Il 20 Maggio del 2012 alle ore 04:03:52, un violento terremoto ha colpito il cuore dell'Emilia. L'epicentro nel territorio comunale di Finale Emilia (MO), ipocentro a una profondità di 6,3 km e una magnitudo sulla scala Richter di 6.0. Un terremoto violento che interessò 60 comuni provocando 7 morti, 50 feriti, 5000 sfollati e ingenti danni al patrimonio culturale a causa dei molti crolli di palazzi storici, aziende agricole e fabbriche.
L'anno sucessivo mi è capitato di recarmi proprio nel comune di Finale Emilia, per un concorso letterario. Le ferite nella città erano ancora aperte: nella rocca, in alcuni palazzi puntellati e poi le tende allestite per i servizi, la torre di cui rimaneva un solo moncone. Nell'aria si respirava ancora lo smarrimento, ma anche tanta voglia di ricostruire. Occasione che mi ha regalato l'opportunità di conoscere alcuni abitanti, che mi hanno raccontato le proprie esperienze, le paure, lo scoramento e la speranza.
A loro e a tutti coloro che si sono trovati in queste situazioni critiche, dedico questo racconto.
Polvere e fuliggine
Imprevedibilità. Teoria del caos. Retaggio di un liceo scientifico che non ho saputo sfruttare come volano per il futuro. Nozione che, sedimentata nella memoria, è stata surclassata dalla convinzione d’aver scoperto la chiave segreta del mondo.
Il professore di fisica sosteneva che per la comprensione occorre la sperimentazione. Iurare in verba magistri.
Prima del 20 maggio, per me l’imprevedibilità era una foratura, la frattura del perone a calcetto, la legnata nello scoprire che la donna con cui progettavo il domani mi tradiva. Scossoni che mettono a dura prova; eventi dal sapore catastrofico, ma per quanto duri potessero esserne i colpi, incassavo mantenendo l’equilibrio. Il 20 maggio, invece, la variante imprevedibile è piombata sulla mia vita: colpendo sotto la cintura, mi ha mozzato il fiato mettendomi a tappeto.
A onor del vero, avvisaglie ce n’erano state: scosse di lieve entità. “Non è zona sismica” dicevano, ignari dell’effetto farfalla che, in profondità, accumulava l’onda d’urto destinata a strapazzarci.
Era una giornata calda; l’afa appiccicava il pigiama alla pelle, mentre le gocce della flebo contavano i secondi. L’operazione era andata per il meglio: l’ernia inguinale era stata risolta. Il pensiero, attraversando la finestra, correva per la pianura, progettando la convalescenza: io, la canna da pesca e la placidità del Panaro. Non fosse stato per il fastidio dei punti, l’avrei archiviato come un sabato qualunque.
È difficile prender sonno in ospedale, soprattutto quando passa l’efficacia dell’antidolorifico. La notte scorre lenta, fra un risveglio e l’altro: la schiena indolenzita, l’ago nel braccio e un sonno leggero, a fior di palpebre. Una veglia alleggerita dal prospetto delle dimissioni del giorno dopo. Le ore, poi, si fanno piccole, le palpebre pesanti, i sensi ovattati ed è l’ennesimo sopore.
Quattro infermieri mi svegliano: uno per angolo del letto, lo agitano sempre più forte. Aperti gli occhi, gli infermieri svaniscono, come il sogno, ma il letto si muove veramente. Svegliarsi da un sogno ritrovandosi in un incubo, lo scompiglio, quello vero. Urla di panico, sportelli degli armadietti che scricchiolano, pezzi d’intonaco che si staccano dal soffitto; il comodino si sposta facendo cadere la bottiglietta dell’acqua, l’asta portaflebo oscilla come un pendolo. Un parapiglia che ha un nome: terremoto. Alle quattro e tre minuti si è spalancata la porta del Chaos.
Terminata la scossa, resta un silenzio irreale: il fiato sospeso per assicurarsi che il mostro sia passato. Il cuore si placa, il sangue rallenta la corsa, mentre fuori è un rincorrersi di sirene, urla, pianti isterici. Il pensiero balza alle persone care, immaginando l’imponderabile. L’adrenalina, sopprimendo ogni dolore, spinge a gettarsi fuori, correre ad assicurarsi che la tragedia sia scampata. Una volontà smorzata da un’altra scossa; il sisma assorbe ogni pensiero, ogni azione. L’udito teso a riconoscere il rumore dei crolli, il panico dilagante nelle strade, il boato dell’energia sprigionata. La realtà si distorce; il tempo, dilatandosi, rende infiniti gli istanti d’oscillazione. La vita conosciuta si sgretola come un vecchio muro.
Mattinata d’angoscia, sino alla notizia dell’incolumità dei miei, ma la casa non ha retto, crepe profonde la rendono inagibile. Lasciato l’ospedale, ho trovato asilo nella palestra municipale. Brande allineate in una promiscuità satura di tensione: c’è diffidenza ad avere un tetto sulla testa quando la terra trema a tradimento.
I primi giorni sono i più duri: si contano i minuti, le notizie, i morti e i dispersi. Ogni sirena è un sobbalzo. Gli scavi, a mani nude, proseguono nella notte. Manca tutto. Assieme alle case, il terremoto ha sgretolato le abitudini; spogliati dalle comodità riscopriamo l’indispensabile. L’acqua potabile diventa un miraggio, un bene da non sciupare. L’emergenza rende il vero peso alle cose. Il primo piatto di pasta, dopo tre giorni di biscotti energetici, porta pace al palato.
Straniero nella mia città, domando a visi estranei dove trovare una farmacia, l’ambulatorio medico, gli uffici comunali. Code interminabili per mangiare, lavarsi, avere notizie e, il tutto, avvilito dal senso d’impotenza.
Accompagnati dai vigili dal fuoco, abbiamo la possibilità di entrare nelle nostre case, prelevare il necessario. Di tutte le chincaglierie, tecnologie e oggetti vari, ci accorgiamo dell’essenzialità di vestiti puliti e coperte. M’è impedito d’entrare a veder lo scempio: servono gambe buone se c’è da fuggire, la stampella è una zavorra. Mia sorella trattiene il pianto; reagisce e fa il suo dovere.
Attendo nella via. Guardo la città fantasma, ne respiro il rantolo che sa di polvere e fuliggine. Mi sposto di poco; nel centro aleggia una bolla che assorbe ogni vibrazione. Un silenzio anomalo, la calma nell’occhio del ciclone. Deambulo, stordito dai calcinacci sparsi ovunque; scorgo la rocca sfregiata, le case abbandonate nel sonno. Una palazzina si regge ancora per metà, l’altra è mollemente ammassata in un groviglio di travi e macerie. La parete ancora in piedi mostra spudoratamente le membra della casa. La parete piastrellata di un bagno, al piano superiore, sembra un quadro neorealista che pende leggermente su un lato; lo specchio è crepato, mentre un accappatoio sospeso pare un fantasma. Poco più in là, il moncherino di una tramezza; oltre, una camera da letto. Mi fa rabbrividire l’intimità violata.
Vago smarrito per le vie, senza punti di riferimento. La casa, il fornaio, l’edicola, il bar della torre: punti cardinali nella vita di in paese, ora sono punti vuoti, dune nel deserto. Via Carducci 23 era casa, campo base; il nord su cui, da sempre, la mia bussola puntava indicando la rotta. Casa è punto fermo, maniero, ristoro, doccia e caffè caldo; una camera dove isolarsi, riflettere; una tavola dove discutere, radice ben piantata nel terreno. La sensazione è quella di una fine, di una vita che si fa ricordo e i ricordi macerie; nulla sarà più come prima. È come l’ultimo paragrafo di un libro mediocre dal finale aperto, cui, però, l’immaginazione non sa dare continuità. Quanto tempo per sanare la nuova fobia? Ritrovare il piacere di sentirsi al sicuro con un tetto sulla testa? Il sisma scompiglia le carte, apre una voragine fra il prima e il dopo, lasciando sgombro solo il presente, ma è un vuoto che assorbe energie. Per dar continuità occorre costruire un ponte che unisca i ricordi alla speranza nel futuro. Ritessere la ragnatela d’abitudini, di relazioni, di una quotidianità a volte bistrattata.
Il crepitio di macerie smosse mi scuote; è un rumore caratteristico, inconfondibile. La terra trema nuovamente. La tensione mi irrigidisce: non è paura, ma rabbia. Lo sciame sismico è una tortura. Tra una scossa e l’altra si vive d’inerzia; poi, quando il suolo inizia a tremare, la rabbia monta appena i piedi captano le vibrazioni. Stringo i pugni, impotente e sguarnito. La mente conta i secondi, mentre gli occhi non hanno più lacrime. Tradito da quella terra che, genitrice, mi ha sostenuto, sfamato con il lavoro: pane contro sudore. È innaturale l’odio che provo, snaturato quanto il rancore verso la propria madre.
Tutto tace, l’onda fugge portandosi via ogni forza. Le braccia si fanno pesanti, le spalle si curvano; costa una fatica immane sollevare le mani. Le guardo: tocca a loro la ricostruzione. Ma quando? La terra sembra non voler smettere di dare scossoni. Come nel gioco del soldato me ne sto inerte, aspettando il prossimo schiaffo, senza sapere quando e con quale forza colpirà.
Di nuovo si spande nell’aria, come incenso, l’odore di polvere e fuliggine. Di nuovo è silenzio. È paura.
Di Pierangelo Colombo, edito nella raccolta: Prospettive, 2017.
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