Quando
l’essenziale aveva un sapore inconfondibile, la fatica sapeva trasformare un
materasso rustico in un paradiso e nulla andava sprecato, perché il superfluo
era soltanto un sogno.
Il sapore del pane
«Si fa peccato a gettare
il pane» reclamo istintivamente. Mi pento della lagnanza, ma le parole sono
sgusciate via, senza lasciarmi il tempo di frenarle con i denti.
«Che
palle, nonno. É solo pane; mollicoso e gommoso pane» ribatte Camilla,
inchiodandomi alla sedia con sguardo torvo; una sentenza spietata che mi bolla
di rancidume: ecco il vecchio pronto a propinare precetti vetusti e paternali.
Un giudizio inoppugnabile, però, dato che debbo mordere la lingua per non
controbattere. È una battaglia persa in partenza: preferisco ripiegare in
ritirata, memore dei combattimenti verbali con mio figlio; una guerra che non
ha prodotto né armistizio né vincitore. E, alla mia età, mancano le forze per
tener testa a una tredicenne dalla lingua tagliente.
Duole
il cuore, tuttavia, nel vedere le mani di mia nuora afferrare da tavola una
pagnotta, ancora integra, per destinarla all’immondizia. Un moralismo smodato,
considerando le derrate quotidianamente sprecate; il pane, tuttavia, ha
qualcosa di sacro: “dacci oggi il nostro pane quotidiano…” reclamiamo da
millenni nella preghiera.
Tacere
mi costa, quanto tenersi dentro la testimonianza di un incontro così
straordinario da non essere creduto. Siamo rimasti in pochi ad aver assaporato
la carestia, quella vera, figlia della guerra. Prefazione di un discorso che
farebbe sbruffare le giovani leve; del resto, sarebbe come descrivere i colori
a un daltonico. Io stesso ho imparato ad apprezzare il pane solamente quando ho
iniziato a lavorare.
Ero
il terzo di sette fratelli: le famiglie contadine non avevano figli, ma
cucciolate. A dieci anni, stanco di scalpitare dietro il banco di scuola, ho
cominciato a fare il bracciante, sostituendo mio fratello maggiore, partito per
la guerra in Albania. Difficile dire se la malinconia che provo, rievocando
quei giorni, sia frutto di ricordi o rammarico di una giovinezza ormai lontana.
Rammento chiaramente,
tuttavia, il lavoro nei campi, la fatica vera, quella impregnata di sudore,
vergata dalle vesciche sulle mani. La fatica che fa apprezzare il materasso,
imbottito con foglie di granturco, come fosse un pezzo di paradiso.
Stendendosi, la schiena, rigida quanto un arco teso, sprofondava nella
croccante ovatta scaricandovi la tensione e ricevendone un abbraccio narcotizzante.
Le gambe, pesanti quanto macigni, rifiutavano qualsiasi movimento, mentre le
mani, indolenzite e coperte di calli, parevano ingrandirsi ogni giorno di più.
La testa sul cuscino mormorava l’ultima preghiera e, augurata la buona notte ai
fratelli, era subito sonno; nemmeno l’ho udito il boato del fulmine caduto sul
leccio davanti casa. Non c’era insonnia in quelle notti; troppo stanchi per
pensare. Persino i sogni si facevano semplici: desideri elementari.
Era dinanzi alla
fragranza delle rare pagnotte di pane rustico, che la fatica trovava compenso.
La crosta dura e ruvida a rammentare il terreno riarso dal sole, terra da
dissodare con forza di braccia e traino di buoi: schiudere rispettosamente il
ventre della terra, affidandole il seme che l’avrebbe ingravidata. Pagnotta
condivisa in conviviale semplicità, fra chiacchiere, pensieri, sogni e
preoccupazioni per un futuro difficile da immaginare. Pagnotta che, spezzata,
elargiva un profumo delicato, quanto una ballerina che danza in punta di piedi.
Fragranza che richiama il profumo lieve dell’infiorescenza del grano. Meriggi
primaverili rischiarati da un sole rinato, dove la brezza accarezza un mare
verde di spighe, minuscoli stami che vibrano nell’attesa d’essere ingravidati.
Etereo, il polline aleggia nell’aria come mano che benedice i campi.
Di quei giorni scarni,
dove il companatico più frequente era la zuppa, non rimpiango nulla a parte il
vigore della giovinezza. Ogni volta che spezzo il pane, però, rievoco con
malinconia la mietitura. Giorni estivi ricolmi di luce. Divisi in squadre di
quattro, più un legatore subito dietro, si iniziava all’alba salutati
dall’allodola. Il frinire delle cicale marcava il resto della giornata senza
posa, nemmeno quando il sole ruggiva dal culmine del cielo.
Chinandomi
dinanzi al mare dorato, con lo sguardo mi trovavo a filo della superficie, che
pareva fluida; la mano stringeva a mazzo gli steli, un colpo di falce. La
paglia crocchiante sprigionava un profumo inebriante, mentre la stoppia
pizzicava le caviglie nude, vendicandosi.
Si
cantava per scacciare la fatica, le serpi e il mal di schiena. Si pregava,
perché il tempo reggesse, tenendo lontano temporali e grandine. Si guardava con
malizia le donne che radunavano i covoni: foulard colorati sopra i capelli
scompigliati, gonne lunghe e camicie scollate. Sguardi accattivanti che
promettevano senza concedere.
Giornate
scandite dai rintocchi del campanile, sognando la festa di fine raccolto. La
benedizione di Dio colmava l’aia di oro e profumo. La schiena a pezzi, ma il
cuore leggero.
Nessun
lavoro è così esplicito come mieter le messi: la fatica fa il pane.
Probabilmente è questo l’ingrediente, più del sale, che da sapidità a una
pagnotta. “Non ha più il sapore di una volta”, si sente dire spesso. Il pane
raccoglie l’essenza stessa della terra, il profumo dell’aria, il calore del
sole, la limpidezza dell’acqua; elementi che abbiamo inquinato dissennatamente.
Tuttavia, sono convinto che, più di ogni altro, per assaporare pienamente una
boccata di pane, occorre aver faticato per guadagnarsela. La fatica fisica, il
sudore, il sole che fa bollire il sangue, le preghiere per un tempo mite
durante la crescita del grano. Seme gettato a inizio dicembre, fidando nella
neve, perché sotto la pioggia c’è la fame, ma sotto la neve c’è il pane.
La
società odierna getta spensieratamente questo dono divino, senza ricordare che,
un tempo, subito dietro i mietitori, c’erano le spigolatrici, perché nemmeno
una spiga andasse sprecata.
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