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mercoledì 16 maggio 2018

Incontro con l'autrice; Elisa Luvarà presenta Un albero al contrario


Elisa Luvarà, classe 1988, vive e lavora a Milano. A dodici anni è stata presa in affido da quella che tuttora considera la sua famiglia. Un albero al contrario, edito da Rizzoli, il suo primo romanzo, nato sulla piattaforma di crowdfunding Bookabook, e fin dal primo momento ha conquistato un gran numero di associazioni e genitori interessati al tema dell’affido familiare.


Un albero al contrario è un libro che insegna a sperare. L’autrice Elisa Luvarà, con la dolcezza che la contraddistingue, si è resa disponibile a regalarci un po’ del suo tempo per raccontarsi e raccontarci del suo libro.

Desidero innanzitutto complimentarmi con lei per la scrittura delicata, scorrevole e commovente.

Possiamo darci del tu?
-Certamente, aiuta a sciogliere il ghiaccio.

-Inizio con il chiederti cosa significa per te scrivere?
-Siccome la mia più recente esperienza di scrittura si è concentrata sulla rivisitazione delle mie memorie di infanzia, posso dire che per me la scrittura è strettamente collegata alla ricerca e alla rivelazione del vero. Però non è stato sempre così. Quando ero bambina ho vissuto in una comunità per minori con diversi altri ragazzini avidi di cure e attenzioni, e in quel periodo la scrittura rispondeva ad una necessità di evasione, proiettandomi dentro un mondo immaginario zeppo di meraviglie di cui poter godere – finalmente – in beata solitudine.


-Un albero al contrario è il tuo primo romanzo. Se non erro, prima di essere edito da Rizzoli, è nato sulla piattaforma di crowdfunding Bookabook; ma l’idea di scrivere un romanzo autobiografico da dove ha inizio?
-È stata mia madre affidataria a suggerirmi di provare a scrivere la mia storia. Probabilmente aveva intuito che nonostante avessi più di vent’anni, non avevo ancora fatto i conti con il la mio passato e pensava che fosse giunto il momento di diventare più consapevole. Dopodiché è venuto tutto naturale, come se per decenni la mia storia avesse spinto per venire fuori e finalmente avesse trovato una via d’uscita. Per la prima volta mi sono concessa il tempo per pensare, per ricordare di quando avevo quattro anni e sono stata allontanata da casa, per interrogarmi sulle tracce che il breve periodo in istituito, gli incontri alla Spazio Neutro con i miei genitori naturali, il fallimento di una prima esperienza di affido e poi la comunità avevano lasciato dentro di me. Ricordo la mia meraviglia nel costatare che avevo così tanto da dire su qualcosa a cui per tutta la vita avevo pensato in modo vago ed intermittente. In qualche modo è stato come se, riscoprendo le vicende della mia infanzia, mi accorgessi per la prima volta che mi riguardavano, che ero stata io a vivere tutte quelle cose.

-Perché il titolo: Un albero al contrario?
-Un Albero al Contrario è una metafora per spiegare come si sente Ginevra, la protagonista del romanzo: una ragazzina allontanata per gravi ragioni dai suoi genitori naturali e che non può contare su di loro per crescere. Le radici di Ginevra non rappresentano le fondamenta, ma sono orientate verso l’alto come braccia tese, e si nutrono di ciò che gli uccellini e il vento vi depositano sopra. “Senza questo genere di attenzioni il mio albero non potrebbe sopravvivere” riflette Gin, nel romanzo. “È sotto terra, però, che si trova la parte più bella. Sotto terra c’è il centro nascosto dell’albero, il cuore nodoso e tormentato di cui nessuno sospetta”.
Le radici di Gin attingono le risorse necessarie per vivere dal mondo esterno, ma il suo cuore resta fortemente collegato alla sua storia: da lì sgorga la consapevolezza delle sue origini che costituisce l’essenza della sua persona e permette all’albero di germogliare.

 -Il racconto inizia quando Ginevra varca la soglia della comunità, con lei le sue poche cose e molte paure; nella realtà cosa rappresenta la comunità per una bambina di quell’età?
-Nel romanzo scrivo che la prima sensazione che Ginevra sperimenta varcando la soglia della comunità è “di puro, immenso sollievo”. Questo perché Gin proviene da un esperienza di affidamento familiare che è stata un fiasco, e sente la comunità come un porto sicuro dove ritemprarsi: spogliarsi delle vesti di figlia, che le erano costate molto, e provare ad essere semplicemente se stessa. Dentro la comunità non occorre dare spiegazioni a nessuno sul perché della propria permanenza lì e non si vive la competizione con gli altri piccoli ospiti della casa perché tutti si trovano sulla stessa barca. Questa equità permette ai ragazzini di stabilire relazioni del tutto spontanee e all’interno della casa non è raro assistere a straordinarie dimostrazioni di solidarietà. Per me la comunità ha rappresentato un riparo all’interno di una sfera protetta dove non poteva penetrare niente che non fosse prima filtrato dagli operatori adulti. Tuttavia è impossibile pensare alla comunità come luogo dove poter crescere, perché alla lunga l’assenza di una relazione privilegiata, di un affetto esclusivo e scontato, comincerà a farsi sentire attraverso numerose insufficienze, come il tempo che un educatore può dedicare a ciascun ragazzo per conoscerlo profondamente e insegnargli qualcosa. Quando sono uscita dalla comunità avevo delle lacune immense su praticamente ogni argomento e, anche da un punto di vista estetico, non ero per nulla valorizzata. Mio padre affidatario mi ha ricordato da poco che, il giorno del nostro primo incontro, ero vestita come un operaio di fonderia. In conclusione credo che la comunità debba essere pensata come ponte verso una nuova meta da raggiungere, non come un arrivo. Tra le sue mura può custodire temporaneamente il fragile equilibrio di un ragazzo che ha sofferto, ma è auspicabile che ad un certo punto si faccia da parte, a favore dell’inserimento del minore all’interno di una famiglia in grado di occuparsi della sua crescita in modo permanente.

 -Chi è Ginevra, per Elisa Luvarà?
 -Ginevra è per me una sorella gemella, anch’essa figlia dei miei genitori e della mia storia, ma differente per consapevolezza e maturità. Alla sua età io ero certamente più leggera. E’ stata questa mia attitudine alla spensieratezza che, dopotutto, mi ha permesso di “volare” sopra la mia storia, e attraversarla indenne. Ginevra sa cose che io non sapevo o su cui comunque non volevo soffermarmi: lei conosce a fondo la miseria dei suoi genitori e per loro non prova rabbia, ma compassione.
Io ho dovuto travestire i miei genitori da personaggi di un romanzo per riuscire a vederli chiaramente, per scoprire dentro di me la tenerezza e la comprensione che non credevo di nutrire per loro. Ginevra mi ha preso per mano e guidato mentre ridiscendevo gradino per gradino dentro la mia infanzia: è stata lei la voce narrante che, tra le altre cose, ha ridato corpo ai miei genitori, salvandoli – e salvandomi!- dall’oblio in cui rischiavano di cadere.

 -Nella comunità Ginevra conosce un variegato gruppo di ragazzini, ce li vuoi presentare?
 -Ce ne sono molti, ma le presenze più significative per Ginevra sono certamente il bellissimo Agape e Verde, chiamata così per il colore dei suoi capelli. Il primo coinvolge Ginevra in un legame di amicizia autentica: le fa dono del primo abbraccio dopo molto tempo e lei, che rifugge il contatto fisico, accoglie questa novità con gratitudine e malinconia. Insieme Gin e Agape cercheranno di immaginare un futuro migliore per quando saranno adulti: entrambi hanno genitori malati psichiatrici e questo destino così simile li unisce, li rafforza, li sottrae ad un mondo solitario e distorto che non avrebbero mai pensato di poter condividere con qualcuno. Soprattutto, potendo contare su una tale somiglianza, possono godere l’un l’altra di un’accettazione totale, e sentirsi in un certo senso, accompagnati da un doppione adorabile di cui prendersi cura. Con Verde non c’è un legame simbiotico come quello tra Gin e Agape, ma si tratta piuttosto di un rapporto cameratesco. Verde è una veterana della comunità,concreta e schietta, che veste da maschiaccio e libera la nuova arrivata da gonne e merletti, avvertendola che la comunità non è un posto per principesse. Ginevra sulle prime guarda Verde con ammirazione e timore novizio,e si lascia trasformare docilmente in
randagia. Con l’aiuto di Verde, Gin si libererà dagli odiati vestitini che le venivano imposti dalla madre affidataria, e questo atto di ribellione costituirà il primo elemento di rottura con la vita passata.

 -Parlando della tua esperienza, dei legami nati fra compagni di ‘sventura’ cosa è rimasto?
 -Durante il periodo in comunità ci sono state parecchi ragazzi con cui ho stretto legami significativi, ma una volta cresciuta non ho mantenuto i rapporti, con nessuno di loro. La comunità e i suoi componenti sono depositari di un periodo positivo ma estremamente faticoso, per questo preferisco tenerli tutti dentro di me, in forma di ricordo, per ritornarci ogni tanto con la mente e rivivere i momenti più belli.

  -Ginevra trova nella signora Tilde un figura rassicurante; qual è l’importanza di trovare un adulto capace d’infondere sicurezza?
-La Signora Tilde del romanzo somiglia molto all'educatrice che mi ha accolto in casa, al mio arrivo in comunità, ed è stata certamente la prima figura materna incontrata nel mio percorso. Lei trasmetteva fiducia a noi bambini perché ci lasciava schiudere con calma, e non sembrava volerci "curare" ad ogni costo. Nel romanzo ad un certo punto la Signora Tilde loda Ginevra per lo sguardo che assume quando è persa nei suoi pensieri: “i tuoi occhi diventano più intensi, da castani prendono il colore delle olive, e sembrano rincorrere un cavallo al galoppo, o la scia di un aereo, o un punto lontano da te. Sei come me: hai una mente sempre in gran fermento!”. Ginevra si emoziona molto per il complimento, in particolare le fa piacere sapere di essere percepita non come una bambina difficile e problematica, ma addirittura simile all’educatrice che stima molto. Può essere un fardello avere come modello di riferimento dei genitori sofferenti e trascurati, perché viene naturale pensare di portare addosso le stesse bruttezze. Per questo nella storia la Signora Tilde è così scrupolosa nel mostrare ai suoi bambini i loro punti di forza, e così faceva anche l’educatrice a cui mi sono ispirata. Mi dava la boule dell’acqua calda per curare i miei mal di pancia notturni, ma soprattutto per spiegarmi cosa fosse un rito domestico.

  -Nel libro ci mostri gli adulti attraverso gli occhi di una bambina, personaggi anche controversi, eppure non spingi mai verso un giudizio solo positivo o solo negativo; quanto la tua vicenda ha influito sulla visione del mondo?
  -Alcune persone oggi mi chiedono se non fosse stato meglio crescere lontana da questi genitori così “mostruosi”, incapaci di amare se non in una maniera distorta e malsana. Questi genitori non sono molto diversi dai protagonisti delle cronache nere che infestano i telegiornali e che ci fanno incupire. Io non ho potuto lasciarli indietro e ad un certo punto sono stata chiamata – dalla coscienza, o da quel richiamo del sangue che per anni ho rinnegato – a scoprire qualcosa di più sul loro conto e a quel punto ho trovato, non due adulti malati, ma due bambini maltrattati che non sono mai stati salvati. Non so come sarebbe stata la mia vita, o il mio carattere, se mi fosse stato risparmiato di assistere alla loro decadenza. Una cosa però è certa: non avrei avuto lo stesso sguardo che ho oggi, un sguardo che ha origine da ragioni profonde e che è per me la chiave per accettare le fragilità altrui, come anche le mie, senza condannarle.

  -Nella telefonata che intercorre fra Ginevra e la madre naturale, s’intuisce tutto il disagio della piccola che deve vestire i panni dell’adulto che rassicura una bambina, un vero scambio di ruoli.
-È vero, Ginevra sperimenta già da bambina quel disorientamento vissuto da alcuni adulti che ad un certo punto della vita si trovano a dover fare da balia ai genitori anziani che hanno perso l’autosufficienza, e che devono mettere da parte i loro ruolo di figli per assumere quello del genitore del proprio genitore. Ad ogni contatto con la mamma, Ginevra sperimenta la rassegnazione di non poter contare sulla madre – e che con lei anche la sua occasione per essere una figlia è perduta per sempre! - ma anche la frustrazione di essere costretta a conversare con un’interlocutrice agitata, distante, incapace di prestarle attenzione e affetta dalle più incomprensibili manie, senza che un adulto intervenga per ricondurla ad una dimensione più adatta alla sua età. Sente inoltre di essere defraudata dalla sua infanzia, ma per fortuna, una volta terminata la telefonata, può trascorrere del tempo con Verde, fedele amica e compagna di stanza, per recuperare un po’ di buon umore.

  -Di forte impatto è la narrazione dell’incontro fra il padre naturale e Ginevra, dove si palesa tutta l’inadeguatezza dell’uomo verso il ruolo del padre, eppure dalle sue parole, seppur dure, traspare un sentimento, ce ne parli?
  -Adele, il padre di Ginevra, è un ex bambino traumatizzato da genitori maltrattanti al punto da affibbiagli un nome da donna. Ginevra comprende lo sfregio quotidiano che suo padre è costretto a sopportare, e che non dipende soltanto dal nome. Adele è un bambino divenuto uomo e poi padre in una sequenza troppo rapida che non ha tenuto conto di quanto fosse inerme e sprovveduto. Ha sposato una ragazzina molto più giovane di lui e poi insieme hanno fatto inavvertitamente dei figli. È stato tutto un prolungato momento di incoscienza, e quando le cose sono peggiorate lui si è messo ad aspettare che venisse presto qualcuno a mettere a posto il disastro.
Adele nutre una nostalgia impossibile per il figlio che non è mai stato e spera che a Ginevra venga data questa occasione. Per questo, quando la incontra, sembra rifiutarla: vuole che lei possa crescere al sicuro, lontano da lui.

  -Qual è la ‘coperta di Linus’ per Ginevra? E la tua?
  -Per Ginevra la coperta di Linus è certamente il berretto di Verde, che ad un certo punto della storia calza sulla testa per sentirsi meno indifesa. Per quanto mi riguarda, quando mi sento un po’ giù di tono ricorro alla boule dell’acqua calda. Il rumore dell’acqua e l’odore della plastica riscaldata hanno un potere davvero calmante sui miei nervi, e poi mi riconduce ad alcuni momenti piacevoli della mia infanzia. Ma quando arriva la bella stagione devo rinunciare a questa ancora di conforto se non voglio essere spedita a dormire sul divano dal mio maritino caloroso.

-Qual è stata la prima emozione che hai provato quando hai stretto fra le mani la prima copia del tuo libro?
-Incredulità, fierezza, gratitudine, commozione, paura: balzavo da un emozione all’altra, come sui cavalli di una giostra!

-C’è un messaggio che vorresti lanciare ai nostri lettori?
  -Ho attribuito a Gin una precoce saggezza nel guardare i suoi genitori, che io alla sua età non avevo. Di questo sguardo non giudicante è intriso il libro, che in qualche modo assolve tutte le colpe e le fragilità di cui sono colmi i suoi personaggi, in quanto esseri umani. Con questo sguardo desidero contagiare il lettore di Un albero al contrario.



Ringrazio nuovamente Elisa Luvarà per la gentile disponibilità e, vistone il talento, rivolgergli, oltre che i meritati complimenti, un augurio e certamente un arrivederci a presto.







di P. Colombo

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