L’intervista
di oggi si collega alla rubrica La Grande Guerra, infatti, la poetessa Aurora
Cantini ha accettato un incontro incentrato proprio sulla memoria. Autrice
della struggente lirica Come una fiamma accesa, oltre al memoriale dallo
stesso titolo, pubblicato in occasione del Centenario dell’inizio del conflitto
italo austriaco, la poetessa si è resa
disponibile a rispondere ad alcune domande riguardanti la sua esperienza.
Cantini
Aurora, poetessa e narratrice di storie create sul selciato o ascoltando i
suoni del bosco già da bambina, Aurora Cantini vive a cavallo tra la Valle
Seriana e la Valle Brembana, Orobie Bergamasche.
Scrive da
quando avevo 9 anni, e prima ancora inventava i versi davanti alla finestra,
guardando la neve cadere e immaginando farfalle che danzavano.
La prima
poesia è apparsa sulla rivista nazionale “Primavera” quando aveva appena 14
anni.
Ha al suo
attivo la pubblicazione di 4 sillogi di poesie: Fiori di campo, Edizioni
Il Grappolo Salerno 1993 (rieditato nel 2011), Nel migrar dei giorni
Edizioni La Conca Roma 2000, Uno scrigno è l’amore editato Circolo
Culturale Identità Pontedera 2007, Oltre la curva del tramonto
Lietocolle 2014. Nel 2009 ecco il primo libro di narrativa Lassù dove si
toccava il cielo Edizioni Villadiseriane Bergamo, sulla vita contadina del
passato in Valle Seriana, presentato a Roma dalla giornalista di Rai1 Alma
Grandin allo Spazio Bergamo dell’Arciconfraternita dei Bergamaschi. Nel 2012 è
uscito il romanzo Come briciole sparse sul mondo per Aletti Editore
sulla tragedia delle Torri Gemelle vista da chi era nella Torre Nord. Sempre
nel 2014 il libretto Un campo di stelle il mio riposo in memoria del
mistico Questuante Cappuccino Fra Pacifico da Amora, frazione di Aviatico
Bergamo (1883 – 1937) Edizioni Villadiseriane. Nel 2015 in occasione del
Centenario della Prima Guerra Mondiale, per le Edizioni Villadiseriane è uscito
il memoriale Come una fiamma accesa in memoria dei fratelli Carrara di
Amora di Aviatico, Bergamo, e del loro sacrificio nella Grande Guerra (3 alpini
-un Sergente- e 1 fante, prozii dell’autrice). Nel 2016 per Silele Edizioni
esce il romanzo Il bambino con la valigia rossa, la storia del piccolo
Pietro raccolto dai gendarmi nei primi giorni di gennaio del '44 dopo che la
madre l'aveva lasciato solo, e consegnato al Brefotrofio di Bergamo.
Nel 2018, in
occasione del 25° anniversario dalla prima pubblicazione, è uscito il secondo
romanzo per Silele Edizioni “Una tra i Mille, Anita” dedicato agli
ultimi giorni di Anita Garibaldi in un intreccio con i Garibaldini bergamaschi
e le donne che un tempo lavoravano in filanda.
Nel 2000 ha avuto il conferimento del titolo onorifico
di “Cavaliere per la poesia” e la qualifica di “Poeta insigne” a Roma, “per i
meriti faticosamente acquisiti e imperniati sulla crescita culturale del nostro
Paese senza l’aiuto dei mass-media” redatto dall’Associazione Culturale
“Lago Verde” Roma
Numerosi primi
posti a concorsi letterari, tre medaglie d’oro (2 in poesia e 1 in prosa),
inserita in antologie di poeti contemporanei, molti interventi nelle scuole sul
tema della poesia, con conferenze sulla Prima guerra mondiale e sulle Torri
Gemelle. Fa parte dei comitati di giuria di vari concorsi letterari. Collabora
da esterna con vari siti web di letteratura e del territorio. La si può seguire
sul blog: http://acantini.altervista.org/
-Innanzitutto la ringrazio per la disponibilità dimostrata.
Possiamo darci del tu?
-Certamente!
-Come
accennavo sei l’autrice della splendida Come una fiamma accesa, come è
nata questa poesia?
-Questa poesia è nata quando, con sorpresa e dopo tante
ricerche, ho ritrovato il medaglione doppio che la mia prozia Lugarda Carrara
portava al collo da sempre: raffigura i suoi due fratellini più piccoli, morti
a venti anni esatti nella Grande Guerra, Vittorio Emanuele Enrico e Fermo
Antonio. In particolare è stato Fermo Antonio che mi ha colpito come una
freccia quando ho tenuto in mano quel medaglione dopo cinquant’anni. È stato
dichiarato disperso il 2 agosto 1916 sul Rombon durante una discesa in parete.
Sono rimasta talmente frastornata dai suoi occhi che sembravano chiedermi di
non dimenticarlo che, giunta a casa, ho scritto di getto i versi della poesia.
Sembrava che lui guidasse la mia mano.
Carrara Fermo Antonio in una foto prima della chiamata al fronte, medalgione conservato fino alla morte dalla sorella maggiore Lugarda |
-Oltre che una lirica, Come una fiamma accesa, è
anche un memoriale, pubblicato nel 2015, dedicato a dei tuoi prozii caduti
durante il conflitto del 15-18, ce ne vuoi parlare?
-La storia è
lunga e tragica. Maddalena e Angelo Carrara di Amora Bassa, Aviatico Bergamo,
ebbe 12 figli, di cui 5 figli mandati al fronte sui 6 maschi di casa. Dei 5
ragazzi in guerra tre morirono
direttamente in battaglia (uno per ogni anno di guerra), Fermo Antonio, Alpino,
del Battaglione ValCamonica precipitò dal Rombon la notte tra l’1 e il 2 agosto
1916 durante una missione esplorativa e non fu mai più ritrovato. Aveva
vent’anni. Enrico
Vittorio Emanuele, Fante, esplose per granata durante la presa del Monte Santo
il 14 maggio 1917 e non ci furono resti. Aveva vent’anni.
Giovanni Agostino, Alpino, morì sulla Cima Presena la sera del 23 giugno 1918 colpito alla nuca da un cecchino mentre andava a prendere l’acqua. Fu frettolosamente sepolto a Ponte di Legno in tomba provvisoria durante una pausa degli scontri e poi messo nel 1936 nel Sacrario del Tonale tra gli Ignoti, essendo scomparsa l'identificazione della tomba. Aveva 32 anni e una giovane moglie.
Il quarto, Sergente Alpino Elia Celestino, morì a casa tra atroci dolori fisici e mentali dopo aver trascorso 41 mesi al fronte, prima sul Rombon (dove dovette assistere alle inutili ricerche del fratellino Fermo mandato in una missione esplorativa e dove venne ferito ad un ginocchio durante una battaglia) e poi sull'Adamello, dove gli morì tra le braccia il fratello Giovanni nel giugno del '18. La giovane moglie, che aveva sposato a sedici anni quando era Carabiniere Reale a Vercelli, impazzì di dolore e venne internata in manicomio a Vercelli per tutta la vita.
Il quinto fratello, Bernardino, uno dei Ragazzi del '99, venne mandato al fronte nonostante ci fossero già 4 fratelli, di cui 2 già caduti, e venne posto in congedo solo il 7 aprile 1920,
quando era già morto anche il papà Angelo di crepacuore nell'ottobre del 1919.
Fu l'unico che riuscì a morire di vecchiaia nel 1986. Tutto rimase sulle spalle della loro mamma Maddalena. Dei fratelli nessuna tomba, nessun corpo, di loro più nulla è rimasto, né le lettere, né tutte le loro medaglie compresa quella alla mamma per la gratitudine della nazione, né i loro cappelli, né i loro oggetti, né le loro divise. Nessun funerale. Solo lo straziante ricordo che sempre le sorelle, tra cui mia nonna Angelina, hanno portato avanti.
Giovanni Agostino, Alpino, morì sulla Cima Presena la sera del 23 giugno 1918 colpito alla nuca da un cecchino mentre andava a prendere l’acqua. Fu frettolosamente sepolto a Ponte di Legno in tomba provvisoria durante una pausa degli scontri e poi messo nel 1936 nel Sacrario del Tonale tra gli Ignoti, essendo scomparsa l'identificazione della tomba. Aveva 32 anni e una giovane moglie.
Il quarto, Sergente Alpino Elia Celestino, morì a casa tra atroci dolori fisici e mentali dopo aver trascorso 41 mesi al fronte, prima sul Rombon (dove dovette assistere alle inutili ricerche del fratellino Fermo mandato in una missione esplorativa e dove venne ferito ad un ginocchio durante una battaglia) e poi sull'Adamello, dove gli morì tra le braccia il fratello Giovanni nel giugno del '18. La giovane moglie, che aveva sposato a sedici anni quando era Carabiniere Reale a Vercelli, impazzì di dolore e venne internata in manicomio a Vercelli per tutta la vita.
Il quinto fratello, Bernardino, uno dei Ragazzi del '99, venne mandato al fronte nonostante ci fossero già 4 fratelli, di cui 2 già caduti, e venne posto in congedo solo il 7 aprile 1920,
quando era già morto anche il papà Angelo di crepacuore nell'ottobre del 1919.
Fu l'unico che riuscì a morire di vecchiaia nel 1986. Tutto rimase sulle spalle della loro mamma Maddalena. Dei fratelli nessuna tomba, nessun corpo, di loro più nulla è rimasto, né le lettere, né tutte le loro medaglie compresa quella alla mamma per la gratitudine della nazione, né i loro cappelli, né i loro oggetti, né le loro divise. Nessun funerale. Solo lo straziante ricordo che sempre le sorelle, tra cui mia nonna Angelina, hanno portato avanti.
-La memoria storica è essenziale per la società, in
quanto potenziale antidoto contro il ripresentarsi di nazionalismi estremisti e
xenofobia. Secondo te, alla luce degli ultimi avvenimenti, in cosa si è mancato
nel tenere viva questa memoria?
-Ho visto sulla mia pelle cosa vuol dire davvero
“dimenticare”, lasciare che nessuno parli più di quei ragazzi di cento anni fa.
Sono convinta che siano venuti meno la pazienza e il rispetto, nella fretta di
lasciarsi dietro il vecchio, l’inutile, cercando il presente a tutti i costi,
perché “bisogna stare al passo con i tempi” e le cose passate non servono più.
È successo anche con gli oggetti contadini, verso gli Anni Settanta,
nell’avanzare dell’industrializzazione, si sono svuotati i solai e le cantine,
buttando via tutto quello che non serviva più, superato, antico, per non
ricordare, per dimenticare, per annullare la vita passata.
-La poesia possiede ancora la forza di smuovere le
coscienze?
-La poesia HA il compito di smuovere le
coscienze, ma diventa sempre più difficile, è come invischiata dal fango. La
voce della poesia è una voce gentile, leggera, e ormai in tutto questo
frastuono che rimbomba, dove tutti gridano e si scannano, nessuno ci fa più
caso, non avverte nemmeno più la sua voce. E la coscienza è uccisa. Eppure non
dobbiamo rinunciare a portare la poesia in mezzo alla gente, nelle strade,
dobbiamo continuare a farlo, a tentare, a insistere. Soprattutto lavorando sui
ragazzi, facendo loro amare la poesia e la cultura, gettando semi che qualcuno
raccoglierà, affinché qualcosa rimanga.
-La prima guerra mondiale ha formato, e segnato,
molti autori che in seguito hanno messo in prosa o poesia la propria
esperienza; c’è un autore particolare o un libro che più ti ha colpito?
-Io scrivo poesie da quando avevo 10 anni, ma il merito è
anche di un uomo, Giuseppe Ungaretti, che mi ha plasmato. Non è una coincidenza
se le prime poesie che ho adorato sono Fratelli o Veglia o San Martino sul
Carso o anche Soldati. Impazzivo di pianto nel leggerle, e poi scrivevo anch’io
pensieri di emozione rivolti a quei ragazzi caduti nel silenzio delle alture
straniere…
-Se ricordo bene, ti prego di correggermi, una
sezione di Alpini ha portato una copia della tua poesia sul luogo dove è caduto
uno dei tuoi prozii. Hai voglia di raccontarci esattamente la cerimonia e cosa
ha rappresentato per te?
-Massimo
Peloia è un socio alpino della Sezione ANA di Saronno. Si è sempre interessato
alle vicende terribili e drammatiche della Prima Guerra Mondiale,
dedicando attenzione particolare ai dimenticati eroi del Battaglione alpino
ValCamonica, 5° Reggimento alpino.
Combatterono sul Cukla (1776 metri) e il Rombon, che
raggiunge i 2.208 metri di altezza, accanto al Romboncino, a quota 2105.
Massimo Peloia e un folto gruppo di alpini e rappresentanti ha voluto salire
fin lassù, al confine con la Slovenia, per rendere omaggio alle migliaia di
ragazzi lanciati nell’impeto delle battaglie, strappati alle loro case, alla
loro vita di gioventù, molti di essi mai più tornati a casa. Era uno dei fronti
di guerra “forse la più ingrata del nostro schieramento alpino” come disse il
Generale Cadorna. Il Cukla e Rombon rimasero quasi sempre in mano agli
Austriaci e più volte vennero invano attaccati dagli Italiani. Solo il Cukla
divenne italiano, anche se solo per pochi mesi, tra il 1915 e il 1916. Ma in
generale ci furono incessanti e sanguinosi tentativi che portarono solo esiti
drammatici, con innumerevoli Caduti. L’epilogo fu dato la sera del 24 ottobre
1917, dopo la disfatta di Caporetto, quando le truppe italiane abbandonarono
per sempre il Cukla – Rombon.
Lassù rimasero soltanto le anime dei tantissimi ragazzi
morti in combattimento. Tra essi il giovane alpino bergamasco Fermo Antonio Carrara, terzultimo di cinque
fratelli mandati in guerra. (mio prozio). Quella notte tra l’1 e il 2 agosto
1916, aveva 20 anni e pochi mesi. Gli venne comandato di uscire con altri
cinque compagni per cercare una via di accesso al Rombon, una missione
esplorativa richiesta dal Comando Militare. Dovevano scendere dal Romboncino
lungo una parete impervia per approdare alla Valle Mozenca e da lì conoscere
appostamenti e difese nemiche. Non si saprà mai cosa successe in quella notte
d’estate, nel silenzio della cordata. Fermo Antonio precipitò in uno degli
Abissi del Rombon, e là rimase. Lo cercarono invano per giorni, ma non fu mai
più ritrovato. Massimo Peloia, dopo cento anni, è salito fin sul baratro di
quell’Abisso che divenne sepolcro del giovane soldatino. Una volta raggiunta la
cima ha depositato un dono, accanto al cippo che ricorda i tanti ragazzi
immolati per la libertà.
È la poesia dedicata a Fermo Antonio, “Come una fiamma accesa”. I versi letti ad alta
voce sono stati trasportati dall’eco lungo il vento del ricordo, della memoria,
dello struggente doloroso silenzio mentre suonava il silenzio. La poesia è
stata infine lasciata nella cassetta di metallo in cima al Rombon, che contiene
il libro di vetta dove gli escursionisti lasciano la loro firma, così da
ricordare il giovane Carrara e tutti gli altri soldati Caduti.
-Diversamente al secondo conflitto, in cui il ruolo delle
donne, specie nella lotta di resistenza, è stato ben rappresentato, nella
Grande Guerra lo stesso ruolo sembra defilato, poco approfondito, eppure gran
parte delle donne si trovarono a sostituire gli uomini in molte attività che fino ad allora erano state
prerogativa esclusivamente maschile; qual è la tua opinione a riguardo?
-La mia bisnonna Maddalena ha perso quattro figli e il
marito, ma non ha mai pianto. Diceva mia nonna che continuava a pregare, al
lavatoio, sul sentiero, vicino alle cappellette, la sera prima di
addormentarsi. Pregava e parlava con i suoi figli morti. Senza marito dovette
rimboccarsi le maniche, mostrarsi forte, decisa, salda. Aveva altri 8 figli da
seguire. La mia prozia Margherita Pierina impazzì di dolore giovanissima e
venne ricoverata in manicomio, dove vide lo stato devastante delle migliaia di
soldati resi folli dalla guerra. Rimase in manicomio per quarant’anni, e
l’unico momento di lucidità era dato quando chiamava il suo alpino,
“l’alpinazz” in dialetto piemontese, suo marito, il grande alpino Sergente
Elia. L’altra prozia, Gioachina, dovette andarsene dalla casa del marito morto,
Giovanni, non c’era più posto per lei, era una bocca in più da sfamare. Dovette
cercarsi un nuovo marito. Molte ragazze delle montagne diventarono manodopera
silenziosa per continuare a occuparsi della campagna e delle mucche.
Altre scendevano a Bergamo come volontarie nell’ospedale
territoriale della CRI. Là giunsero molti dei ragazzi di Selvino e Aviatico che
ben conoscevano e che morirono tra le loro braccia. Per non dimenticare le
portatrici carniche, io penso sempre che avranno aiutato anche solo uno dei
miei 5 prozii, li avranno consolati, li avranno ascoltati e ci avranno parlato,
i miei prozii in dialetto bergamasco, e loro in dialetto friulano. La mia
bisnonna ricevette solo una medaglia “per la gratitudine della Nazione”. La
forza di quelle giovani donne silenziose ha permesso di portare avanti la vita.
Sono loro le “vere” eroine di quegli anni, altrimenti una intera generazione si
sarebbe cancellata dal tutto. All’istante.
-La
Nostra generazione è forse l’ultima ad avere ascoltato dalla voce dei nonni i
loro racconti sulla vita al fronte. Un testamento consegnatoci come monito, una
responsabilità a cui non possiamo sottrarci. Ti è mai capitato di tramandare
questi ricordi ai giovani? Quali reazioni ha ricevuto?
-Vado nelle classi terze delle scuole
secondare a portare “Oltre la polvere del silenzio”, due ore di immagini e
racconti in cui do vita alle emozioni di quei ragazzi di cento anni fa. Dico
subito agli studenti di immaginare i loro fratelli o cugini più grandi, nati
negli anni Novanta, solo proiettati indietro di cento anni. Questo li
sconvolge. Il fatto che si parli di
un periodo così lontano nel tempo e nello spazio vissuto, ci spinge a
dimenticare che quei ragazzi, immortalati per sempre in fotografie sgranate e
ingiallite, erano ventenni come lo possono essere quelli di oggi, RAGAZZI,
leggeri e fragili come vetro, pieni di sogni, di ardori, ma anche impulsivi e
spericolati, come sono TUTTI I RAGAZZI a quell’età, di ogni epoca, di
ogni strada, di ogni colore.
Vederli impettiti in divise di due taglie più grandi, con
la brillantina sui capelli e la scriminatura a lato, seri e posati, già così
adulti nella postura accanto alla poltrona o davanti alla caserma, dai nomi di
battesimo ormai in disuso, ce li rende più anziani di quello che non fossero
realmente, e tendiamo a non ricordare i loro pochi anni di respiro su questa
terra. Vedo gli occhi degli studenti riempirsi di lacrime, il respiro che quasi
si blocca. Due ore filate in cui nessuno si muove, inchiodati alla sedia mentre
li porto lassù, su quelle cime a tremila metri dove neanche le aquile
vivrebbero. Ma dove centinaia di migliaia di ragazzi poco più grandi di loro
ancora dormono nel ghiaccio.
-Quest’anno ricorre il centenario della
fine di quell’assurdo massacro; ci sono dei progetti cui stai lavorando o a cui
vorresti partecipare?
-Il mio sogno è vedere realizzati i
cartelli che indichino ai turisti “Amora Bassa, borgo natale dei fratelli
Carrara combattenti e caduti nella Grande Guerra”, che la visita alla loro casa
diventi una tappa per i villeggianti. Il 17 febbraio dello scorso anno sono
andata a ritirare le cinque medaglie ai fratelli Carrara a Gonars, una
cerimonia solo per loro, un pullman di parenti e amici, in testa il nostro
Sindaco. L’emozione più grande è stata data dal fatto che eccezionalmente il
direttivo del Coordinamento Albo d’Oro ha ritenuto meritevole di medaglia
commemorativa anche il quinto fratello, perché “sacrificò la sua giovinezza e innocenza
per amore della Patria, pur avendo già perso tre fratelli in battaglia”. Siamo stati accolti e scortati dalla polizia al
nostro arrivo e ci hanno riservato una accoglienza da star. Ora spero che la
sezione di Bergamo parli di loro. Li inserisca nei suoi progetti, porti avanti l’idea di una via in città
anche per loro.
Bernardino Carrara con la fascia alutto e le 3 stelle dei fratelli morti al fronte |
-Ci regaleresti il piacere di poter ascoltare la tua
poesia?
-Certamente.
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