di Pierangelo Colombo

giovedì 19 luglio 2018

Il sapore del pane


Quando l’essenziale aveva un sapore inconfondibile, la fatica sapeva trasformare un materasso rustico in un paradiso e nulla andava sprecato, perché il superfluo era soltanto un sogno.

 Il sapore del pane




«Si fa peccato a gettare il pane» reclamo istintivamente. Mi pento della lagnanza, ma le parole sono sgusciate via, senza lasciarmi il tempo di frenarle con i denti.
«Che palle, nonno. É solo pane; mollicoso e gommoso pane» ribatte Camilla, inchiodandomi alla sedia con sguardo torvo; una sentenza spietata che mi bolla di rancidume: ecco il vecchio pronto a propinare precetti vetusti e paternali. Un giudizio inoppugnabile, però, dato che debbo mordere la lingua per non controbattere. È una battaglia persa in partenza: preferisco ripiegare in ritirata, memore dei combattimenti verbali con mio figlio; una guerra che non ha prodotto né armistizio né vincitore. E, alla mia età, mancano le forze per tener testa a una tredicenne dalla lingua tagliente.
Duole il cuore, tuttavia, nel vedere le mani di mia nuora afferrare da tavola una pagnotta, ancora integra, per destinarla all’immondizia. Un moralismo smodato, considerando le derrate quotidianamente sprecate; il pane, tuttavia, ha qualcosa di sacro: “dacci oggi il nostro pane quotidiano…” reclamiamo da millenni nella preghiera.
Tacere mi costa, quanto tenersi dentro la testimonianza di un incontro così straordinario da non essere creduto. Siamo rimasti in pochi ad aver assaporato la carestia, quella vera, figlia della guerra. Prefazione di un discorso che farebbe sbruffare le giovani leve; del resto, sarebbe come descrivere i colori a un daltonico. Io stesso ho imparato ad apprezzare il pane solamente quando ho iniziato a lavorare.
Ero il terzo di sette fratelli: le famiglie contadine non avevano figli, ma cucciolate. A dieci anni, stanco di scalpitare dietro il banco di scuola, ho cominciato a fare il bracciante, sostituendo mio fratello maggiore, partito per la guerra in Albania. Difficile dire se la malinconia che provo, rievocando quei giorni, sia frutto di ricordi o rammarico di una giovinezza ormai lontana.
Rammento chiaramente, tuttavia, il lavoro nei campi, la fatica vera, quella impregnata di sudore, vergata dalle vesciche sulle mani. La fatica che fa apprezzare il materasso, imbottito con foglie di granturco, come fosse un pezzo di paradiso. Stendendosi, la schiena, rigida quanto un arco teso, sprofondava nella croccante ovatta scaricandovi la tensione e ricevendone un abbraccio narcotizzante. Le gambe, pesanti quanto macigni, rifiutavano qualsiasi movimento, mentre le mani, indolenzite e coperte di calli, parevano ingrandirsi ogni giorno di più. La testa sul cuscino mormorava l’ultima preghiera e, augurata la buona notte ai fratelli, era subito sonno; nemmeno l’ho udito il boato del fulmine caduto sul leccio davanti casa. Non c’era insonnia in quelle notti; troppo stanchi per pensare. Persino i sogni si facevano semplici: desideri elementari.
Era dinanzi alla fragranza delle rare pagnotte di pane rustico, che la fatica trovava compenso. La crosta dura e ruvida a rammentare il terreno riarso dal sole, terra da dissodare con forza di braccia e traino di buoi: schiudere rispettosamente il ventre della terra, affidandole il seme che l’avrebbe ingravidata. Pagnotta condivisa in conviviale semplicità, fra chiacchiere, pensieri, sogni e preoccupazioni per un futuro difficile da immaginare. Pagnotta che, spezzata, elargiva un profumo delicato, quanto una ballerina che danza in punta di piedi. Fragranza che richiama il profumo lieve dell’infiorescenza del grano. Meriggi primaverili rischiarati da un sole rinato, dove la brezza accarezza un mare verde di spighe, minuscoli stami che vibrano nell’attesa d’essere ingravidati. Etereo, il polline aleggia nell’aria come mano che benedice i campi.
Di quei giorni scarni, dove il companatico più frequente era la zuppa, non rimpiango nulla a parte il vigore della giovinezza. Ogni volta che spezzo il pane, però, rievoco con malinconia la mietitura. Giorni estivi ricolmi di luce. Divisi in squadre di quattro, più un legatore subito dietro, si iniziava all’alba salutati dall’allodola. Il frinire delle cicale marcava il resto della giornata senza posa, nemmeno quando il sole ruggiva dal culmine del cielo.
Chinandomi dinanzi al mare dorato, con lo sguardo mi trovavo a filo della superficie, che pareva fluida; la mano stringeva a mazzo gli steli, un colpo di falce. La paglia crocchiante sprigionava un profumo inebriante, mentre la stoppia pizzicava le caviglie nude, vendicandosi.
Si cantava per scacciare la fatica, le serpi e il mal di schiena. Si pregava, perché il tempo reggesse, tenendo lontano temporali e grandine. Si guardava con malizia le donne che radunavano i covoni: foulard colorati sopra i capelli scompigliati, gonne lunghe e camicie scollate. Sguardi accattivanti che promettevano senza concedere.
Giornate scandite dai rintocchi del campanile, sognando la festa di fine raccolto. La benedizione di Dio colmava l’aia di oro e profumo. La schiena a pezzi, ma il cuore leggero.
Nessun lavoro è così esplicito come mieter le messi: la fatica fa il pane. Probabilmente è questo l’ingrediente, più del sale, che da sapidità a una pagnotta. “Non ha più il sapore di una volta”, si sente dire spesso. Il pane raccoglie l’essenza stessa della terra, il profumo dell’aria, il calore del sole, la limpidezza dell’acqua; elementi che abbiamo inquinato dissennatamente. Tuttavia, sono convinto che, più di ogni altro, per assaporare pienamente una boccata di pane, occorre aver faticato per guadagnarsela. La fatica fisica, il sudore, il sole che fa bollire il sangue, le preghiere per un tempo mite durante la crescita del grano. Seme gettato a inizio dicembre, fidando nella neve, perché sotto la pioggia c’è la fame, ma sotto la neve c’è il pane.
La società odierna getta spensieratamente questo dono divino, senza ricordare che, un tempo, subito dietro i mietitori, c’erano le spigolatrici, perché nemmeno una spiga andasse sprecata.  


Di Pierangelo Colombo, edito nella raccolta: Prospettive (2017)      

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