La disarmante impotenza dinanzi a dei ricordi così fugaci da
lasciare destabilizzati, cancellando i punti cardinali della nostra storia, perdiamo
la rotta riducendoci come naufraghi alla deriva.
Ricordi fugaci
Seduta
sotto il portico di casa, mia madre scruta i propri piedi come se vi cercasse
chissà quale verità, oppure segue il fumo dello zampirone tracciare arabeschi
nell’aria? Difficile intuirne i pensieri: è come cercare della logica nella
fantasia dei bambini. Fragile, nel suo corpo minuto, mi osserva guardinga,
mentre le vado a sedere accanto. Volge lo sguardo altrove, come una ragazzina
intimidita dall’avvicinarsi di un estraneo.
«Domani
dovrei cogliere la lavanda» dice. Udirne il nome è come ridestare un recettore
dal letargo: mi accorgo solo ora della fragranza profusa dal vicino cespuglio.
Fiori che coglie da tempo immemore, per farcire sacchetti di tulle da deporre
nell’armadio.
Le
mani, che tiene sul grembo, hanno un fremito; la destra si leva verso il cielo
indicando la prima stella della sera. Gli occhi le si fanno piccoli, scrutando
l’infinito.
«I
grandi re del passato ci guardano da lassù!» esclama, con enfasi.
Ultimamente
è solita ripetere battute di film. A volte, riproduce un intero monologo; nulla
di strano se non fosse che, da tempo, la sua memoria è un diario caduto
nell’acqua: le pagine infradiciate concedono pochi frammenti leggibili,
lasciando scivolare il resto nell’oblio. Demenza senile, la prognosi
sentenziata a suo tempo dai medici per motivare i primi segnali d’amnesia,
confusione, agnosia. Sintomi che hanno invaso la sua mente, infestandola come
gramigna. Un’esimia professoressa in matematica che sapeva far di conto senza
calcolatrice, che rievocava alunni a distanza di anni, ma che ora,
settantanovenne, non riconosce nemmeno me, il suo unico figlio.
«Guarda, Tommaso, c’è
qualcuno sulla luna» indica un punto luminoso sulla superficie in ombra.
«Sono
Marco!» ribatto. «Non c’è nessuno, è solo un satellite che le passa davanti e
riflette la luce» le spiego con pazienza. M’intenerisce il disorientamento che
palesa: trova verosimile che qualcuno vi abiti, ma surreale un satellite
artificiale.
«Tommaso?»
«Marco!
Sono Marco».
«Marco
chi?»
«Marco,
tuo figlio. Tommaso era tuo marito, ma è morto».
«Lo
so!» replica, stizzita. «L’anno passato».
«A
dire il vero, sono nove anni» preciso. Mi guarda torva, come se stessi
farneticando.
«Dov’è
Svetlana?» Cambia discorso. «Dovrebbe stirare: con il sole di oggi i panni
saranno asciutti».
«Il suo nome, però, lo ricordi bene» ribatto,
geloso nei confronti della badante ucraina. «Comunque, oggi è di riposo».
«Cucina
insipido» protesta.
«Hai
la pressione alta, usa poco sale per il tuo bene».
«Lo
so, è brava tua moglie».
«Non
è mia moglie».
«Perché
non la sposi, allora?»
Sbruffo,
replicando alla mania di volermi accollare a qualsiasi ragazza che abbia buone
maniere e un curriculum da tre cucchiai d’argento in cucina. Tralascio di
rammentarle che sposo lo sono stato in una lontana parentesi della mia vita, ma
di quel matrimonio, tradito dopo cinque anni, non rimane che un vecchio album e
un bonifico da versare mensilmente.
«Hai le calze Geox,
quelle che respirano». Mostra il ghigno divertito nel fissare la finestrella
nel mio calzino destro.
«Che
ore sono? C’è Lascia o raddoppia!» domanda.
«Oggi
è domenica, quindi non c’è L’eredità».
«Che
eredità?»
Guardo le stelle
sconsolato, lasciando che siano i grilli a disturbare il silenzio. Il
lampioncino del vialetto proietta le nostre ombre sulla parete; le sono così
vicino da poterla toccare, eppure lei è così lontana da non riconoscermi. La
guardo fissare qualcosa d’etereo nell’aria. Le sfioro le mani percependone il
tepore: sono sempre state calde, persino negli inverni più rigidi. Amo il suo
calore, mi ricorda quando, uscendo da scuola, mi rassicurava cingendomi il viso
fra le mani.
Il
destino, a volte, sembra farsi beffa di noi. Penso allo scambio di ruoli a cui
mia madre e io ci siamo dovuti soggiogare: un figlio ormai cinquantenne, mai
stato padre, costretto ad accudire la propria madre come fosse una bambina di
quattro anni. Paiono così lontani quei giorni in cui sorridevo dei suoi primi
buffi strafalcioni. Con il tempo, però, le lancette nella sua mente hanno preso
a girare all’inverso, cancellando intere pagine di vita vissuta. Capii allora
che, lentamente, l’avrei persa.
Impotente,
assisto al lento sfiorire della rosa che mi fece dono della vita. In lei vedo
sbiadire le immagini, i ricordi, i sogni e le conquiste di una vita. Non vento
impetuoso, ma brezza incessante, che giorno dopo giorno ne corrode la mente
sbriciolandola.
Difficile
immedesimarsi, posso solo immaginare la frustrazione nel cercare invano di
ricordare; la stessa desolazione provata quando, per errore, ho cancellato dal
computer una serie di fotografie di cui, nonostante gli sforzi, tuttora mi
sfugge il contenuto. Quale vuoto stanno lasciando le sue radici che,
atrofizzandosi, ne cancellano la storia gettandola nella solitudine? La vedo, a
volte, sfogliare l’album di famiglia con la foga di un minatore, che scava
nella roccia cercandovi dell’oro. Fissa volti ora sconosciuti, ma che hanno
impersonato l’amore. Vede luoghi calpestati, adorati, ambiti, ora trasformati
in angoli remoti e asettici. Mi struggo nel vederla ignorare il giorno della mia
laurea, dimentica delle lacrime d’orgoglio.
«Dovresti
portare in garage la moto». Interrompe il silenzio.
«Quale
moto?»
«Quella
di Tommaso» ribatte, stizzita per l’ovvietà.
«Papà
possedeva una moto?»
«Non
papà! Tommaso aveva una moto».
La sua fragilità mi
lascia sgomento; per un figlio i genitori sono un punto fermo, colonne che
sorreggono il cielo, e vederli vacillare fa tremare le vene. Prenderne il posto
è uno sforzo titanico; la prima volta fu nella notte gelida in cui perdetti mio
padre: tornati dall’ospedale, mi guardò con occhi gonfi e, senza proferire
parola, cercò un mio abbraccio. Un gesto che mi lasciò sguarnito: lei che
chiedeva protezione e conforto a me.
«Sento
freddo» esclama, stringendosi nello scialle.
«Si
è fatto tardi» rispondo, guardando l’orologio senza cercarvi le lancette.
«Rientriamo in casa; ti lavo e ti metto a letto».
Mi
porge la mano, perché l’aiuti a rialzarsi dalla panca. Attraverso il braccio ne
percepisco lo sforzo impresso nei muscoli stanchi. Ondeggia nell’aria, cercando
un punto d’equilibrio. Lo sguardo è vacuo, mentre si libera di un peto
rumoroso, esibendo subito una risata sghignazzante, come un bimbo compiaciuto
dalla propria marachella.
I nostri sguardi
s’incrociano a una distanza ravvicinata. Si spegne il ghigno divertito, mentre
i grandi occhi smeraldo si velano di lacrime. L’intero moto celeste si ferma
per un istante: scorgo, attraverso i suoi occhi, il dolore generato dalla
consapevolezza del proprio stato. Guardandomi con dolcezza materna, mi sfiora
la guancia in una carezza sottile e calda: lo stesso tepore di quand’ero
fanciullo. Un nodo mi serra la gola, impedendomi di formulare parola.
«Il
mio Marco» sussurra, come se in quella soffitta polverosa che è ormai la sua
mente avesse ritrovato, in un cassetto abbandonato, il ricordo di me. Ricordo
che, fugace, le sfugge dal profondo dell’anima e, rapito dal vento, si dissolve
nell’aria come un cerchio di fumo.
di Pierangelo Colombo, edito nella raccolta: Prospettive (2017)
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