Così vicina da poterne sfiorare l’anima
Di mia madre
non serbo che briciole di percezioni; i ricordi si sono dissolti, assieme al
timbro della sua voce. Ero troppo piccola per imprimere nella memoria un
profumo o dei gesti quotidiani.
Nel fiore degli anni, è stata la fiamma pilota che ha acceso in me la vita; il tempo di svezzarmi, progettare il mio futuro e si è dovuta giocare a dadi il proprio, con un destino bastardo che si è preso tutto di lei. In tre mesi ha dovuto cedere il testimone alla sorella, lasciandole in eredità me e, distrutto, mio padre.
La mia, in fondo, è stata una vita comune, regolare nella sua mediocrità, se non fosse che l’assenza di mia madre ha pesato quanto un macigno.
Ho provato sentimenti contrastanti nei suoi confronti, passando da un amore assoluto a un odio profondo. Piangevo in silenzio, incolpandola d’avermi abbandonata. I pensieri dei bambini non sono logici come negli adulti, ma viscerali, imprevedibili quanto la fantasia; passano dal bianco al nero senza considerare i grigi: non comprendono la morte, perché ancora non sanno cosa sia la vita. Hanno soluzioni semplici a problemi complicati, basta usare la fantasia: sei malato? Usa la magia! Mamma, però, non ha chiesto nessun sortilegio per restare con me, quindi, lentamente, si è insinuato nella mia mente il dubbio dell’essere stata abbandonata, assieme all’insanabile pensiero di non essere amabile, di non meritare nulla dalla vita.
Detestavo le mie compagne quando parlavano continuamente delle proprie madri, e le invidiavo, rodendomi nel vederle ingaggiare duelli verbali da cui uscivano con dei lacrimoni, certo, ma anche con la consapevolezza che, dopo la buriana, sarebbero arrivate le carezze.
Avrei dato tutto per sostituirmi a loro. Ho desiderato quelle carezze in ogni istante, come si può bramare il calore nel gelo dell’inverno o l’acqua nel deserto.
Mi pesa il non avere ricordi di lei, anche se rammento interi pomeriggi a sfogliare vecchi album fotografici, nel tentativo di crearmi una sua immagine. A volte, mi mettevo dinanzi a uno specchio e, rimbalzando dal suo volto al mio, cercavo dei tratti che ci accomunassero. Aveva un bellissimo sorriso, di quelli che illuminano le notti più buie, con gli occhi che brillano come stelle da sopra le guance. Un sorriso che, nonostante gli sforzi, non sono mai riuscita a emulare.
Avevo un angioletto di porcellana posato sul comodino; a detta della zia, era un regalo di mia madre: avrebbe dovuto vegliare e proteggermi nel sonno. Crescendo, ho fantasticato molto su quella statuetta, sulle possibili consegne di lei, parole che non ho mai udito, ma che ho immaginato in una lirica struggente. Più guardavo quell’angelo, più vi riconoscevo i suoi lineamenti quando, in una foto in bianco e nero, se ne stava in posa per la prima comunione.
A quella statuetta confessavo desideri, paure e preghiere da recapitare in quella dimensione, per me incomprensibile, che i grandi chiamavano Paradiso.
Sopportavo a stento i loro discorsi sul fatto che lei mi fosse sempre vicino, proteggendomi; quello che volevo era una madre imperfetta, tirannica, asfissiante, non uno spirito guida invisibile. Chiedevo solo di poter correre da lei, confessandole bugie ormai insopportabili o invocando protezione. Desideravo essere coperta d’amore.
Di lei ho solo delle sensazioni; la più potente la saggiai una sera d’inverno. Avevo nove anni e andai con papà a far visita agli zii. Non ricordo molto della cena: rammento, però, che festeggiavano l’anniversario di matrimonio e, per celebrarne il ricordo, riesumarono una videocassetta della cerimonia.
Me ne stavo seduta sul sofà, stringendo il braccio del babbo nella speranza che si alzasse per andarsene, mettendo fine alla noia soporifera. Lui, al contrario, sembrava apprezzare quel tuffo nel passato, commentando e raccontando aneddoti. Il mio interesse s’era spento fin dalle prime inquadrature, quando mi dissero che mamma non c’era: la gravidanza, quasi al termine, l’aveva costretta a rinunziare alla funzione.
Arrendendomi, lasciai il babbo a godersi lo spettacolo, mentre io m’abbandonavo al sopore del sofà.
Fu proprio mio padre a svegliarmi. «Guarda, c’è mamma!» disse, facendomi sussultare.
Stranita dal dormiveglia, mi rizzai cercando nella stanza la sua figura, con il cuore in gola per la sorpresa e il terrore di vedere un fantasma.
«Guarda!» ripeté lui, indicando la tv. La delusione fu tale che mi lasciai cadere sul divano. Fissai lo schermo da dove, raggiante, lei sembrava guardarmi mentre salutava con la mano. Fui percorsa dai brividi; ancora intontita, non capivo che stesse salutando chi la riprendeva: sembrava fissare proprio me, con gli occhi lucidi d’emozione.
La cosa mi sconvolse; irrigidendomi, strinsi i pugni: avevo paura. A tranquillizzarmi fu un suo gesto: abbassò le mani, portandosele sulla pancia enorme. Esibendo un sorriso mistico, chinò il capo di lato, posando lo sguardo sul ventre. Mi colpì la grazia con cui carezzò l’involucro che mi conteneva. Un gesto che comprendeva tutti i vocaboli dell’amore: protezione, desiderio, rassicurazione, calore, sprone, abbraccio, orgoglio, sostegno. Ebbi la sensazione di percepire il calore che dalle sue mani arrivava a me, nascitura. Calore che, quella sera, mi avvolse d’emozione.
Ricordo bene la sensazione di benessere, lo stesso tepore che trovavo infilandomi nel letto di papà, quando fuori c’erano i lampi. Mi sentii cullata, investita da tutte le carezze desiderate; provai un senso inebriante di dolcezza, quanto una cioccolata calda in una notte siderale. Fu un’emozione così intensa che, chiudendo gli occhi, mi sollevai invocandone un abbraccio. Tendendole le braccia, mi lasciai andare in un pianto dirotto; avrei dato l’universo per un solo contatto.
Come un ricordo, serbo questa emozione nello scrigno dei tesori più cari; mai come quella sera ho sentito mia madre così vicina da poterne sfiorare l’anima. È stata la notte in cui, slegando il nodo che mi stringeva lo stomaco, ho lasciato defluire l’odio, riappacificandomi con il mondo, con lei e la mia anima.
Da allora, ho la percezione che dentro di me batta un doppio cuore.
Nel fiore degli anni, è stata la fiamma pilota che ha acceso in me la vita; il tempo di svezzarmi, progettare il mio futuro e si è dovuta giocare a dadi il proprio, con un destino bastardo che si è preso tutto di lei. In tre mesi ha dovuto cedere il testimone alla sorella, lasciandole in eredità me e, distrutto, mio padre.
La mia, in fondo, è stata una vita comune, regolare nella sua mediocrità, se non fosse che l’assenza di mia madre ha pesato quanto un macigno.
Ho provato sentimenti contrastanti nei suoi confronti, passando da un amore assoluto a un odio profondo. Piangevo in silenzio, incolpandola d’avermi abbandonata. I pensieri dei bambini non sono logici come negli adulti, ma viscerali, imprevedibili quanto la fantasia; passano dal bianco al nero senza considerare i grigi: non comprendono la morte, perché ancora non sanno cosa sia la vita. Hanno soluzioni semplici a problemi complicati, basta usare la fantasia: sei malato? Usa la magia! Mamma, però, non ha chiesto nessun sortilegio per restare con me, quindi, lentamente, si è insinuato nella mia mente il dubbio dell’essere stata abbandonata, assieme all’insanabile pensiero di non essere amabile, di non meritare nulla dalla vita.
Detestavo le mie compagne quando parlavano continuamente delle proprie madri, e le invidiavo, rodendomi nel vederle ingaggiare duelli verbali da cui uscivano con dei lacrimoni, certo, ma anche con la consapevolezza che, dopo la buriana, sarebbero arrivate le carezze.
Avrei dato tutto per sostituirmi a loro. Ho desiderato quelle carezze in ogni istante, come si può bramare il calore nel gelo dell’inverno o l’acqua nel deserto.
Mi pesa il non avere ricordi di lei, anche se rammento interi pomeriggi a sfogliare vecchi album fotografici, nel tentativo di crearmi una sua immagine. A volte, mi mettevo dinanzi a uno specchio e, rimbalzando dal suo volto al mio, cercavo dei tratti che ci accomunassero. Aveva un bellissimo sorriso, di quelli che illuminano le notti più buie, con gli occhi che brillano come stelle da sopra le guance. Un sorriso che, nonostante gli sforzi, non sono mai riuscita a emulare.
Avevo un angioletto di porcellana posato sul comodino; a detta della zia, era un regalo di mia madre: avrebbe dovuto vegliare e proteggermi nel sonno. Crescendo, ho fantasticato molto su quella statuetta, sulle possibili consegne di lei, parole che non ho mai udito, ma che ho immaginato in una lirica struggente. Più guardavo quell’angelo, più vi riconoscevo i suoi lineamenti quando, in una foto in bianco e nero, se ne stava in posa per la prima comunione.
A quella statuetta confessavo desideri, paure e preghiere da recapitare in quella dimensione, per me incomprensibile, che i grandi chiamavano Paradiso.
Sopportavo a stento i loro discorsi sul fatto che lei mi fosse sempre vicino, proteggendomi; quello che volevo era una madre imperfetta, tirannica, asfissiante, non uno spirito guida invisibile. Chiedevo solo di poter correre da lei, confessandole bugie ormai insopportabili o invocando protezione. Desideravo essere coperta d’amore.
Di lei ho solo delle sensazioni; la più potente la saggiai una sera d’inverno. Avevo nove anni e andai con papà a far visita agli zii. Non ricordo molto della cena: rammento, però, che festeggiavano l’anniversario di matrimonio e, per celebrarne il ricordo, riesumarono una videocassetta della cerimonia.
Me ne stavo seduta sul sofà, stringendo il braccio del babbo nella speranza che si alzasse per andarsene, mettendo fine alla noia soporifera. Lui, al contrario, sembrava apprezzare quel tuffo nel passato, commentando e raccontando aneddoti. Il mio interesse s’era spento fin dalle prime inquadrature, quando mi dissero che mamma non c’era: la gravidanza, quasi al termine, l’aveva costretta a rinunziare alla funzione.
Arrendendomi, lasciai il babbo a godersi lo spettacolo, mentre io m’abbandonavo al sopore del sofà.
Fu proprio mio padre a svegliarmi. «Guarda, c’è mamma!» disse, facendomi sussultare.
Stranita dal dormiveglia, mi rizzai cercando nella stanza la sua figura, con il cuore in gola per la sorpresa e il terrore di vedere un fantasma.
«Guarda!» ripeté lui, indicando la tv. La delusione fu tale che mi lasciai cadere sul divano. Fissai lo schermo da dove, raggiante, lei sembrava guardarmi mentre salutava con la mano. Fui percorsa dai brividi; ancora intontita, non capivo che stesse salutando chi la riprendeva: sembrava fissare proprio me, con gli occhi lucidi d’emozione.
La cosa mi sconvolse; irrigidendomi, strinsi i pugni: avevo paura. A tranquillizzarmi fu un suo gesto: abbassò le mani, portandosele sulla pancia enorme. Esibendo un sorriso mistico, chinò il capo di lato, posando lo sguardo sul ventre. Mi colpì la grazia con cui carezzò l’involucro che mi conteneva. Un gesto che comprendeva tutti i vocaboli dell’amore: protezione, desiderio, rassicurazione, calore, sprone, abbraccio, orgoglio, sostegno. Ebbi la sensazione di percepire il calore che dalle sue mani arrivava a me, nascitura. Calore che, quella sera, mi avvolse d’emozione.
Ricordo bene la sensazione di benessere, lo stesso tepore che trovavo infilandomi nel letto di papà, quando fuori c’erano i lampi. Mi sentii cullata, investita da tutte le carezze desiderate; provai un senso inebriante di dolcezza, quanto una cioccolata calda in una notte siderale. Fu un’emozione così intensa che, chiudendo gli occhi, mi sollevai invocandone un abbraccio. Tendendole le braccia, mi lasciai andare in un pianto dirotto; avrei dato l’universo per un solo contatto.
Come un ricordo, serbo questa emozione nello scrigno dei tesori più cari; mai come quella sera ho sentito mia madre così vicina da poterne sfiorare l’anima. È stata la notte in cui, slegando il nodo che mi stringeva lo stomaco, ho lasciato defluire l’odio, riappacificandomi con il mondo, con lei e la mia anima.
Da allora, ho la percezione che dentro di me batta un doppio cuore.
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