di Pierangelo Colombo

giovedì 16 ottobre 2025

IL CIELO SOPRA IL MARE


IL CIELO SOPRA IL MARE




«Niente principesse da queste parti». Fu la scintilla che fece deflagrare il mio amor proprio. A ferirmi non il modo o l’impeto nel pronunciarla, né la persona che diede voce alla frase, un perfetto estraneo, ma il sentirmi disarmata dinanzi alla verità. D'altronde non è l’intensità della scintilla che produce l’innesco, bensì la miscela fra il gas e l’ossigeno. Se la casa è satura di gas questo non esplode, per farlo abbisogna di una adeguata percentuale d’ossigeno; e in quell’istante il mio stato d’animo era immerso nella letale miscela fra l’esplosivo senso d’inadeguatezza e un’effimera fiducia di sentirmi al sicuro.

Ero adolescente e, allora, detestavo l’estate, ma più ancora odiavo la villeggiatura in riviera. Un’avversione viscerale lenita dalle implorate, seppur sporadiche, giornate di pioggia. Benedivo Giove Pluvio che, pietoso, concedeva delle pause alla tortura impostami dai genitori. Da psicoterapeuti improvvisati, a confermare la bontà di un’ipotetica iniezione di autostima, mi sottoponevano a una gogna: integrarmi fra le coetanee che sfilavano lungo la passatoia del bagno Florida. Detestavo l’estate, il caldo e la necessità di svestirsi. Ipertricosi, cellulite, vene varicose, discromie cutanee formano alcuni sottogruppi nell’insieme dei problemi estetici nella specie umana; patologie diffuse quanto aberrate in estate ma che, in un modo o nell’altro, trovano delle soluzioni. Il rimedio al mio, di problema, si chiama protesi ortopedica, arto artificiale, gamba di legno. Espediente efficace che, nella gran parte dell’anno, si cela con un modesto paio di comodi pantaloni. L’estate, invece, mette a nudo la mancanza e lo dimostra lo sguardo della gente. Occhi che, indipendentemente dalla volontà, sembrano volermi avvisare d’essere uscita di casa dimenticando d’indossare le mutande; l’imbarazzo con cui un estraneo indica l’esserti rimasta attaccata della carta igienica ai pantaloni.

Gli sguardi parlano, urlano quello che la bocca tace o bisbiglia. Poverina è l’aggettivo più odioso, la stoccata che fa più male: perché giunge alle spalle. È una scossa che arriva dritta al cervello; un brivido che corre lungo la schiena e annacqua gli occhi.

Il primo impatto in un incontro frontale è silenzio, l’imbarazzo di un istante lungo un’eternità. Gli occhi vedono solo quello che manca. La smorfia involontaria, un sorriso tirato, rammenta puntualmente la differenza: quel materiale inorganico che puntella un passo altrimenti zoppo. Subito i pensieri si fanno tangibili, captabili come onde radio: E ci lamentiamo delle sciocchezze. Povera, chissà cosa le è successo. Era una ragazza così carina. Ringrazio Dio che i miei figli sono sani.

Biasimo che avvampa quanto un fuoco di Sant’Antonio. In un batter di ciglia ci si sente una scarpa spaiata. Quella che per mia madre era una palestra di vita per me era morire dentro; finché non conobbi Macello.

L’idea mi balenò in testa appena lessi l’opuscolo, un fulmine che squarcia l’oscurità: Agriturismo i Cipressi, un mese di stage in una struttura lontana dal mare. Assistente in un campo estivo per bambini in cambio di vitto, alloggio e crediti scolastici. Con buona pace dei miei avrei sistemato l’estate con un colpo di spugna. Nella valigia pantaloni e camicette, niente short, costumi o gonne.

«Innanzitutto il benessere dei bambini», mi accolse la responsabile del campus.

«Sì, certo» risposi all’ovvietà.

«Quindi accantoniamo paturnie o pulsioni rivoluzionarie adolescenziali e dedichiamoci a loro sorridendo».

Un volo planare di vocaboli per togliermi dalla faccia l’espressione da piccola fiammiferaia agonizzante. Intuita la stoccata sfoggiai il migliore dei sorrisi.

«Anche meno» disse, «l’importante non è la spontaneità, ma fingere bene».

Una Minerva nei panni di una fatina: tanto dolce con i marmocchi quanto pronta a impietrire colleghe e assistenti. Una cucchiaiata di miele, tuttavia, se paragonata al cinismo del fattore, il proprietario della baracca. 

Figuro che si era palesato nel tardo pomeriggio; pareva un mugnaio appena uscito dal mulino, ma invece della fragranza di grano odorava di fieno, polvere incollata al collo da rivoli di sudore. Ripulita la mano in uno straccio, la porse stringendo vigorosamente la mia.

«Domani iniziamo i laboratori con i cavalli. Mi serve aiuto per prepararli. Nella selleria troverai delle tute da lavoro di varie taglie».

«Tuta da lavoro?» domandai disorientata. 

«Ti assicuro che in stalla è utile».

«Ma io credevo…» balbettai, convinta in un incarico di baby-sitter. «Forse c’è un equivoco. Io sono la stagista».

«Niente principesse da queste parti» ribadì con voce distaccata.

«Ma io non posso fare lavori pesanti». Avrei voluto usare un tono perentorio, ma ne uscì un miagolio umiliato.

«E chi li ha chiesti? Mi serve un aiuto, non Ercole».

Maledìi la segreteria della scuola per non aver informato il fattore della mia situazione. Avvampando alzai il pantalone destro, ma l’orlo stretto si bloccò a metà polpaccio.

«Prurito?» chiese lui.

«Porto una protesi». Parole spinte fra i denti stretti.

«Quindi? Io ho chiesto una mano non una gamba».

«Non è divertente» ribattei, ma non con la forza che avrei voluto, perché tutta convogliata a trattenere le lacrime.

«Mai stato così serio. Non sono io a vedere dei limiti».

Ribollivo di rabbia e terrore come non mi era mai successo. La testa mi scoppiava, l’umiliazione andava a rinfocolare la rabbia che si accumulava aumentando la pressione, il desiderio unico era quello di fuggire. Mi trovai dinanzi a un bivio da manuale: emettere un SOS per farmi recuperare da mia madre o sottomettermi al despota. Scelsi il secondo.

Provavo odio nei suoi confronti, un maledetto ariete che, in un sol colpo, aveva demolito il castello di aspettative che mi ero creata. Sognavo un’oasi, una zona franca dove fingermi normale, invece, mi ritrovai a essere un animale da soma da ricompensare con una ciotola di riso.

«Vieni!» ordinò, ritenendo chiusa la discussione. Lo seguii stringendo i pugni, avrei voluto mandarlo a quel paese, ma l’orgoglio accecava la ragione spingendomi a combattere come un lottatore messo in un angolo. Attraverso un varco entrammo in un recinto dove pascolavano due cavalli. Il più vicino era un baio dal pelo lucido, la criniera fluente e uno sguardo fiero da puledro purosangue, poco oltre c’era un ronzino dal pelo sorcino, emaciato e dal vigore di un lombrico.   

«A te affido Macello» disse. Istintivamente associai il nome al derelitto. Avrei, quindi, dovuto strigliare, spazzare, lavare e bardare un maledetto brocco che puzzava più di un muflone muschiato? Perché non il purosangue? Voleva affidare un derelitto a una menomata?

«Ma si chiama Marcello o Macello?» domandai. Mi ripugnava rivolgergli la parola, ma speravo d’aver capito male.

«Macello».

«C’è un motivo?»

«Perché era diretto al macello», rispose, «era ridotto male. Al padrone serviva un cavallo da lavoro, ma il bischero», diede una pacca sul garrese dell’animale, «ha il cuore deboluccio».

Guardai il cavallo negli occhi. Quello destro era cecato.

«E come mai è finito qua?»

«Quando porti un animale al mattatoio pare intuirlo: s’impunta. Macello, invece, era mansueto».

«Quindi le ha fatto pena e lo ha messo a riposo da lei» terminai la frase, per chiudere il discorso.

«Affatto!» ribadì, «non è stata compassione. Diciamo fiuto per gli affari. Per il vecchio proprietario i cavalli devono essere buoni solo per correre, per lui Macello era un peso morto. Io, invece, l’ho guardato senza preconcetti e ho visto un animale perfetto per i bambini. Con pochi euro mi sono preso un cavallo che da cinque anni uso per l’ippoterapia».

«Ma rimane un cavallo mezzo azzoppato».

«Questo è quello che vedi con l’idea che un cavallo se non corre, salta o tira una carrozza deve per forza pascolare ozioso. Io vedo un animale docile che trasmette delle emozioni che un purosangue non saprebbe dare».

Non seppi mascherare una smorfia d’incredulità.

«Imparerai a conoscerlo» concluse. Preso il cavallo, poi, mi insegnò a condurlo, dissellarlo e strigliarlo. Azioni che avrei ripetuto quotidianamente, assieme allo spazzare il box dal letame, assicurargli la razione di fieno e biada, portarlo nel tondino a passeggiare quando non doveva lavorare. Praticamente ero la sguattera dell’equino; con i bambini ebbi poco a che fare. Nonostante tutto, però, non provavo astio nei suoi confronti: l’odio era indirizzato interamente verso il bifolco che, saccente, non perdeva occasione per riprendermi per una disattenzione o un lavoro impreciso.

Macello era goffo, cecato e ogni respiro pareva essere l’ultimo, eppure, i bambini erano felici montandolo. Una sera ne vidi uno che, appena sceso dalla sella, gli strinse il muso con le lacrime agli occhi: era l’ultima passeggiata, per lui il campus era finito. La stessa sera, riponendo le briglie nella selleria, passai accanto a una porta socchiusa, la curiosità mi spinse a entrare. Era una piccola stanzetta bianca, con al centro un tavolo con dei fogli da disegno e dei pastelli colorati, ma a sorprendermi furono le pareti: sparsi in modo disordinato c’erano incise firme, scarabocchi, impronte di mani, disegni e fotografie.

«Sono i saluti che i ragazzi lasciano a Macello». La voce del fattore mi fece trasalire. «Ragazzi che, grazie a lui, magari solo per qualche ora, hanno fatto pace con il mondo».

Nelle foto un campionario di disabilità di vario grado. Lo sguardo mi cadde poi su di un braccialetto di corda colorata con infilate alcune conchiglie, uno di quelli che i vucumprà regalano in spiaggia in cambio di un’offerta.

«Quello era il bracciale portafortuna di Oreste» disse il fattore, indicando una fotografia. Gli occhi giulivi di un ragazzino guardavano dritto nell’obbiettivo della camera fotografica. Il sorriso era radioso mentre, in sella a Macello, ne stringeva il collo con le braccia. Anche il cavallo pareva guardare il fotografo con l’unico occhio buono. Se mai un’immagine potesse rappresentare appieno un’emozione, quella fotografia sarebbe stata la perfetta raffigurazione della gioia.

«Lo ha portato sua madre» riprese l’uomo, indicando il bracciale. «L’ultimo desiderio di Oreste: un dono per il suo destriero». Guardai, forse per la prima volta, l’uomo dritto negli occhi, erano asciutti, eppure la voce era incrinata. Fissava la fotografia rievocando chissà quali ricordi.

«Macello è stato il suo ultimo pensiero. Sono pochi gli esseri umani che possono vantare un privilegio simile».

Da quella sera iniziai a guardare il cavallo con occhi diversi: sparì l’afrore della stalla, lo schifo nello spazzare il letame, ripulirne il manto dalla polvere impastata al sudore, provavo quasi invidia osservando i bambini che lo montavano a turno.

La notte, stanca morta, stendendomi sul materasso saggiavo il paradiso; a schiena rigida sprofondavo in un narcotizzante abbraccio. Ogni muscolo doleva, anche quelli di cui ignoravo l’esistenza, erano così indolenziti da rifiutare qualsiasi movimento, la testa svuotata di ogni pensiero scivolava in un sonno profondo: troppo stanca per pensare.

Oggi non so quantificare quanto quel mese di lavori forzati mi abbia cambiata, certamente mi ha fatto crescere. Con il senno di poi mi sono resa conto che il fattore, nella sua rude sincerità, aveva toccato il mio nervo scoperto: volevo essere trattata da persona normale, ma non accettavo di perdere gli esoneri alle responsabilità. In casa, e fra gli amici, vivevo in una teca di vetro, lasciavo i lavori e le responsabilità agli altri nascondendomi dietro una inadeguatezza mai certificata. Quell’uomo, servendomela su di un piatto di porcellana, mi fece saggiare la normalità perché, per lui, non avevo nulla di meno e nulla di più di qualsiasi altra persona. Uno sguardo che non avevo mai visto nemmeno nei miei genitori. Sbattendomelo in faccia, aveva dimostrato che usavo lo stesso metro che dicevo voler combattere: giudicavo a prima vista basandomi a preconcetti come feci per Macello. Combattevo contro il mondo, ma il mio primo nemico ero me stessa.

Fu una lezione che non assimilai subito, forse accecata dall’inconsapevolezza dell’adolescenza, ma se oggi, ormai adulta, ho fatto pace con il mondo è anche grazie a lui e a Macello. Ora adoro l’estate, oziare su di un lettino al bagno Florida, fissando il cielo che, sopra al mare, è ancora più azzurro.

 

Di Pierangelo Colombo 


Racconto edito nella raccolta: La filosofia dell'acqua

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