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giovedì 5 luglio 2018

Ricordi fugaci




La disarmante impotenza dinanzi a dei ricordi così fugaci da lasciare destabilizzati, cancellando i punti cardinali della nostra storia, perdiamo la rotta riducendoci come naufraghi alla deriva. 

 

Ricordi fugaci


Seduta sotto il portico di casa, mia madre scruta i propri piedi come se vi cercasse chissà quale verità, oppure segue il fumo dello zampirone tracciare arabeschi nell’aria? Difficile intuirne i pensieri: è come cercare della logica nella fantasia dei bambini. Fragile, nel suo corpo minuto, mi osserva guardinga, mentre le vado a sedere accanto. Volge lo sguardo altrove, come una ragazzina intimidita dall’avvicinarsi di un estraneo.
«Domani dovrei cogliere la lavanda» dice. Udirne il nome è come ridestare un recettore dal letargo: mi accorgo solo ora della fragranza profusa dal vicino cespuglio. Fiori che coglie da tempo immemore, per farcire sacchetti di tulle da deporre nell’armadio.
Le mani, che tiene sul grembo, hanno un fremito; la destra si leva verso il cielo indicando la prima stella della sera. Gli occhi le si fanno piccoli, scrutando l’infinito.
«I grandi re del passato ci guardano da lassù!» esclama, con enfasi.
Ultimamente è solita ripetere battute di film. A volte, riproduce un intero monologo; nulla di strano se non fosse che, da tempo, la sua memoria è un diario caduto nell’acqua: le pagine infradiciate concedono pochi frammenti leggibili, lasciando scivolare il resto nell’oblio. Demenza senile, la prognosi sentenziata a suo tempo dai medici per motivare i primi segnali d’amnesia, confusione, agnosia. Sintomi che hanno invaso la sua mente, infestandola come gramigna. Un’esimia professoressa in matematica che sapeva far di conto senza calcolatrice, che rievocava alunni a distanza di anni, ma che ora, settantanovenne, non riconosce nemmeno me, il suo unico figlio.
«Guarda, Tommaso, c’è qualcuno sulla luna» indica un punto luminoso sulla superficie in ombra.
«Sono Marco!» ribatto. «Non c’è nessuno, è solo un satellite che le passa davanti e riflette la luce» le spiego con pazienza. M’intenerisce il disorientamento che palesa: trova verosimile che qualcuno vi abiti, ma surreale un satellite artificiale.
«Tommaso?»
«Marco! Sono Marco».
«Marco chi?»
«Marco, tuo figlio. Tommaso era tuo marito, ma è morto».
«Lo so!» replica, stizzita. «L’anno passato».
«A dire il vero, sono nove anni» preciso. Mi guarda torva, come se stessi farneticando.
«Dov’è Svetlana?» Cambia discorso. «Dovrebbe stirare: con il sole di oggi i panni saranno asciutti».
 «Il suo nome, però, lo ricordi bene» ribatto, geloso nei confronti della badante ucraina. «Comunque, oggi è di riposo».
«Cucina insipido» protesta.
«Hai la pressione alta, usa poco sale per il tuo bene».
«Lo so, è brava tua moglie».
«Non è mia moglie».
«Perché non la sposi, allora?»
Sbruffo, replicando alla mania di volermi accollare a qualsiasi ragazza che abbia buone maniere e un curriculum da tre cucchiai d’argento in cucina. Tralascio di rammentarle che sposo lo sono stato in una lontana parentesi della mia vita, ma di quel matrimonio, tradito dopo cinque anni, non rimane che un vecchio album e un bonifico da versare mensilmente.
«Hai le calze Geox, quelle che respirano». Mostra il ghigno divertito nel fissare la finestrella nel mio calzino destro.
«Che ore sono? C’è Lascia o raddoppia!» domanda.
«Oggi è domenica, quindi non c’è L’eredità».
«Che eredità?»
Guardo le stelle sconsolato, lasciando che siano i grilli a disturbare il silenzio. Il lampioncino del vialetto proietta le nostre ombre sulla parete; le sono così vicino da poterla toccare, eppure lei è così lontana da non riconoscermi. La guardo fissare qualcosa d’etereo nell’aria. Le sfioro le mani percependone il tepore: sono sempre state calde, persino negli inverni più rigidi. Amo il suo calore, mi ricorda quando, uscendo da scuola, mi rassicurava cingendomi il viso fra le mani.
Il destino, a volte, sembra farsi beffa di noi. Penso allo scambio di ruoli a cui mia madre e io ci siamo dovuti soggiogare: un figlio ormai cinquantenne, mai stato padre, costretto ad accudire la propria madre come fosse una bambina di quattro anni. Paiono così lontani quei giorni in cui sorridevo dei suoi primi buffi strafalcioni. Con il tempo, però, le lancette nella sua mente hanno preso a girare all’inverso, cancellando intere pagine di vita vissuta. Capii allora che, lentamente, l’avrei persa.
Impotente, assisto al lento sfiorire della rosa che mi fece dono della vita. In lei vedo sbiadire le immagini, i ricordi, i sogni e le conquiste di una vita. Non vento impetuoso, ma brezza incessante, che giorno dopo giorno ne corrode la mente sbriciolandola.
Difficile immedesimarsi, posso solo immaginare la frustrazione nel cercare invano di ricordare; la stessa desolazione provata quando, per errore, ho cancellato dal computer una serie di fotografie di cui, nonostante gli sforzi, tuttora mi sfugge il contenuto. Quale vuoto stanno lasciando le sue radici che, atrofizzandosi, ne cancellano la storia gettandola nella solitudine? La vedo, a volte, sfogliare l’album di famiglia con la foga di un minatore, che scava nella roccia cercandovi dell’oro. Fissa volti ora sconosciuti, ma che hanno impersonato l’amore. Vede luoghi calpestati, adorati, ambiti, ora trasformati in angoli remoti e asettici. Mi struggo nel vederla ignorare il giorno della mia laurea, dimentica delle lacrime d’orgoglio.
«Dovresti portare in garage la moto». Interrompe il silenzio.
«Quale moto?»
«Quella di Tommaso» ribatte, stizzita per l’ovvietà.
«Papà possedeva una moto?»
«Non papà! Tommaso aveva una moto».
La sua fragilità mi lascia sgomento; per un figlio i genitori sono un punto fermo, colonne che sorreggono il cielo, e vederli vacillare fa tremare le vene. Prenderne il posto è uno sforzo titanico; la prima volta fu nella notte gelida in cui perdetti mio padre: tornati dall’ospedale, mi guardò con occhi gonfi e, senza proferire parola, cercò un mio abbraccio. Un gesto che mi lasciò sguarnito: lei che chiedeva protezione e conforto a me.
«Sento freddo» esclama, stringendosi nello scialle.
«Si è fatto tardi» rispondo, guardando l’orologio senza cercarvi le lancette. «Rientriamo in casa; ti lavo e ti metto a letto».
Mi porge la mano, perché l’aiuti a rialzarsi dalla panca. Attraverso il braccio ne percepisco lo sforzo impresso nei muscoli stanchi. Ondeggia nell’aria, cercando un punto d’equilibrio. Lo sguardo è vacuo, mentre si libera di un peto rumoroso, esibendo subito una risata sghignazzante, come un bimbo compiaciuto dalla propria marachella.
I nostri sguardi s’incrociano a una distanza ravvicinata. Si spegne il ghigno divertito, mentre i grandi occhi smeraldo si velano di lacrime. L’intero moto celeste si ferma per un istante: scorgo, attraverso i suoi occhi, il dolore generato dalla consapevolezza del proprio stato. Guardandomi con dolcezza materna, mi sfiora la guancia in una carezza sottile e calda: lo stesso tepore di quand’ero fanciullo. Un nodo mi serra la gola, impedendomi di formulare parola.
«Il mio Marco» sussurra, come se in quella soffitta polverosa che è ormai la sua mente avesse ritrovato, in un cassetto abbandonato, il ricordo di me. Ricordo che, fugace, le sfugge dal profondo dell’anima e, rapito dal vento, si dissolve nell’aria come un cerchio di fumo.


di Pierangelo Colombo, edito nella raccolta: Prospettive (2017)

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