirizzato interamente verso il
bifolco che, saccente, non perdeva occasione per riprendermi per una
disattenzione o un lavoro impreciso.
Macello era goffo,
cecato e ogni respiro pareva essere l’ultimo, eppure, i bambini erano felici
montandolo. Una sera ne vidi uno che, appena sceso dalla sella, gli strinse il
muso con le lacrime agli occhi: era l’ultima passeggiata, per lui il campus era
finito. La stessa sera, riponendo le briglie nella selleria, passai accanto a
una porta socchiusa, la curiosità mi spinse a entrare. Era una piccola
stanzetta bianca, con al centro un tavolo con dei fogli da disegno e dei
pastelli colorati, ma a sorprendermi furono le pareti: sparsi in modo
disordinato c’erano incise firme, scarabocchi, impronte di mani, disegni e
fotografie.
«Sono i saluti che i
ragazzi lasciano a Macello». La voce del fattore mi fece trasalire. «Ragazzi
che, grazie a lui, magari solo per qualche ora, hanno fatto pace con il mondo».
Nelle foto un
campionario di disabilità di vario grado. Lo sguardo mi cadde poi su di un
braccialetto di corda colorata con infilate alcune conchiglie, uno di quelli
che i vucumprà regalano in spiaggia in cambio di un’offerta.
«Quello era il
bracciale portafortuna di Oreste» disse il fattore, indicando una fotografia.
Gli occhi giulivi di un ragazzino guardavano dritto nell’obbiettivo della
camera fotografica. Il sorriso era radioso mentre, in sella a Macello, ne
stringeva il collo con le braccia. Anche il cavallo pareva guardare il
fotografo con l’unico occhio buono. Se mai un’immagine potesse rappresentare
appieno un’emozione, quella fotografia sarebbe stata la perfetta raffigurazione
della gioia.
«Lo ha portato sua
madre» riprese l’uomo, indicando il bracciale. «L’ultimo desiderio di Oreste:
un dono per il suo destriero». Guardai, forse per la prima volta, l’uomo dritto
negli occhi, erano asciutti, eppure la voce era incrinata. Fissava la fotografia
rievocando chissà quali ricordi.
«Macello è stato il suo
ultimo pensiero. Sono pochi gli esseri umani che possono vantare un privilegio
simile».
Da quella sera iniziai
a guardare il cavallo con occhi diversi: sparì l’afrore della stalla, lo schifo
nello spazzare il letame, ripulirne il manto dalla polvere impastata al sudore,
provavo quasi invidia osservando i bambini che lo montavano a turno.
La notte, stanca morta,
stendendomi sul materasso saggiavo il paradiso; a schiena rigida sprofondavo in
un narcotizzante abbraccio. Ogni muscolo doleva, anche quelli di cui ignoravo
l’esistenza, erano così indolenziti da rifiutare qualsiasi movimento, la testa
svuotata di ogni pensiero scivolava in un sonno profondo: troppo stanca per
pensare.
Oggi non so
quantificare quanto quel mese di lavori forzati mi abbia cambiata, certamente
mi ha fatto crescere. Con il senno di poi mi sono resa conto che il fattore,
nella sua rude sincerità, aveva toccato il mio nervo scoperto: volevo essere
trattata da persona normale, ma non accettavo di perdere gli esoneri
alle responsabilità. In casa, e fra gli amici, vivevo in una teca di vetro,
lasciavo i lavori e le responsabilità agli altri nascondendomi dietro una
inadeguatezza mai certificata. Quell’uomo, servendomela su di un piatto di
porcellana, mi fece saggiare la normalità perché, per lui, non avevo nulla di
meno e nulla di più di qualsiasi altra persona. Uno sguardo che non avevo mai
visto nemmeno nei miei genitori. Sbattendomelo in faccia, aveva dimostrato che
usavo lo stesso metro che dicevo voler combattere: giudicavo a prima vista
basandomi a preconcetti come feci per Macello. Combattevo contro il mondo, ma
il mio primo nemico ero me stessa.
Fu una lezione che non
assimilai subito, forse accecata dall’inconsapevolezza dell’adolescenza, ma se
oggi, ormai adulta, ho fatto pace con il mondo è anche grazie a lui e a
Macello. Ora adoro l’estate, oziare su di un lettino al bagno Florida, fissando
il cielo che, sopra al mare, è ancora più azzurro.
Racconto edito nella raccolta: La filosofia dell'acqua.
Condividete pure, ma non dimenticate di citare l'autore 😊