di Pierangelo Colombo

mercoledì 31 gennaio 2018

Adolescenza e genitori



  Adolescenza e scuola è solo uno dei mille argomenti che gravitano attorno all’età dello sviluppo. Sogni e paure si intrecciano lungo una strada disseminata di bivi. Voglia di indipendenza, di ribellione e aggregazione, assieme ad una tempesta ormonale, lanciano i nostri ragazzi verso un futuro tutto da costruire. Da genitori, a volte, ci troviamo spiazzati, quasi disarmati, davanti alla loro voglia di vita. Forse ci siamo dimenticati di essere stati, tempo fa, anche noi degli adolescenti?

  A questo tema vorrei dedicare un racconto breve che ho scritto, descrivendo le paure e le speranze di una ragazza alle porte dell’adolescenza.
Buona lettura e, mi raccomando, commentate. Dite le vostre opinioni o le esperienze vissute.  





 Cosa farò da grande


 Di Pierangelo Colombo


«Allora? Hai deciso che scuola fare?»
Una domanda che mi perseguita da mesi ormai. Parenti e conoscenti osservano stupiti il mio silenzio, increduli di cotanta indecisione; come se dovessi scegliere fra un cardigan rosa o un lupetto grigio. Ho tentato di risolvere accennando a un liceo artistico, ma ho ottenuto solo sguardi delusi, mentre per il classico ho ricevuto racconti apocalittici su ragazze portate alla demenza dalla mole di studio, con descrizioni particolareggiate delle trincee, dei campi minati e delle granate fatte di latino e di greco; roba da terrorizzare persino il mostro di Milwaukee.
Farò l’astronauta? Il medico? L’avvocato? Oppure il classico laureato che dopo anni di sudore e sangue si ritrova a fare il lavapiatti in un ristorante? Perché poi, dopo aver posto il quesito esistenziale, lor signori attaccano con la cronaca patetica di nipoti, vicini, conoscenti vari.
«Senza una spinta non si trova lavoro; prendi il mio vicino, si è laureato con il massimo dei voti, ma adesso fa l’imbianchino. Anni di studi buttati».
Perché, mi chiedo, scaricano su me, innocente alunna di terza media, le frustrazioni, i sogni sgretolati da scelte affrettate o gettati al vento? Io che, in fondo, non chiedo altro d’essere notata da Emilietto.
Tormentone, quello della scelta, che non si limita all’entourage familiare; anche la scuola ci mette del suo: il questionario per il perfetto orientamento, per esempio, dovrebbe essere in grado d’estrapolare i nostri desideri più reconditi, illuminandoci come san Paolo sulla via di Damasco.
Pagherei per conoscere chi ha formulato quesiti come: “Ti piacerebbe archiviare o curare i documenti contabili di un’azienda? Ti piacerebbe gestire un magazzino? Ti piace la musica classica? Nutri interesse nel curare delle piante?”
Dovrei rispondere senza avere la ben che minima idea di cosa diavolo sia un’azienda, né tantomeno la sua contabilità. Mi piace da morire la musica, ma mi taglio le vene al pensiero di ascoltare per ore un requiem, pur eccelso che sia. Veder spuntare un germoglio avrà anche del miracoloso, è indubbio, ma sinceramente non fa per me.
Mi si chiede di scegliere quale indirizzo dare ai miei studi. Va bene, apro una piccola disquisizione al riguardo: il ramo scientifico lo scarto a priori; non vado male in matematica, però è una materia rigida, con delle regole fisse, dove la fantasia è bandita. Si ha un punto di partenza, solitamente un problema, e un punto d’arrivo, il risultato, uniti da una retta chiusa in una galleria costruita da nozioni. Basta un piccolo errore e ci si perde in un labirinto, senza che vi sia una Arianna a salvarci il deretano. No, la matematica è troppo stretta per me.
Passiamo, quindi, all’umanistico. Lettere è l’antitesi della matematica: in questo caso, la fantasia è fondamentale; a che servirebbe scrivere ciò che è già stato redatto? Usare lo stesso stile di questo o quell’autore? L’italiano è un paesaggio aperto, arioso, una prateria da esplorare, dove è conveniente seguire delle piste, ma più auspicabile aprirne di nuove. Un mare da solcare in solitaria, facendo affidamento a mappe impresse dalla storia, dove l’istinto è la bussola che indica la rotta. E poi, la grammatica: regole precise come quelle matematiche, si potrebbe obiettare, ma per ogni canone esiste un’eccezione. Nulla è così fisso.
A questo punto, la scelta sembra stabilita e sottoscritta: non mi resta che iscrivermi al primo liceo classico che trovo lungo il cammino. Qui subentra lo zio, però, che di pubblicare un romanzo ne ha fatto una chimera; ho capito che di libri non si campa.
«Ci sono più scrittori che lettori» ripete ogni volta che una casa editrice gli dà buca.
Potrei indirizzarmi verso l’insegnamento? Che Dio mi scampi! Avere a che fare con degli alunni che solo vagamente ricordano i miei compagni? Piuttosto vado in miniera! A dire il vero, gli alunni sono il minore dei mali: basta fare il callo a balle fantascientifiche escogitate per giustificarsi o farsi belli. Come la Barcetti, che in meno di tre mesi afferma di aver letto più di seimila pagine. Peccato che poi, nei temi, butti giù tre righe in un italiano da sms, seguendo una trama che un episodio di Peppa Pig, a confronto, pare Guerra e pace. Oppure come Lara Villani, che in classe non riconosce la differenza fra un sonetto e il teorema di Pitagora, ma da casa arriva con una parafrasi dell’Infinito che svela persino a Leopardi cosa realmente intendesse dire. Il vero guaio sono i genitori: procreatori di geni sottovalutati, angeli che se combinano un guaio è solo per colpa del compagno, un demone disadattato destinato a non combinare nulla di buono nella sua spregevole vita.
Rimane, quindi, la scelta di una scuola tecnica o professionale. Impieghi di tutto rispetto, che vanno dal settore inflazionato dell’informatica a quello ricercato, ma non molto gratificante, del tornitore.
C’è anche da spezzare una lancia riguardo ai genitori: cari individui, dalle idee anche più confuse delle mie, che non perdono occasione per ricordare che è meglio farsi una posizione, una carriera solida; non come loro, che sono schiavi in una fabbrica o logorati e bistrattati in ufficio. Ti vorrebbero ingegnere, avvocato o manager, ricco, rispettato e autorevole, così da vendicare le loro frustrazioni.
I genitori sono catalogabili in tre categorie: i pianificatori, i manipolatori e i “decidi tu!”. I primi sono risoluti, pianificano il percorso di studio dei figli fin dalla materna, intuendo il genio logico dell’erede: “Guarda! A quattro anni sa contare fino a sette. E senza incepparsi!”, oppure, “Mia figlia parla correttamente l’inglese. Non si perde una puntata di Hocus e Lotus”.
I manipolatori, invece, sono del tipo: “Fai come vuoi, scegli liberamente, ma per te è meglio questo o quello”.
Infine, ci sono i miei genitori: “Non vogliamo condizionarti in alcun modo; la decisione deve essere tua, scegli quello che più ti piace”. Grazie, ma che ne so io di cosa mi piace? Da un gelataio posso sapere cosa più mi piace, in una pasticceria anche, ma in questo caso no. Ho tredici anni, anche se ne vorrei avere almeno sedici. Non ho ancora le idee chiare sulla mia sessualità, figuriamoci sull’avvenire. La mia autostima vola esattamente fra la polvere e le piastrelle; a ogni depilazione ringrazio il mio DNA per avermi dotato di una fluente pelliccia che dall’inguine arriva sino alle caviglie. Compiaciuta, contemplo i baffi che adombrano sinuosamente il labbro superiore. Sono simpatica quanto la monaca di Monza nella fase premestruale e mi sento utile quanto un congelatore al Polo Nord. Mi chiedo quale ruolo mi spetti nel mondo. Persino la zanzara ha uno scopo: diventare pappa per le rane. Io mi sento più un piccione: fuori da ogni catena alimentare (i predatori lo schifano), non canta, non è un simpatico e tenero animaletto da compagnia, non ha uno sguardo ammaliatore, è leggiadro quanto un tacchino e ha un piumaggio anonimo. Persino la tanto bistrattata cornacchia ha un suo perché: fare lo spazzino.
In tutto questo marasma è difficile trovare dell’ottimismo, quel sano sentimento che, trasformato in equazione semplice, sta alla vita quanto la benzina sta all’auto. La speranza è la malta con cui fissare il futuro, l’ottimismo è l’energia necessaria per costruirlo, mentre i sogni ne sono i mattoni. Poeticamente parlando: i sogni sono dei germogli spontanei che chiedono solo di non essere calpestati, ma annaffiati regolarmente.
L’aridità gettataci in faccia da alcuni adulti, però, è l’erbicida che fa di noi dei campi incolti. Troppo spesso, senza rendersene conto, falciano le nostre speranze legandole un unico fascio. Possono essere utopie, farneticazioni, progetti irrazionali, ma sono i nostri sogni e necessitano di libertà; per questo i più belli nascono nel sonno: svincolati dalla razionalità. La stessa razionalità professata da chi sta distruggendo la terra; chi cerca una casa in campagna per respirare aria pulita, ma ci si reca con una macchina da trecento cavalli. Pronti a piangere per un passerotto ferito per poi insultare il guidatore che, involontariamente, ne rallenta la corsa verso la palestra o il bar per uno spritz.
Spesso colgo discorsi preconfezionati che definiscono noi giovani dei debosciati, fannulloni, drogati e privi d’interesse. Progetti ne abbiamo e, scusate l’arroganza, anche più etici dei vostri. Vorremmo un mondo migliore, siamo disposti anche a rinunciare a ciò che voi, al contrario, ritenete fondamentale. A che ci serve avere un televisore grande quanto una parete, scaffali stipati di merce se poi, un giorno fin troppo vicino, pagheremo ciò con inondazioni, tumori e vedremo i nostri fratelli farsi la guerra per un pozzo d’acqua?
Non so cosa farò da grande, quale contributo porterò a questa società malata. Il mio sarà un chicco di grano gettato sul terreno: potrà germogliare come marcire, portare frutti o soffocare nella gramigna. L’unica cosa certa è che voglio essere d’aiuto a qualcuno. Persino il piccione, se scaviamo in fondo, molto in fondo, ha un suo perché, basta saperlo cercare. E se io sarò una canna di bambù seccata dal sole, beh, potrò sostenere un’altra pianta: appoggiandosi a me, crescerà dritta e robusta. Se esiste una scuola in grado di prepararmi non lo so; in fondo, la grammatica non fa il pensiero: lo abbellisce, lo rende comprensibile, fruibile ai più. Il pensiero nasce dal giusto connubio fra cuore e cervello. Unione di forze che dà vita alla passione: sentimento che, alimentato dall’amore, smuove le montagne, ferma il sole e le stelle.
Un giorno, Moni Ovadia disse di Vittorio Arrigoni: “Un essere umano che conosceva il significato di questa parola”. Vik era un giovane attivista che, credendo possibile un sogno, ha pagato con la vita la scelta di farsi portatore di pace. Una passione per il prossimo che lo ha portato al gesto supremo di dare se stesso, la propria vita, per gli altri.
Non so cosa farò, ma so cosa voglio diventare: un essere umano che conosca il significato di questa parola.




Secondo class. X ed. Premio: “AVIS Capannoli”

Tratto dalla raccolta di racconti: Prospettive, edita nel 2017

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