Buona lettura.
L'urlo
La voce roca
del professore satura l’aria; parole che, come mosche, scaccio con il pensiero.
Rimugino sulla malsana idea d’essermi iscritta a giurisprudenza, quesito che
distrae l’attenzione sino al congedo del docente. Abbandonata l’austerità dell’aula,
percorro con indolenza il corridoio.
«Cri… Cri,
aspetta!» strilla Federica, arpionandomi. «Ti prego, non uccidermi» implora.
«Questa sera…» Sospende la frase, nella speranza che, presagendo le sue parole,
la sollevi dall’impaccio.
«Fede, non
scherzare! Non mi dai buca, vero?»
«Ti prego…
Stefano mi ha chiesto d’uscire, è una vita che aspetto».
«Cazzo, Fede.
E l’addio al nubilato di Conni?»
«Sono una
stronza, lo ammetto, ma ti prego».
«Lascia
perdere!» ribatto piccata.
«Dille che non
mi sento bene o che…»
«Vuoi dire
che, oltre ad andarci sola, dovrei pure pararti il culo?»
«Evita
paternali, per favore» ribatte. «Sono mesi che aspetto d’uscire con lui».
«Va bene.
Divertiti allora» sbotto, andandomene. Troppa la rabbia per sostenere oltre la
discussione. Sono così indispettita che, senza alcuna cognizione, mi ritrovo in
auto. Lascio l’università in fretta e furia. Percorrendo il ponte della
Cittadella scorgo le acque dell’Arno di un colore marrone bilioso, specchio del
mio stato d’animo. Allontanandomi da Pisa, vorrei mandare al diavolo tutto,
fottermene di Conni, della festa, degli ormoni di Fede e, imboccando la statale
in direzione del mare, andarmene a sbronzarmi con sole e musica. Una
frustrazione che si dilegua, sbollita dall’aria del finestrino.
Entro a
Volterra mentre le campane battono la mezza; ho un lungo pomeriggio da
impiegare: la festa è in serata. Passeggio per il centro senza meta; cammino
distratta. Mi soffermo di fronte al museo archeologico; decido di entrarvi.
Nelle sale il
tempo pare sospeso, come il pulviscolo nell’aria. Il bisbiglio dei pochi
visitatori è sovrastato dallo schiamazzo dei turisti che, simili a formiche,
pattugliano le vie del borgo, in cerca di cibo e botteghe d’alabastro. Un
vociare che scivola lungo le pareti dell’edificio, irrompendovi attraverso una
finestra spalancata.
Depositato
ogni cruccio al guardaroba, vago fra i reperti con la sensazione di risvegliare
memorie remote. Osservo rapita, attraverso il cristallo di una teca, la superba
granulazione dei gioielli etruschi, mentre, impressa nella mente, riecheggia
l’affascinante figura esile e poetica dell’Ombra della sera.
Un sussurro
leggero, simile al frusciare di una vestaglia, mi ridesta. Alzando di poco lo
sguardo, scorgo, riflesso nel cristallo, il mio viso e, di poco scostato,
quello di un giovane. I nostri sguardi si incrociano; mi perdo nei suoi occhi
neri, folgoranti, dal taglio simile a piccole foglie d’alloro. Avvampo,
irretita dalla bellezza dei contorni sottili. I lunghi capelli lisci ricadono
fluidi sulle spalle, mentre la barba, ben curata, ne sfiora gli zigomi lambendo
le labbra carnose. Non riesco a distoglierne lo sguardo, mentre cresce la
sensazione di riconoscerne l’identità che, però, sfugge come una fotografia che
riaffiora fra i ricordi senza, tuttavia, trovare un’associazione o una
collocazione temporale.
Gli occhi mi
bruciano: sono spalancati in un’estasi mistica. D’improvviso, in un battito di
ciglia, il riflesso si dissolve nell’aria. Mi manca il respiro, il cuore ha un
tonfo. Mi volto di scatto trovando la sala vuota. Il turbamento si fa panico.
Affacciandomi alla sala attigua, la trovo deserta; l’intero museo sembra privo
di vita.
I fari
dell’auto dissolvono l’oscurità, illuminando la striscia d’asfalto che,
serpeggiando, lascia la cittadina. Nella testa sciama l’eco della musica,
permettendo ai pensieri di ritrovare voce. Il trambusto della festa ha soltanto
accantonato il turbamento per l’allucinazione nel museo. Con la logica
smantello le ipotesi abbozzate: debolezza da fame, riflesso di luce. Non mi
riesce di cancellare quel volto misterioso. Sfoglio i ricordi cercandone i
tratti vagamente familiari senza trovarne traccia.
Una spia si
accende sul cruscotto e il motore si arresta, facendo sussultare l’auto. Si
spegne ogni luce. Impreco, giro più volte la chiave, ma l’inerzia del motore
non fa che amplificare il rumore dell’unghia che si spezza.
Prendo a pugni
il volante, sfogando la rabbia nei confronti di Federica.
«Quella
stronza! Spero che il preservativo sia bucato!»
La luna rischiara
la campagna tratteggiandone i lineamenti, contorni che si fanno lugubri. Mi
ricordo del cellulare. Rovisto fra le cianfrusaglie nella borsetta. Lo estraggo
e premo il display che, illuminandosi, mi rincuora.
«Cazzo, non è
possibile!» inveisco, leggendo dell’assenza di rete.
Il silenzio si
fa solido, l’aria irrespirabile. Non trattengo alcune lacrime. Respiro
profondamente. Scendo dall’auto per cercare una casa o un segnale sufficiente
per il cellulare. Cammino sulla linea di mezzeria; la boscaglia mi inquieta, ne
sbucano crepitii e versi tetri di animali.
Non sono
lucida: percepisco dei passi. Dovrei fermarmi per accertarmi che sia solo
suggestione, ma vorrei correre, fuggire. Serro al petto i lembi dello scialle.
Ho freddo; i brividi irrigidiscono i muscoli, mi fanno male. Fisso il display,
sperando di trovarvi le tacche della rete.
Uno
stramaledetto animale fugge da un cespuglio e il cuore ha un collasso. L’aria è
gelida. Giurerei di non essere sola. Affretto il passo; l’affanno del respiro
copre i rumori. La tensione mi sta uccidendo.
All’improvviso,
la salvezza: un acciottolato bianco che s’inerpica su di una collina. Un
cartello indica: ‘Vendita Vini’.
«Grazie, Dio.
Esisti e ora ne sono certa».
Imbocco il
sentiero, confidando nella comprensione dei residenti. Un sollievo effimero,
però, liquidato da un senso di sopraffazione: una mano invisibile preme sul
petto, respiro a fatica, le ginocchia sono molli. Al limite di una crisi
isterica, incespico in alcune radici. Mi fermo, percepisco un sussurro nella
brezza, una vibrazione da cui capto un suono: “Vel”. L’istinto lo collega al
viso del museo.
Riprendo il
passo, allungandolo. La testa mi scoppia, sto impazzendo. Inciampo, apro
istintivamente le mani lasciando cadere il cellulare. Scoppio a piangere come
una bambina. Sento le cosce tiepide e bagnate: me la sono fatta addosso.
Smaltisco lo
choc. Mi inginocchio. Tasto il terreno, cercando il cellulare. La campagna
tace: non un grillo, un suono qualsiasi. La paura diventa ansia, soffocante
sensazione d’essere in ritardo, mentre torna quel suono: “Vel”.
Alzando lo
sguardo, il sangue mi si raggela nelle vene: a una trentina di metri, il fascio
luminoso di una torcia elettrica. Odo un colpo metallico, voci mormorate. Di
nuovo il panico. Riprendo la ricerca del cellulare, nella testa riecheggia:
“Vel…Vel…Vel…”
Trovato! Pigio
lo schermo, accendendo il display. Digito il 112, porto l’apparecchio
all’orecchio, ma qualcosa si spacca in me. Risponde un operatore; la sua voce,
però, si fa lontana, mentre percepisco la mia rispondere. Ascolto la telefonata
dall’esterno. Persino la lingua mi sembra incomprensibile.
Sto per
esplodere di rabbia; una forza che non controllo, esterna, prende il
sopravvento. Getto il cellulare. Rabbrividisco. Distinguo gli uomini intenti a
profanare un sepolcro, un’immagine si forma vivida nella mente: il volto
misterioso è ora implorante, tormentato. Esplodo in un urlo che non trattengo
più, una voce che non è la mia, ma che sgorga dell’anima. Un ruggito, che
percorre la campagna come un’onda d’urto. Vel, il nome arcano, lanciato come
una pietra contro quegli uomini. Grido sostenuto sino all’ultimo filo d’aria
dei polmoni.
Sfinita e
svuotata, come se le ossa stesse si siano volatilizzate assieme all’urlo, mi
accascio piombando nel buio e nel silenzio.
«Sono lieto
abbia accettato l’invito» dichiara il sovrintendente agli scavi archeologici.
«Grazie a lei, possiamo mostrare al pubblico questo importante ritrovamento»
prosegue, invitandomi a entrare nel museo.
Appese alle
pareti, le locandine annunciano l’esposizione dei reperti rinvenuti nella tomba
etrusca. Mi stringo al braccio di Conni. Sono trascorsi quasi diciotto mesi da
quella notte. Giorni trascorsi, minuto dopo minuto, a ricercare una stabilità
psichica. Mesi segnati dai ricordi che vanno sfocandosi fino a dissolversi
all’imboccatura del sentiero acciottolato, per riprendere, con un balzo
temporale, dal volto di un carabiniere chino su di me, i lampeggianti della
volante, l’ambulanza, i medici, gli infermieri.
«Prego, si
avvicini pure» mi invita il sovrintendente. «Sono oggetti di pregevole fattura.
Si trattava di una coppia nobile».
Ascolto senza
interesse, auspicando finisca presto.
«Qui, invece,
sono esposti i gioielli» prosegue.
Getto
un’occhiata ai preziosi adagiati su del velluto rosso.
«È un corredo
nuziale!» esclama, pomposo. «La tomba apparteneva a una coppia di sposi. Gli
affreschi, fra l’altro ben conservati, rappresentano il bacchetto di nozze».
«L’avevo detto
che non dovevo venire» bisbiglio a Conni.
«Prima o poi devi
affrontare questa situazione» ribatte.
«Parli come il
mio analista, però, sono io che sto per avere una crisi».
«Prego, da
questa parte» ci invita il direttore. «Nella prossima sala potrete vedere i
cinerari. I “tombaroli” sono fuggiti frettolosamente, sorpresi mentre
svuotavano le ceneri dello sposo».
Rabbrividisco al pensiero.
«Nella
prossima sala, è esposto il coperchio dell’urna che conteneva i due cinerari.
Un vero gioiello scultoreo».
«Si conoscono
i nomi degli sposi?» domanda Conni.
«La sposa si
chiamava Elinai e lo sposo Vel».
Sussulto,
attraversata da una scossa elettrica.
«Nomi incisi
sul basamento dell’urna, mentre il coperchio ritrae la coppia su di un
triclinio» precisa il direttore.
Varcando la
soglia dell’ultima sala, il cuore trasale in una sincope. Chiusi nella teca, i
due sposi sembrano attendere l’arrivo dei visitatori. L’uomo abbraccia la
moglie di spalle, accarezzandole i lunghi capelli. Nulla, nel complesso
scultoreo, intacca la fluidità delle figure. La tinta calda della terracotta
sembra infondere vita agli sposi. Avvicinandomi, saggio con lo sguardo ogni
particolare. Intimidita, con lo sguardo risalgo la lunga chioma dello sposo
sino al volto delicato. Trasalisco, attraversata da un brivido. La sala si
svuota dell’ossigeno lasciandomi senza respiro. Davanti a me, perfettamente
riprodotto, c’è il giovane del museo.
«Stupefacente
la somiglianza!» esclama il sovrintendente; parole che mi giungono come una
sferzata. Voltandomi, ne colgo lo sguardo sgomento che si alterna fra me e i due
sposi.
Vorrei urlare,
fuggire lontana da questo museo maledetto. Mi manca il respiro, ho le
vertigini; mi aggrappo a Conni chiedendo sostegno, ma anche lei, sgomenta, sta
fissando la scultura. Seguendone lo sguardo, porto il mio sul volto della
sposa, restando basita. Dinanzi a me, plasmato in un’era lontanissima, vedo il
mio viso come fosse riflesso su di uno specchio.
Di Pierangelo Colombo, edito nella raccolta :Prospettive (2017).
Di Pierangelo Colombo, edito nella raccolta :Prospettive (2017).
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