A volte capita,
in giorni impensati, di conoscere persone straordinarie o fuori dal comune.
Personaggi capaci di catalizzare l’attenzione, di creare empatia. Incontri che
rimangono nella memoria come impronte nella roccia.
Italo
Il mio è un
lavoro itinerante: poche certezze scarrozzate in infinite camere d’albergo.
Impiego ben poco gratificante, ma che, tuttavia, mi concede di conoscere un
ragguardevole numero di persone.
Con il tempo, ho raccolto un campionario
d’esperienze che mi permette di cogliere la personalità di un individuo a colpo
d’occhio. Persone gradevoli, estroverse, loquaci, generose, oppure scontrose,
burbere, severe, meschine; tratti comuni, in proporzioni variabili, in ognuno
di noi.
Ciò nonostante, vi sono individui che
attraversano la nostra vita come fossero una folata di vento, senza lasciare
traccia; altre lasciano nella memoria un ricordo temporaneo, come può esserlo
un profumo o un’impronta sulla spiaggia. Un ricordo che rimane finché l’onda
del tempo, inesorabile, non vi scivoli sopra cancellandone ogni orma.
Infine, vi sono
degli incontri singolari: gente comune, anonima, capace tuttavia di calcificare
la propria impronta, rendendola indelebile. Uno di questi è stato per me Italo.
Classe 1930; alto, segaligno, mani grandi e robuste da pescatore. Sguardo
astuto, occhi grigi esaltati dalla carnagione bruna.
Sono trascorsi diversi anni da
quell’incontro casuale, quasi importuno, eppure serbo di lui un ricordo ancora
nitido: gesti flemmatici, voce serena, quasi bisbigliata.
Era un
mercoledì pomeriggio; un giorno neutro, insipido, come può esserlo l’acqua
tiepida: infatti, non è classificabile né all’inizio né alla fine della
settimana; è sempre in mezzo, come una suocera.
Mi trovavo in
Liguria per lavoro, e approfittando di ciò che di buono concede il mio
mestiere, alloggiavo in un albergo in riva al mare. Quel giorno, avendo
terminato l’incarico con largo anticipo, optai per una capatina in spiaggia:
era sul finire di maggio e il sole, prodigo, elargiva un benefico assaggio dell’imminente
estate. Disteso sulla sabbia, osservavo pigramente le nuvole che, moleste, si
radunavano in un gregge capace di oscurare il sole, mentre rombi sordi di
temporale rimbrottavano nelle valli dell’entroterra. Sconsolato, avevo raccolto
il telo per rientrare in albergo. Mi avviai sul lungomare trascinando le gambe,
imbronciato come un bambino cui hanno appena negato un gioco. Le palme
ondeggiavano scompigliate dal vento, mentre il sole, beffandosi delle nuvole,
infilzava la coltre grigia con un raggio, illuminando un borgo di pescatori
abbarbicato sulla costa. Le case, dai colori pastello, emergevano dal blu
cobalto per stagliarsi nel verde smeraldo delle colline. Uno spettacolo che mi
affascinò, invitandomi a sedere su una panchina poco distante.
«Scusi, posso?»
La voce mi
richiamò al presente. Mi guardai attorno, scorgendo delle panchine deserte poco
lontane. I piedi a papera chiusi in un paio di sandali ‘francescani’, le spalle
curve ad abbozzare un inchino ossequioso, i capelli canuti, mentre le labbra,
come un sipario aperto, ostentavano un sorriso da pubblicità.
«Che
spettacolo!» esclamò, indicando con un cenno della testa il mare che andava a
ingrossarsi. Lo invitai ad accomodarsi, bollandolo come scocciatore e
pianificando già come trarmi d’impaccio. Mi voltai allora verso le montagne,
anticipando il possibile motivo di una ritirata preventiva.
«Non si preoccupi» disse con un marcato
accento ligure, e accennò a un vento dal nome dialettale: «… vedrà che tiene lontano il temporale, per oggi non pioverà!»
Rotto il ghiaccio, si presentò, senza
trascurare data di nascita e generalità. «Vivo in una casa di riposo, ma non
pensi mica ad uno di quegli ospizi che si vedono alla televisione, neh! No,
questo è un albergo. Esco da solo, quando voglio. Il vitto è decente e ci danno
persino il vino, quello buono!» ride. «Camere doppie, mica ammassati come negli
ospedali. Belandi, con quello che mi costa! Non pensi mica che sono ricco,
però. Prenderei una pensione da fame, se fosse per lo stato… Ho venduto casa
per vivere di rendita.»
Lo ascoltai in bilico fra interesse e
apatia.
«Sono scapolo per scelta! Mica perché ero
brutto» puntualizzò. «Le occasioni non mi sono mancate di certo: se avessi
avuto tanti soldi quante donne, adesso vivrei da nababbo.»
Raccontò di alcuni incontri che dovevano
aver lasciato più di bei ricordi; anche se camuffava bene i sentimenti, dalla
voce traspariva qualche cicatrice. Flemmatico mostrò un anello che portava
all’anulare destro.
«Vede questo? Quando al mondo è solo, non
è altro che un gioiello, un ricordo, un vezzo; ma se ne esiste un gemello, e si
trova sulla mano di una donna, allora diventa parte di una coppia. E sa cosa
fanno due anelli uniti? L’inizio di una catena. E con le catene ci si lega la
gente!»
Una metafora
secca che mi lasciò stupefatto.
«Avevo un fratello a Cuneo, adesso non
c’è più: infarto. Mi aveva invitato a stare da lui. Un’estate ci ho provato; ci
son stato tre giorni, poi sono scappato via tornando al mio borghetto. Troppe
montagne, là! Come si fa a
guardare dalla finestra senza vedere l’orizzonte? Soffocavo, anche il cielo si
era ristretto. Ho imparato a nuotare prima ancora di camminare. Mio padre era
pescatore, a otto anni mi portava per mare con lui. Mi piaceva. Lei ha mai
provato a tirare su le reti? Il mattino, quando il sole è a pelo d’acqua e il
sale brucia le ferite, mentre i pesci sguisciano come saette?» non attese una
mia risposta. «È una cosa che ti riempie i polmoni e il cuore! Poi, la guerra
ha portato via mio padre: disperso nel mar Egeo. I debiti erano tanti: abbiamo
dovuto vendere la barca. Mio fratello ha continuato gli studi, mentre io mi son
messo a lavorare per sbarcare il lunario: imbianchino, muratore, camallo a
Genova. Quando capitava, m’imbarcavo sulle navi mercantili. Stavo via per mesi,
sa?»
«Avrà girato mezzo mondo, allora» dissi
affascinato.
«Sì. Una donna in ogni porto.» Rise;
raccontò alcuni aneddoti sulla vita da marinaio. «Ma come casa, mi creda, non
c’è né!» concluse perentorio.
«Ho venduto
anche la focaccia per i bagnanti, sa? Allora non era come adesso, che i
vacanzieri arrivano, fanno una settimana e poi via. Nel dopoguerra, al mare, ci
venivano solo le famiglie borghesi di Milano e del Piemonte. Ci restavano per
tutta la stagione: li conoscevo tutti, mi chiamavano per nome; loro mi hanno
insegnato a parlare bene l’italiano.» Sorrise, beffardo. «Conoscevo anche le
balie e le giovani cameriere al loro servizio.» Diede di gomito, alludendo a
una fama di lupo di mare. «Con il boom economico ha iniziato ad arrivare anche
la massa. Sono sparite le balie, ma sono arrivate le mamme sole. Quelle cui il
‘dottore’ dava l’ordine di portare il bambino a respirare lo iodio, lasciando
il marito a casa!» Se la rideva come un bimbo davanti alla vetrina dei dolci.
«Deve aver conosciuto molta gente» dissi,
cogliendo una certa affinità.
«Anche famosa!» confermò. «Con uno ci ero
diventato anche amico. Era uno scrittore americano, dal cognome difficile, che
imbroglia la lingua. Io lo chiamavo solo Ernesto, e basta. Il barba amava le
donne e il buon vino. Come potevamo non andare d’accordo?»
«Ernesto?» chiesi, frugando nella memoria
senza trovarvi un viso da associarvi.
«Sì, quello famoso; ha scritto una storia
su un pescatore in mezzo al mare.»
«Ma chi? Hemingway?» domandai.
«Sì» rispose,
quasi stupito della mia meraviglia: come se avesse appena detto la cosa più
naturale al mondo. «A quei tempi giravo per la riviera con la mia Guzzi: un
Airone 250 Sport; bazzicavo i locali, sa com’è! Ad Alassio, un amico comune ci
ha presentati e, come capita a volte, ci siamo trovati subito in simpatia.
Amavamo il vino e le donne, ma chi ama il buon vino non può che essere sincero,
virtù non sempre apprezzata dalle donne.»
«Non riesco a immaginarmi con Hemingway:
non saprei cosa dire.»
«Andavamo a
mangiare al Basin, a Rapallo. Mica faceva il sofisticato sa? Gli piaceva
scherzare, anche se a volte si faceva malinconico. Non aveva paura di niente:
aveva fatto la guerra. Eppure, una cosa lo spaventava: la vecchiaia. Ne aveva
viste tante, ma non riusciva a vedersi vecchio. Diceva che morire era la cosa
più semplice al mondo, era facile; diceva: “È meglio morire nel periodo felice
della giovinezza non ancora delusa, andarsene in un bagliore di luce, che avere
il corpo sciupato e vecchio e le illusioni perdute”.»
Fissò un punto imprecisato nel mezzo del
mare. Non disse nulla per qualche istante, ebbi quasi l’impressione che stesse
trattenendo un magone. Come se le parole appena pronunciate avessero crepato
qualcosa, in lui, spalancando una finestra su un mondo oscuro.
«Non mi ha sorpreso quando, nel ’61, ho
saputo del suicidio. Non voleva ridursi così.» Sollevò le braccia, mettendosi
in mostra. La malinconia calò improvvisa, indicando le rughe profonde che ne
solcavano il volto cotto dal sole. Sentii la strana sensazione che può provare
un bimbo nel vedere un clown svestire i propri panni, mostrandosi vulnerabile e
fragile.
«Quelle catene
che non ho indossato con una donna, me le ha messe la vecchiaia, rinchiudendomi
in un ospizio. La vecchiaia è una prigione: a piede libero, ma pur sempre una
prigione. Non siam buoni più a nulla; ormeggiati come una barca fallata, ci
lasciamo marcire lentamente fino a tirare l’ultimo fiato. Neanche una moglie
con cui litigare. Qualcuno con cui vantarsi di cose che il tempo ha esagerato
fino a farle diventare incredibili. Bestemmiare contro il tempo, le donne o il
governo. Nessuno che telefona, anche una volta l’anno, per fare gli auguri di
compleanno. Io non lo festeggio più, il mio. A volte, capita che l’infermiera
se ne accorge dalla mia cartella clinica, allora mi fa gli auguri.
«La solitudine è un cane che ti segue
ovunque, sempre pronto ad azzannare. Non ti perde mai di vista, e quando ti
sembra di averlo seminato, magari in attimi come questi», mi guardò con
gratitudine, «ti volti e lui è là, dietro l’angolo, che ti aspetta con un
sorriso bastardo. Lentamente, vedi i tuoi amici andare al campo santo, e ai
funerali c’è sempre meno gente, meno fiori. Al mio ci sarà solo il prete.»
Rise, ma di un riso amaro. «Lei è solo?»
«Sono sposato, ho una figlia di sette
anni…»
«Li tenga da
conto» m’interruppe, come a ribadire qualcosa di fondamentale importanza.
«Invecchiare è una punizione che il buon Dio ci manda per i nostri peccati, ma
invecchiare soli è una vera carognata. A volte, il tempo sembra non passare:
sembra che anche le lancette, invecchiando, ci mettano un’eternità a fare il
giro. Nella mia vita ho visto tante cose tristi: guerra, fame, macerie,
lacrime, miseria. Mi creda, niente in confronto a un Natale nel salone di un
ospizio. Ho una gran voglia di dar fuoco a quel maledetto albero di plastica
con le palle più vecchie di me.»
Si zitti, fissando il mare. Ebbi
l’impressione che stesse trattenendo a stento le lacrime.
«Non mi danno che due bicchieri di vino
al giorno: uno a pranzo e uno a cena, e per di più è annacquato. Posso uscire
due ore al dì, quando la pressione e la glicemia sono a posto, però.
Altrimenti, devo restare con gli altri ‘ospiti’. Pomeriggi con delle
chiacchierate interessanti quanto un ghiacciolo al polo nord. L’unico amico che
mi è rimasto è il mare. Lui mi ascolta, mi consola con le onde e quando sono
giù di morale, mi dà la forza mostrandosi in burrasca.» Estrasse dal taschino
una monoporzione di fette biscottate, porgendomele. «Prenda pure. Al ricovero
ne danno a valanga, così abbiamo qualche cosa da fare durante la giornata.»
«Grazie.» Fu l’unica cosa che riuscii a
dire.
«Di nulla; sono
troppo dure per le mie gengive.» Alzandosi, scrutò il cielo. «Adesso devo
andare» disse mestamente, parandomisi dinanzi in attesa di qualcosa.
Fraintendendo, mi alzai, porgendogli la mano. I suoi occhi, però, mi
ricordavano lo sguardo di un bambino che, deluso, spera sino all’ultimo secondo
nel regalo anelato.
«Sa, io le ho offerto quei biscotti… non è che mi potrebbe offrire un bicchiere di vino?»
La voce supplichevole e imbarazzata. Un uomo indifeso, costretto a elemosinare
un bicchiere di vino in grado di alleggerirne l’animo.
Portai le mani al portafogli, che però
avevo lasciato in camera. Imbarazzato, estrassi dalla tasca gli spicci che
serbavo per il parchimetro. Porsi quello che lui accettò come un tesoro e,
dandomi la mano in una stretta vigorosa, si congedò. Si avviò verso il centro
del borgo. Lo soguii con lo sguardo, sino a che rimase nel mio campo visivo.
M’incamminai
verso l’albergo e il pensiero corse a mio padre, a quel viso rugoso e alla
solitudine, che non avendo mai provato non credevo così devastante. Ripensai
alle telefonate scarne e ‘dovute’, parole sterili e lontane dal piacere. Ai
suoi ultimi Natali, vuoti e freddi mentre io ero in montagna o in qualche isola
tropicale. Ai sui compleanni, rammentati da un asettico appunto in agenda.
Mentre
camminavo, il rimorso mi strizzò lo stomaco; un senso di perdita mai provato
prima.
Intanto,
lentamente, iniziò a piovere.
di Pierangelo Colombo edito nella raccolta: Dodici semi di senape 2014
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