I pregiudizi
possono trasformarsi in marchi indelebili sulla nostra pelle, “Nulla può
cancellare quel marchio che, solo apparentemente invisibile, m’è stato impresso
a fuoco. Il marchio del tossico, del ladro, del galeotto. Una lettera scarlatta
che ridesta nella gente il pregiudizio, la cecità verso la marmellata sul dito
che accusa il bambino d’averne svuotato il vaso. Un marchio che mi rende
impotente e afono dinanzi a questi giudici; impossibilitato a difendermi perché
l’accusa è sottintesa, taciuta.”
Oggi voglio
dedicarvi questo mio racconto che scava nell’animo di chi, pur avendo pagato
per i propri errori, non trova pace nella società.
Buona lettura.
Il marchio
Scende rapida
l’acqua dal rubinetto, spazzando dalle mani la cremosa sensazione del sapone.
Sfrego, strizzo le dita nel vano tentativo di cancellare le tracce di grasso e
olio. Striature nere che disegnano ogni increspatura della pelle. Impronte
digitali sfigurate da mille tagli, abrasioni e graffi.
Zittiti dalla
sirena di fine turno, i macchinari riposano nell’officina, mentre a
testimoniare le lunghe ore di fatica restano, come cicatrici, sorde vibrazioni
che riverberano nelle mani generando un leggero tremore nelle dita. Alle mie
spalle, i colleghi depongono le proprie tute nei piccoli armadietti di metallo.
Le loro voci, rincorrendosi, rimbalzano sulle pareti carambolando nell’angusto
spogliatoio, colmandolo di pronostici sull’ennesima partita di campionato.
Pigio con il
gomito il pulsante, avviando così la ventola dall’asciugamani ad aria.
Risucchiato nel fracasso dell’apparecchio, osservo i compagni piombare in un
film muto. Scorgo le loro labbra plasmare parole che posso soltanto immaginare:
battute di scherno, sproloqui sulle donne e il governo, domande indiscrete su
uscite serali clandestine. Esperienze che riassaporo dopo il periodo di
reclusione. Lentamente, come in una rieducazione fisica, passo dopo passo sto
riappropriandomi di una vita privata.
Un brivido mi
pervade captando il trambusto che piomba nell’ambiente. Un brusco scompiglio
che coglie tutti di sorpresa, come una scossa di terremoto che spezza la
quotidianità. Un capannello di persone si accalca, circondando un collega
agitato. Un presentimento m’investe con la stessa disarmante sensazione di un
déjà vu. Un’ondata di gelo prodotta da sguardi che, indecifrabili, mi puntano
come un segugio punta la preda.
Il timer del
ventilatore, quasi percependo la situazione, azzittisce l’apparecchio
lasciandomi fluttuare nell’ultima eco di rumore. Sguardi sconcertati e
irrequieti m’inchiodano come un Cristo sulla croce. Occhi inquisitori e
irrequieti che dissimulano lo stupefatto appagamento nel vedere finalmente il
re nudo.
Approdando nel
silenzio, torno a cogliere le loro voci, ma come un clandestino che sbarca in
terra straniera comprendo solo poche parole. Alcune occhiate, meno temerarie,
sfuggono cercando delle stringhe da allacciare o bottoni da infilare,
sottraendosi agli ansiosi interrogativi lanciati dai miei occhi. A chiamarmi
sono delle imprecazioni. Con lo sguardo metto a fuoco un portafogli vuoto,
tenuto spalancato dalle mani nervose del collega.
«Cristo, sono
spariti! Trecento euro» esclama.
Parole che
deflagrano lasciandomi tramortito, mentre il lampo della detonazione illumina
l’abisso dove mi sento sprofondare. La situazione si palesa gelida e limpida;
c’è stato un furto e, con tacita unanimità, la giuria popolare ha emesso la
propria inappellabile sentenza: il colpevole sono io.
Avvampando ho
voglia di battere i pugni, di urlare la mia innocenza contro un’accusa omessa,
mentre il silenzio amplifica la rabbia del derubato che, in primis, è pronto a
scagliare la prima pietra. La voragine sotto di me si spalanca: la
consapevolezza che la lunga e sofferta lotta contro la cocaina non è stata che
“una” battaglia vinta e, probabilmente, nemmeno la più dura. Attorno a me c’è
ancora un campo minato da superare: una guerra aperta contro la diffidenza,
l’ipocrisia, l’indifferenza e, soprattutto, il pregiudizio della gente. Vincere
gli sguardi dei commercianti che ora guardano con sospetto la moneta parcamente
usata per acquistare il necessario per vivere, gli stessi che accettavano senza
scrupolo l’abbondante soldo frutto d’illeciti.
Granello di
sabbia nel deserto dell’adolescenza, mi sentivo inadeguato per la vita; poco
più che adulto mi lasciai plasmare dalla polvere, facendomi gigante nel mio
mondo. Un’alchimia che, trasfigurando la realtà nello specchio delle mie brame,
poteva tramutarmi da smidollato a vigoroso Ercole.
Elevandomi,
potevo schiacciare in un sol colpo, come fossero formiche, le fobie, le regole,
le imposizioni dettate da altri. Il mondo era ai miei piedi: nessun superiore
cui assoggettarmi; nemmeno Dio mi faceva più paura. Nulla contava più al mondo
se non il possedere quella che s’era fatta aria vitale, cibo, desiderio capace
di rendermi gigante fra i nani. Un colosso dai piedi d’argilla, però, la cui
grandezza fu logorata lentamente dalla realtà, che mi segregò nella prigionia
della dipendenza.
Scippi,
borseggi e spaccio per mantenere una metastasi travestita da elisir. Furti che
mi hanno trasformato in un delinquente recidivo. Quello che inizialmente era un
sogno si trasformò in una reclusione, dove l’isolamento era la quotidianità.
Naufrago in
balia delle onde, fui ripescato da una comunità di recupero: una cura dolorosa,
come fu la malattia; una reclusione infernale che solamente il tempo e la
sofferenza hanno saputo trasformare in famiglia, nido dove poter schiudere il
guscio dell’Io.
Come Ulisse
sull’isola di Calipso, fui combattuto fra la voglia di restare in quella zona
franca e il desiderio di rimettermi in gioco.
Nulla può
cancellare quel marchio che, solo apparentemente invisibile, m’è stato impresso
a fuoco. Il marchio del tossico, del ladro, del galeotto. Una lettera scarlatta
che ridesta nella gente il pregiudizio, la cecità verso la marmellata sul dito
che accusa il bambino d’averne svuotato il vaso. Un marchio che mi rende
impotente e afono dinanzi a questi giudici; impossibilitato a difendermi perché
l’accusa è sottintesa, taciuta.
Agnello
esausto in mezzo a delle fiere troppo vili per divorarmi, non posso che
attendere inerme le loro zanne. Se soltanto uno di questi codardi avesse il
coraggio delle proprie convinzioni; se solo uno di loro s’ergesse tuonando il
verdetto, accusandomi apertamente d’essere un lupo che perde il pelo ma non il
vizio, troverei allora il coraggio di supplicare d’essere perquisito, di
frugare nelle mie tasche. Invece, le labbra tremano: non oso pronunciare delle
parole che m’investirebbero di una colpa che non m’appartiene. Ammettere
d’avere la coda di paglia.
Maledico
l’assenza di Azziz: il suo essere extracomunitario lo rende mio pari nella
classe sociale, costringendolo a condividere equamente i sospetti. Il colore
della sua pelle sarebbe bastata a farne, di fatto, un indiziato.
La rabbia va
smorzandosi; attonito, mi ridesto senza, però, che l’incubo abbia termine.
Respiro piano, evito ogni rumore sperando di farmi invisibile. Goffo nei
movimenti, mi avvicino all’armadietto aperto. La foto di Valentino Rossi,
appesa all’interno, sembra più logora che mai. Il pensiero elabora velocemente
possibili strategie d’uscita, ma come un pugile alle corde attendo rassegnato
il gong o il colpo del knock out che metta fine alla tortura. Potrei infilarmi
il giubbotto e andarmene, salutando, rischiando, in ogni caso, di alimentare i
dubbi su una fuga precipitosa. Oppure attendere, lasciare che lo spogliatoio si
svuoti uscendo per ultimo, ma i sospetti rimarrebbero. Rasento la paranoia; una
piccola scossa è bastata a far crollare, come un castello di carte, tutti gli
sforzi di riabilitazione. Il marchio è più grande di me; indelebile, mi
precede, aleggia nell’aria, insinuandosi nella mente delle persone che
preferiscono incolpare i più deboli, senza mettere in forse le proprie
convinzioni.
Un brivido mi
pervade, pensando alla lettera di dimissioni firmata senza data che, come una
spada di Damocle, pende sulla mia testa in un cassetto dell’ufficio personale.
Un dazio pagato per l’assunzione, una cauzione depositata senza scadenza per
tutelare il padrone, perché: “Alla prima che mi combini, te ne vai!”.
Tremo al
pensiero di perdere il lavoro, i novecento euro che scivolano via, goccia dopo
goccia. Una flebo vitale senza la quale mi troverei a dormire su di una
panchina.
Scivolano a
gruppi le voci oltre la porta, lasciando spazio all’eco degli ultimi passi. Mi
ridesto nella solitudine evidenziata dal ronzio di una lampada al neon.
Pesa quanto un macigno il marchio indelebile,
testimone di cosa sono stato, di ciò che ho pagato e di quello che ancora mi
spetta. Istrice senza aculei, devo affrontare scalzo l’ascesa irta e sassosa
che è la vita, mentre, silenziosa e infida, una paura gelida s’insinua nella
mia anima: l’angoscia di ricadere.
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