Elisa Luvarà, classe 1988, vive e lavora a Milano. A dodici anni è stata presa in affido da quella che tuttora considera la sua famiglia. Un albero al contrario, edito da Rizzoli, il suo primo romanzo, nato sulla piattaforma di crowdfunding Bookabook, e fin dal primo momento ha conquistato un gran numero di associazioni e genitori interessati al tema dell’affido familiare.
Un
albero al contrario è un libro che insegna a sperare. L’autrice Elisa
Luvarà, con la dolcezza che la contraddistingue, si è resa disponibile a
regalarci un po’ del suo tempo per raccontarsi e raccontarci del suo libro.
Desidero
innanzitutto complimentarmi con lei per la scrittura delicata, scorrevole e
commovente.
Possiamo
darci del tu?
-Certamente,
aiuta a sciogliere il ghiaccio.
-Inizio con
il chiederti cosa significa per te scrivere?
-Siccome la
mia più recente esperienza di scrittura si è concentrata sulla rivisitazione
delle mie memorie di infanzia, posso dire che per me la scrittura è
strettamente collegata alla ricerca e alla rivelazione del vero. Però non è
stato sempre così. Quando ero bambina ho vissuto in una comunità per minori con
diversi altri ragazzini avidi di cure e attenzioni, e in quel periodo la
scrittura rispondeva ad una necessità di evasione, proiettandomi dentro un
mondo immaginario zeppo di meraviglie di cui poter godere – finalmente – in
beata solitudine.
-Un
albero al contrario è il tuo primo romanzo. Se non erro, prima di essere
edito da Rizzoli, è nato sulla piattaforma di crowdfunding Bookabook; ma l’idea
di scrivere un romanzo autobiografico da dove ha inizio?
-È stata mia
madre affidataria a suggerirmi di provare a scrivere la mia storia.
Probabilmente aveva intuito che nonostante avessi più di vent’anni, non avevo
ancora fatto i conti con il la mio passato e pensava che fosse giunto il
momento di diventare più consapevole. Dopodiché è venuto tutto naturale, come se
per decenni la mia storia avesse spinto per venire fuori e finalmente avesse
trovato una via d’uscita. Per la prima volta mi sono concessa il tempo per
pensare, per ricordare di quando avevo quattro anni e sono stata allontanata da
casa, per interrogarmi sulle tracce che il breve periodo in istituito, gli
incontri alla Spazio Neutro con i miei genitori naturali, il fallimento di una
prima esperienza di affido e poi la comunità avevano lasciato dentro di me.
Ricordo la mia meraviglia nel costatare che avevo così tanto da dire su
qualcosa a cui per tutta la vita avevo pensato in modo vago ed intermittente.
In qualche modo è stato come se, riscoprendo le vicende della mia infanzia, mi
accorgessi per la prima volta che mi riguardavano, che ero stata io a vivere
tutte quelle cose.
-Perché il
titolo: Un albero al contrario?
-Un Albero al
Contrario è una metafora per spiegare come si sente Ginevra, la protagonista
del romanzo: una ragazzina allontanata per gravi ragioni dai suoi genitori
naturali e che non può contare su di loro per crescere. Le radici di Ginevra
non rappresentano le fondamenta, ma sono orientate verso l’alto come braccia
tese, e si nutrono di ciò che gli uccellini e il vento vi depositano sopra.
“Senza questo genere di attenzioni il mio albero non potrebbe sopravvivere”
riflette Gin, nel romanzo. “È sotto terra, però, che si trova la parte più
bella. Sotto terra c’è il centro nascosto dell’albero, il cuore nodoso e
tormentato di cui nessuno sospetta”.
Le radici di
Gin attingono le risorse necessarie per vivere dal mondo esterno, ma il suo
cuore resta fortemente collegato alla sua storia: da lì sgorga la
consapevolezza delle sue origini che costituisce l’essenza della sua persona e
permette all’albero di germogliare.
-Il racconto inizia quando Ginevra varca la soglia
della comunità, con lei le sue poche cose e molte paure; nella realtà cosa
rappresenta la comunità per una bambina di quell’età?
-Nel romanzo
scrivo che la prima sensazione che Ginevra sperimenta varcando la soglia della
comunità è “di puro, immenso sollievo”. Questo perché Gin proviene da un
esperienza di affidamento familiare che è stata un fiasco, e sente la comunità
come un porto sicuro dove ritemprarsi: spogliarsi delle vesti di figlia, che le
erano costate molto, e provare ad essere semplicemente se stessa. Dentro la
comunità non occorre dare spiegazioni a nessuno sul perché della propria
permanenza lì e non si vive la competizione con gli altri piccoli ospiti della
casa perché tutti si trovano sulla stessa barca. Questa equità permette ai
ragazzini di stabilire relazioni del tutto spontanee e all’interno della casa
non è raro assistere a straordinarie dimostrazioni di solidarietà. Per me la
comunità ha rappresentato un riparo all’interno di una sfera protetta dove non
poteva penetrare niente che non fosse prima filtrato dagli operatori adulti.
Tuttavia è impossibile pensare alla comunità come luogo dove poter crescere,
perché alla lunga l’assenza di una relazione privilegiata, di un affetto
esclusivo e scontato, comincerà a farsi sentire attraverso numerose
insufficienze, come il tempo che un educatore può dedicare a ciascun ragazzo
per conoscerlo profondamente e insegnargli qualcosa. Quando sono uscita dalla
comunità avevo delle lacune immense su praticamente ogni argomento e, anche da
un punto di vista estetico, non ero per nulla valorizzata. Mio padre
affidatario mi ha ricordato da poco che, il giorno del nostro primo incontro,
ero vestita come un operaio di fonderia. In conclusione credo che la comunità
debba essere pensata come ponte verso una nuova meta da raggiungere, non come
un arrivo. Tra le sue mura può custodire temporaneamente il fragile equilibrio
di un ragazzo che ha sofferto, ma è auspicabile che ad un certo punto si faccia
da parte, a favore dell’inserimento del minore all’interno di una famiglia in
grado di occuparsi della sua crescita in modo permanente.
-Chi è Ginevra, per Elisa Luvarà?
-Ginevra è per
me una sorella gemella, anch’essa figlia dei miei genitori e della mia storia,
ma differente per consapevolezza e maturità. Alla sua età io ero certamente più
leggera. E’ stata questa mia attitudine alla spensieratezza che, dopotutto, mi
ha permesso di “volare” sopra la mia storia, e attraversarla indenne. Ginevra
sa cose che io non sapevo o su cui comunque non volevo soffermarmi: lei conosce
a fondo la miseria dei suoi genitori e per loro non prova rabbia, ma
compassione.
Io ho dovuto
travestire i miei genitori da personaggi di un romanzo per riuscire a vederli
chiaramente, per scoprire dentro di me la tenerezza e la comprensione che non
credevo di nutrire per loro. Ginevra mi ha preso per mano e guidato mentre
ridiscendevo gradino per gradino dentro la mia infanzia: è stata lei la voce
narrante che, tra le altre cose, ha ridato corpo ai miei genitori, salvandoli –
e salvandomi!- dall’oblio in cui rischiavano di cadere.
-Nella comunità Ginevra conosce un variegato gruppo
di ragazzini, ce li vuoi presentare?
-Ce ne sono
molti, ma le presenze più significative per Ginevra sono certamente il
bellissimo Agape e Verde, chiamata così per il colore dei suoi capelli. Il
primo coinvolge Ginevra in un legame di amicizia autentica: le fa dono del
primo abbraccio dopo molto tempo e lei, che rifugge il contatto fisico,
accoglie questa novità con gratitudine e malinconia. Insieme Gin e Agape
cercheranno di immaginare un futuro migliore per quando saranno adulti:
entrambi hanno genitori malati psichiatrici e questo destino così simile li
unisce, li rafforza, li sottrae ad un mondo solitario e distorto che non
avrebbero mai pensato di poter condividere con qualcuno. Soprattutto, potendo
contare su una tale somiglianza, possono godere l’un l’altra di un’accettazione
totale, e sentirsi in un certo senso, accompagnati da un doppione adorabile di
cui prendersi cura. Con Verde non c’è un legame simbiotico come quello tra Gin
e Agape, ma si tratta piuttosto di un rapporto cameratesco. Verde è una
veterana della comunità,concreta e schietta, che veste da maschiaccio e libera
la nuova arrivata da gonne e merletti, avvertendola che la comunità non è un
posto per principesse. Ginevra sulle prime guarda Verde con ammirazione e
timore novizio,e si lascia trasformare docilmente in
randagia. Con
l’aiuto di Verde, Gin si libererà dagli odiati vestitini che le venivano
imposti dalla madre affidataria, e questo atto di ribellione costituirà il
primo elemento di rottura con la vita passata.
-Parlando della tua esperienza, dei legami nati fra
compagni di ‘sventura’ cosa è rimasto?
-Durante il
periodo in comunità ci sono state parecchi ragazzi con cui ho stretto legami
significativi, ma una volta cresciuta non ho mantenuto i rapporti, con nessuno
di loro. La comunità e i suoi componenti sono depositari di un periodo positivo
ma estremamente faticoso, per questo preferisco tenerli tutti dentro di me, in forma
di ricordo, per ritornarci ogni tanto con la mente e rivivere i momenti più
belli.
-Ginevra trova nella signora Tilde un figura
rassicurante; qual è l’importanza di trovare un adulto capace d’infondere
sicurezza?
-La Signora
Tilde del romanzo somiglia molto all'educatrice che mi ha accolto in casa, al
mio arrivo in comunità, ed è stata certamente la prima figura materna
incontrata nel mio percorso. Lei trasmetteva fiducia a noi bambini perché ci
lasciava schiudere con calma, e non sembrava volerci "curare" ad ogni
costo. Nel romanzo ad un certo punto la Signora Tilde loda Ginevra per lo
sguardo che assume quando è persa nei suoi pensieri: “i tuoi occhi diventano
più intensi, da castani prendono il colore delle olive, e sembrano rincorrere
un cavallo al galoppo, o la scia di un aereo, o un punto lontano da te. Sei
come me: hai una mente sempre in gran fermento!”. Ginevra si emoziona molto per
il complimento, in particolare le fa piacere sapere di essere percepita non
come una bambina difficile e problematica, ma addirittura simile all’educatrice
che stima molto. Può essere un fardello avere come modello di riferimento dei
genitori sofferenti e trascurati, perché viene naturale pensare di portare
addosso le stesse bruttezze. Per questo nella storia la Signora Tilde è così
scrupolosa nel mostrare ai suoi bambini i loro punti di forza, e così faceva
anche l’educatrice a cui mi sono ispirata. Mi dava la boule dell’acqua calda
per curare i miei mal di pancia notturni, ma soprattutto per spiegarmi cosa
fosse un rito domestico.
-Nel libro ci mostri gli adulti attraverso gli occhi
di una bambina, personaggi anche controversi, eppure non spingi mai verso un
giudizio solo positivo o solo negativo; quanto la tua vicenda ha influito sulla
visione del mondo?
-Alcune
persone oggi mi chiedono se non fosse stato meglio crescere lontana da questi
genitori così “mostruosi”, incapaci di amare se non in una maniera distorta e
malsana. Questi genitori non sono molto diversi dai protagonisti delle cronache
nere che infestano i telegiornali e che ci fanno incupire. Io non ho potuto
lasciarli indietro e ad un certo punto sono stata chiamata – dalla coscienza, o
da quel richiamo del sangue che per anni ho rinnegato – a scoprire qualcosa di
più sul loro conto e a quel punto ho trovato, non due adulti malati, ma due
bambini maltrattati che non sono mai stati salvati. Non so come sarebbe stata
la mia vita, o il mio carattere, se mi fosse stato risparmiato di assistere
alla loro decadenza. Una cosa però è certa: non avrei avuto lo stesso sguardo
che ho oggi, un sguardo che ha origine da ragioni profonde e che è per me la
chiave per accettare le fragilità altrui, come anche le mie, senza condannarle.
-Nella telefonata che intercorre fra Ginevra e la
madre naturale, s’intuisce tutto il disagio della piccola che deve vestire i
panni dell’adulto che rassicura una bambina, un vero scambio di ruoli.
-È vero,
Ginevra sperimenta già da bambina quel disorientamento vissuto da alcuni adulti
che ad un certo punto della vita si trovano a dover fare da balia ai genitori
anziani che hanno perso l’autosufficienza, e che devono mettere da parte i loro
ruolo di figli per assumere quello del genitore del proprio genitore. Ad ogni
contatto con la mamma, Ginevra sperimenta la rassegnazione di non poter contare
sulla madre – e che con lei anche la sua occasione per essere una figlia è
perduta per sempre! - ma anche la frustrazione di essere costretta a conversare
con un’interlocutrice agitata, distante, incapace di prestarle attenzione e
affetta dalle più incomprensibili manie, senza che un adulto intervenga per
ricondurla ad una dimensione più adatta alla sua età. Sente inoltre di essere
defraudata dalla sua infanzia, ma per fortuna, una volta terminata la
telefonata, può trascorrere del tempo con Verde, fedele amica e compagna di
stanza, per recuperare un po’ di buon umore.
-Di forte impatto è la narrazione dell’incontro fra
il padre naturale e Ginevra, dove si palesa tutta l’inadeguatezza dell’uomo
verso il ruolo del padre, eppure dalle sue parole, seppur dure, traspare un
sentimento, ce ne parli?
-Adele, il
padre di Ginevra, è un ex bambino traumatizzato da genitori maltrattanti al
punto da affibbiagli un nome da donna. Ginevra comprende lo sfregio quotidiano
che suo padre è costretto a sopportare, e che non dipende soltanto dal nome.
Adele è un bambino divenuto uomo e poi padre in una sequenza troppo rapida che
non ha tenuto conto di quanto fosse inerme e sprovveduto. Ha sposato una
ragazzina molto più giovane di lui e poi insieme hanno fatto inavvertitamente
dei figli. È stato tutto un prolungato momento di incoscienza, e quando le cose
sono peggiorate lui si è messo ad aspettare che venisse presto qualcuno a
mettere a posto il disastro.
Adele nutre
una nostalgia impossibile per il figlio che non è mai stato e spera che a
Ginevra venga data questa occasione. Per questo, quando la incontra, sembra
rifiutarla: vuole che lei possa crescere al sicuro, lontano da lui.
-Qual è la ‘coperta di Linus’ per Ginevra? E la tua?
-Per Ginevra
la coperta di Linus è certamente il berretto di Verde, che ad un certo punto
della storia calza sulla testa per sentirsi meno indifesa. Per quanto mi
riguarda, quando mi sento un po’ giù di tono ricorro alla boule dell’acqua
calda. Il rumore dell’acqua e l’odore della plastica riscaldata hanno un potere
davvero calmante sui miei nervi, e poi mi riconduce ad alcuni momenti piacevoli
della mia infanzia. Ma quando arriva la bella stagione devo rinunciare a questa
ancora di conforto se non voglio essere spedita a dormire sul divano dal mio
maritino caloroso.
-Qual è
stata la prima emozione che hai provato quando hai stretto fra le mani la prima
copia del tuo libro?
-Incredulità,
fierezza, gratitudine, commozione, paura: balzavo da un emozione all’altra,
come sui cavalli di una giostra!
-C’è un
messaggio che vorresti lanciare ai nostri lettori?
-Ho attribuito a Gin una precoce saggezza nel guardare i suoi genitori,
che io alla sua età non avevo. Di questo sguardo non giudicante è intriso il
libro, che in qualche modo assolve tutte le colpe e le fragilità di cui sono
colmi i suoi personaggi, in quanto esseri umani. Con questo sguardo desidero
contagiare il lettore di Un albero al contrario.
Ringrazio
nuovamente Elisa Luvarà per la gentile disponibilità e, vistone il talento,
rivolgergli, oltre che i meritati complimenti, un augurio e certamente un arrivederci
a presto.
di P. Colombo
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