Per la Pasqua imminente vorrei dedicarvi questo mio
racconto breve, augurando a tutti voi una buona festa.
Gli occhi dell’agnello
Sulla spianata
aleggiava, sospeso nella bruma mattutina, un profondo silenzio. L’alba pareva
indugiare oltre le colline brulle che disegnavano l’orizzonte. Solo un leggero
chiarore stemperava il blu della notte, smorzando lo sfavillio delle stelle. La
luna, infiammandosi di un riverbero rosso brace, si celava tra le fronde di un
ulivo, mentre l’universo intero tratteneva il respiro.
Appollaiato
sul ramo di un ulivo secolare, un giovane passero attendeva il sorgere del
sole, con l’animo oppresso dalla mesta atmosfera che da giorni inquietava la
natura: nemmeno un belato giungeva dai pascoli degli armenti; gli uccelli,
silenti, non si alzavano in volo che per brevi tragitti. Le volpi s’erano
rifugiate nelle tane, mentre nessuna farfalla spiegava le proprie ali a
colorare l’aria.
L’uccellino
rabbrividì; nella testa mulinavano ancora le immagini, le emozioni, le paure
vissute nelle ultime ore.
Tutto ebbe
inizio quando, cedendo alla curiosità, s’era avvicinato alla grande città
chiamata santa; carovane di uomini, merci e animali, ne percorrevano le strade
varcandone le porte. Una folla chiassosa animava le vie, assieme al belato
degli agnelli che ne accompagnavano il passo.
Intrigato,
aveva planato sopra le teste della gente con brevi e vigorosi battiti d’ali,
sfiorandone quasi i pensieri. Poggiandosi ora su di una stuoia, ora sulle travi
di un portico, s’accostava alle persone.
Un uomo,
seduto sulla groppa di un asino, attirò la sua attenzione con gesti pacati, la
voce calda e gli occhi dolci quanto il miele.
Il passero capì
di potersi avvicinare senza alcun timore: da quell’uomo s’espandeva una forza
invisibile, la stessa energia del sole. In lui erano
racchiusi la potenza e il mistero del creato.
La folla iniziò
a declamare inni di gioia, agitando lunghe fronde di palma e stendendo dei
mantelli sul suo cammino; il giubilo fu così
grande da spaventare il passero facendolo fuggire.
Tale fu la
meraviglia per quell’incontro, che nei giorni successivi seguitò a cercare quel
volto; una ricerca vana ma caparbia, perseguita intrufolandosi nei davanzali
delle case più umili.
Una strana
inquietudine, però, si sviluppò con il trascorrere delle ore: un angoscia
montante come l’incessante belare degli agnelli che riecheggiava fra le vie
della città. Un verso cupo, irrequieto, simile al pianto di un bimbo strappato
dalle braccia della madre.
Il giovane
passero vagò ansioso e turbato da quell’atmosfera
lugubre, finché non s’avvicinò al grande tempio, dove la folla era più numerosa
e indaffarata, e quel belare si udiva più forte.
Volò oltre il
colonnato, varcando la soglia di quel luogo sino a ritrovasi dove gli agnelli, con lamenti strazianti, venivano
immolati sull’altare fra volute d’incenso e mirra.
Inorridì nel
veder spegnersi la fiamma della vita in quegli occhi limpidi come l’acqua. Tale
fu l’orrore, che fuggì lontano: solo il desiderio di scappar via senza
voltarsi, con il cuore in gola, mentre i belati parevano seguirlo, quasi
volessero afferrarne le ali a trattenerlo.
Vagò per
giorni oppresso, mentre lo straziante belare echeggiava nelle sue orecchie.
Un pomeriggio,
volò su di una collina brulla, dove sul culmine dell’arida sassaia, spiccavano
quelli che parevano tre alberi spogli e privi di vita. Esausto, si posò sul
legno grezzo di uno di questi, inorridendo nel vedervi crocifisso un uomo.
Il primo
impulso fu di fuggire lontano, ma qualcosa ne impedì i movimenti. Una corona di
spine ne cingeva il capo. Il volto irriconoscibile: tumefatto, coperto di
fango, sudore e sangue, mentre un faticoso rantolo ne suppliva il respiro.
I loro sguardi
s’incrociarono e il passero riconobbe, dietro la
maschera di dolore, colui che aveva tanto cercato.
Le tenebre calarono, smorzando la luce nei sui occhi, e la fiamma vitale si
affievolì.
Fissandone lo
sguardo limpido e innocente, il passero lo associò a quello di un agnello. Non
astio, rancore o ira, ma una disarmante pietà: lui, morente, provava una
profonda compassione per chi ne aveva causato le
pene.
Una folata di
fumo, alzatasi da un fuoco poco distante, investì il piccolo pennuto,
accentuandone il senso d’asfissia, mentre nella sua mente aumentava quell’assordante
belare dell’agnello sacrificale.
L’uomo chinò
il capo per non rialzarlo più.
Il silenzio
calò come un sudario sulla terra, azzittendo ogni creatura; nella testa del
passero cessò il belare lancinante. Terrorizzato, l’uccellino
volò via, rifugiandosi fra le fronde di un ulivo solitario, dove rimase
ammutolito e ansioso.
Attese tutta
la notte e poi il giorno dopo e la notte che ne seguì. Al sorgere del nuovo
giorno, il sole stava per scacciare il senso di oppressione, quando un soffio
tiepido accarezzò la terra. Un alito di vita che smosse appena le fronde dell’ulivo
e infuse nel piccolo passero una sensazione di benessere.
Il canto degli
uccelli esplose verso il cielo, innalzando un
osanna, mentre una luce pura, intensa ma non abbacinante, si diffuse in ogni
dove, un istante prima che il sole sorgesse.
Nel passero
rinacque l’energia vitale, assieme alla voglia d’unirsi all’inno alla gioia che
si propagava nell’aria come cerchi su di uno
specchio d’acqua.
Percepì una
presenza ai piedi dell’albero, un passo felpato. Incuriosito, volò sui rami più
bassi. L’uomo che aveva visto morire sulla croce, camminava
a piedi scalzi, dai suoi occhi era scomparsa ogni ombra di dolore, sostituita
da un amore smisurato, puro e fulgente.
Il passero,
però, non provò paura, ma una sensazione inspiegabile di gioia e meraviglia.
Senza riflettere, intonò una melodia armoniosa
in suo onore, salutandone, a suo modo, il ritorno.
Lusingato, l’uomo
si fermò ad ascoltarne il canto, ricambiando il
saluto con un sorriso più dolce del miglio impastato con del miele.
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