Adolescenza e scuola è solo uno dei mille argomenti che
gravitano attorno all’età dello sviluppo. Sogni e paure si intrecciano lungo
una strada disseminata di bivi. Voglia di indipendenza, di ribellione e
aggregazione, assieme ad una tempesta ormonale, lanciano i nostri ragazzi verso
un futuro tutto da costruire. Da genitori, a volte, ci troviamo spiazzati,
quasi disarmati, davanti alla loro voglia di vita. Forse ci siamo dimenticati
di essere stati, tempo fa, anche noi degli adolescenti?
A questo tema vorrei dedicare un racconto breve che ho scritto,
descrivendo le paure e le speranze di una ragazza alle porte dell’adolescenza.
Buona lettura e, mi raccomando, commentate. Dite le vostre
opinioni o le esperienze vissute.
Cosa farò da grande
Di Pierangelo Colombo
«Allora? Hai
deciso che scuola fare?»
Una
domanda che mi perseguita da mesi ormai. Parenti e conoscenti osservano stupiti
il mio silenzio, increduli di cotanta indecisione; come se dovessi scegliere
fra un cardigan rosa o un lupetto grigio. Ho tentato di risolvere accennando a
un liceo artistico, ma ho ottenuto solo sguardi delusi, mentre per il classico
ho ricevuto racconti apocalittici su ragazze portate alla demenza dalla mole di
studio, con descrizioni particolareggiate delle trincee, dei campi minati e
delle granate fatte di latino e di greco; roba da terrorizzare persino il
mostro di Milwaukee.
Farò
l’astronauta? Il medico? L’avvocato? Oppure il classico laureato che dopo anni
di sudore e sangue si ritrova a fare il lavapiatti in un ristorante? Perché
poi, dopo aver posto il quesito esistenziale, lor signori attaccano con la
cronaca patetica di nipoti, vicini, conoscenti vari.
«Senza una
spinta non si trova lavoro; prendi il mio vicino, si è laureato con il massimo
dei voti, ma adesso fa l’imbianchino. Anni di studi buttati».
Perché, mi
chiedo, scaricano su me, innocente alunna di terza media, le frustrazioni, i
sogni sgretolati da scelte affrettate o gettati al vento? Io che, in fondo, non
chiedo altro d’essere notata da Emilietto.
Tormentone,
quello della scelta, che non si limita all’entourage familiare; anche la scuola
ci mette del suo: il questionario per il perfetto orientamento, per esempio,
dovrebbe essere in grado d’estrapolare i nostri desideri più reconditi,
illuminandoci come san Paolo sulla via di Damasco.
Pagherei per
conoscere chi ha formulato quesiti come: “Ti piacerebbe archiviare o curare i
documenti contabili di un’azienda? Ti piacerebbe gestire un magazzino? Ti piace
la musica classica? Nutri interesse nel curare delle piante?”
Dovrei
rispondere senza avere la ben che minima idea di cosa diavolo sia un’azienda,
né tantomeno la sua contabilità. Mi piace da morire la musica, ma mi taglio le
vene al pensiero di ascoltare per ore un requiem, pur eccelso che sia. Veder
spuntare un germoglio avrà anche del miracoloso, è indubbio, ma sinceramente
non fa per me.
Mi si chiede di
scegliere quale indirizzo dare ai miei studi. Va bene, apro una piccola
disquisizione al riguardo: il ramo scientifico lo scarto a priori; non vado
male in matematica, però è una materia rigida, con delle regole fisse, dove la
fantasia è bandita. Si ha un punto di partenza, solitamente un problema, e un
punto d’arrivo, il risultato, uniti da una retta chiusa in una galleria
costruita da nozioni. Basta un piccolo errore e ci si perde in un labirinto,
senza che vi sia una Arianna a salvarci il deretano. No, la matematica è troppo
stretta per me.
Passiamo,
quindi, all’umanistico. Lettere è l’antitesi della matematica: in questo caso,
la fantasia è fondamentale; a che servirebbe scrivere ciò che è già stato
redatto? Usare lo stesso stile di questo o quell’autore? L’italiano è un
paesaggio aperto, arioso, una prateria da esplorare, dove è conveniente seguire
delle piste, ma più auspicabile aprirne di nuove. Un mare da solcare in
solitaria, facendo affidamento a mappe impresse dalla storia, dove l’istinto è
la bussola che indica la rotta. E poi, la grammatica: regole precise come
quelle matematiche, si potrebbe obiettare, ma per ogni canone esiste
un’eccezione. Nulla è così fisso.
A questo punto,
la scelta sembra stabilita e sottoscritta: non mi resta che iscrivermi al primo
liceo classico che trovo lungo il cammino. Qui subentra lo zio, però, che di
pubblicare un romanzo ne ha fatto una chimera; ho capito che di libri non si
campa.
«Ci sono più
scrittori che lettori» ripete ogni volta che una casa editrice gli dà buca.
Potrei
indirizzarmi verso l’insegnamento? Che Dio mi scampi! Avere a che fare con
degli alunni che solo vagamente ricordano i miei compagni? Piuttosto vado in
miniera! A dire il vero, gli alunni sono il minore dei mali: basta fare il
callo a balle fantascientifiche escogitate per giustificarsi o farsi belli.
Come la Barcetti, che in meno di tre mesi afferma di aver letto più di seimila
pagine. Peccato che poi, nei temi, butti giù tre righe in un italiano da sms,
seguendo una trama che un episodio di Peppa Pig, a confronto, pare Guerra e
pace. Oppure come Lara Villani, che in classe non riconosce la differenza
fra un sonetto e il teorema di Pitagora, ma da casa arriva con una parafrasi
dell’Infinito che svela persino a Leopardi cosa realmente intendesse
dire. Il vero guaio sono i genitori: procreatori di geni sottovalutati, angeli
che se combinano un guaio è solo per colpa del compagno, un demone disadattato
destinato a non combinare nulla di buono nella sua spregevole vita.
Rimane, quindi,
la scelta di una scuola tecnica o professionale. Impieghi di tutto rispetto,
che vanno dal settore inflazionato dell’informatica a quello ricercato, ma non
molto gratificante, del tornitore.
C’è anche da
spezzare una lancia riguardo ai genitori: cari individui, dalle idee anche più
confuse delle mie, che non perdono occasione per ricordare che è meglio farsi
una posizione, una carriera solida; non come loro, che sono schiavi in una
fabbrica o logorati e bistrattati in ufficio. Ti vorrebbero ingegnere, avvocato
o manager, ricco, rispettato e autorevole, così da vendicare le loro
frustrazioni.
I genitori sono
catalogabili in tre categorie: i pianificatori, i manipolatori e i “decidi
tu!”. I primi sono risoluti, pianificano il percorso di studio dei figli fin
dalla materna, intuendo il genio logico dell’erede: “Guarda! A quattro anni sa
contare fino a sette. E senza incepparsi!”, oppure, “Mia figlia parla
correttamente l’inglese. Non si perde una puntata di Hocus e Lotus”.
I manipolatori,
invece, sono del tipo: “Fai come vuoi, scegli liberamente, ma per te è meglio
questo o quello”.
Infine, ci sono
i miei genitori: “Non vogliamo condizionarti in alcun modo; la decisione deve
essere tua, scegli quello che più ti piace”. Grazie, ma che ne so io di cosa mi
piace? Da un gelataio posso sapere cosa più mi piace, in una pasticceria anche,
ma in questo caso no. Ho tredici anni, anche se ne vorrei avere almeno sedici.
Non ho ancora le idee chiare sulla mia sessualità, figuriamoci sull’avvenire.
La mia autostima vola esattamente fra la polvere e le piastrelle; a ogni
depilazione ringrazio il mio DNA per avermi dotato di una fluente pelliccia che
dall’inguine arriva sino alle caviglie. Compiaciuta, contemplo i baffi che
adombrano sinuosamente il labbro superiore. Sono simpatica quanto la monaca di
Monza nella fase premestruale e mi sento utile quanto un congelatore al Polo
Nord. Mi chiedo quale ruolo mi spetti nel mondo. Persino la zanzara ha uno
scopo: diventare pappa per le rane. Io mi sento più un piccione: fuori da ogni
catena alimentare (i predatori lo schifano), non canta, non è un simpatico e
tenero animaletto da compagnia, non ha uno sguardo ammaliatore, è leggiadro
quanto un tacchino e ha un piumaggio anonimo. Persino la tanto bistrattata
cornacchia ha un suo perché: fare lo spazzino.
In tutto questo
marasma è difficile trovare dell’ottimismo, quel sano sentimento che,
trasformato in equazione semplice, sta alla vita quanto la benzina sta
all’auto. La speranza è la malta con cui fissare il futuro, l’ottimismo è
l’energia necessaria per costruirlo, mentre i sogni ne sono i mattoni.
Poeticamente parlando: i sogni sono dei germogli spontanei che chiedono solo di
non essere calpestati, ma annaffiati regolarmente.
L’aridità
gettataci in faccia da alcuni adulti, però, è l’erbicida che fa di noi dei
campi incolti. Troppo spesso, senza rendersene conto, falciano le nostre
speranze legandole un unico fascio. Possono essere utopie, farneticazioni,
progetti irrazionali, ma sono i nostri sogni e necessitano di libertà; per
questo i più belli nascono nel sonno: svincolati dalla razionalità. La stessa
razionalità professata da chi sta distruggendo la terra; chi cerca una casa in
campagna per respirare aria pulita, ma ci si reca con una macchina da trecento
cavalli. Pronti a piangere per un passerotto ferito per poi insultare il
guidatore che, involontariamente, ne rallenta la corsa verso la palestra o il
bar per uno spritz.
Spesso colgo
discorsi preconfezionati che definiscono noi giovani dei debosciati,
fannulloni, drogati e privi d’interesse. Progetti ne abbiamo e, scusate
l’arroganza, anche più etici dei vostri. Vorremmo un mondo migliore, siamo
disposti anche a rinunciare a ciò che voi, al contrario, ritenete fondamentale.
A che ci serve avere un televisore grande quanto una parete, scaffali stipati
di merce se poi, un giorno fin troppo vicino, pagheremo ciò con inondazioni,
tumori e vedremo i nostri fratelli farsi la guerra per un pozzo d’acqua?
Non so cosa
farò da grande, quale contributo porterò a questa società malata. Il mio sarà
un chicco di grano gettato sul terreno: potrà germogliare come marcire, portare
frutti o soffocare nella gramigna. L’unica cosa certa è che voglio essere
d’aiuto a qualcuno. Persino il piccione, se scaviamo in fondo, molto in fondo,
ha un suo perché, basta saperlo cercare. E se io sarò una canna di bambù
seccata dal sole, beh, potrò sostenere un’altra pianta: appoggiandosi a me,
crescerà dritta e robusta. Se esiste una scuola in grado di prepararmi non lo
so; in fondo, la grammatica non fa il pensiero: lo abbellisce, lo rende
comprensibile, fruibile ai più. Il pensiero nasce dal giusto connubio fra cuore
e cervello. Unione di forze che dà vita alla passione: sentimento che,
alimentato dall’amore, smuove le montagne, ferma il sole e le stelle.
Un giorno, Moni
Ovadia disse di Vittorio Arrigoni: “Un essere umano che conosceva il
significato di questa parola”. Vik era un giovane attivista che, credendo
possibile un sogno, ha pagato con la vita la scelta di farsi portatore di pace.
Una passione per il prossimo che lo ha portato al gesto supremo di dare se
stesso, la propria vita, per gli altri.
Non so cosa
farò, ma so cosa voglio diventare: un essere umano che conosca il significato
di questa parola.
Secondo class. X ed. Premio: “AVIS Capannoli”