di Pierangelo Colombo

giovedì 7 febbraio 2019

Io sono sollievo


Perché non pensare a una rinascita?  «Non v’è parto senza tribolazione. Io sono la nuova alba, colei che conduce a nuovi mondi. Il grembo attraverso il quale ci si forma a nuova esistenza. In me non v’è più paura e sofferenza».
  Oggi vi propongo un mio racconto dove un vecchio si ritrova a ballare con una donna affascinate quanto inquietante.
Buona lettura.


 

Io sono sollievo




La luce al neon si fa abbacinante, riverberata dalle pareti della camera; un bagliore che assorbe i movimenti di un camice bianco. Le vibrazioni ovattate si perdono nell’aria; un viso, rigato dalle lacrime, va sfocando stemperandosi nella nebbia che alleggerisce i sensi. Un’incoscienza che avvolge il corpo del professore come un sudario, un antidoto contro lo strazio della malattia che azzanna le membra con ferocia.
Chiude le palpebre il professore, come fossero persiane sul mondo, lasciando fuori rumori, immagini e sensazioni. Esausto, scivola con dolcezza nel sottile confine fra il reale e l’etereo. Come la notte si dissolve nel giorno nell’equilibrio dell’albore, così il sogno subentra alla vita che si allontana affievolendosi. Il pensiero fluttua in un tepore gradevole; alienandosi da ogni senso, assottiglia il respiro in sibili sino a smorzarsi. Il battito che scandiva i secondi si va esaurendo in rintocchi di congedo. La coscienza è un’ombra assorbita dall’oscurità. Un soffio, un batter d’ali nel silenzio scaccia il nulla. Una nuova alba dissolve il buio; luce limpida di mattino che, penetrando dalle finestre, illumina una stanza che lentamente prende una forma eterea. Immobile, nel centro del salone, l’uomo riconosce sbalordito il casale della nonna, luogo incantato dove, fanciullo, assaporò giorni spensierati.
Un soffio sottile attraversa la sala, colmandola di una fragranza delicata quanto indefinibile. L’uomo è pervaso dal benessere conosciuto allora, un vigore e un’energia dimenticati, che lo proiettano nell’incontenibile esuberanza di quell’età. Non corpo a racchiudere l’essenza dell’essere, ma pura consapevolezza.
Leggera quanto una piuma, una figura femminile prende corpo dinanzi a lui. Affascinato, il professore contempla la bellezza nascente. Sinuosità nelle labbra e capelli corvini che scivolano lungo la schiena; la carnagione bronzea esalta lo smeraldo di occhi limpidi. Non la minima imperfezione nella pelle liscia, mentre la veste scorre come un velo d’acqua lungo le curve del corpo, lasciando scoperte le caviglie e i piedi scalzi.
Un lieve sussurro dà vita a una dolce melodia: una ballata bretone che s’espande colmando la sala di vibrazioni. La donna alza il braccio, porgendo all’uomo la mano e invitandolo a ballare. Il sorriso incita a lasciarsi guidare.
«Chi sei?» domanda l’uomo, accennando un inchino.
«Mille sono i volti che mi attribuite» risponde lei, con voce calda. «A mille nomi io rispondo: Ana, Aita, Hel, Azreal, Destino, la Nera Signora».
  Una rivelazione che non spaventa l’uomo, rasserenato dalla serenità che fluisce dalla mano calda di lei, che stringe delicatamente nella sua. Un calore consolatorio quanto una carezza nello scacciare un incubo.
«Io sono donna, uomo, bambino, guerriero, angelo e madre. Porto consolazione, risoluzione. Io sono sollievo». La voce lascia assaporare la delicatezza che la parola esprime.
«Mi temete, mi odiate, mi rifulgete nell’illusoria ricerca dell’immortalità. Io amo la vita, di cui sono sorella, seppur l’opposto necessario. Siamo come la luce e le tenebre, il giorno e la notte: l’una necessaria all’altra. Non c’è vita senza morte, né morte senza vita. Il fiore sboccia, sfoggia la propria bellezza, accoglie in sé la vita, ma deve prima appassire per poi morire, così da trasmettere la vita stessa al seme. Tutti i giorni il sole muore dietro l’orizzonte per risorgere il mattino».
«Ma tu sei dolore per chi resta, vuoto e gelo nelle ossa».
«Non v’è parto senza tribolazione. Io sono la nuova alba, colei che conduce a nuovi mondi. Il grembo attraverso il quale ci si forma a nuova esistenza. In me non v’è più paura e sofferenza».
«Tu non conosci dolore, né cosa sia la paura».
«Ti sbagli. L’uomo m’incute terrore» ribatte lei, incupendosi. «Mi accusate di crudeltà, di seminare afflizione e tragedie. Ma siete voi i primi a non amare la vita. Non sono io a colmare i bicchieri annebbiando la mente; non sono io a premere l’acceleratore o a vendere l’inferno in pasticche promettendo il paradiso. La mia mano non arma chi preme il grilletto o fomenta odio, non illudo le folle aizzandole in guerre sante proclamando superiorità o promettendo gloria e potenza. Non sono io ad avvelenare le acque, l’aria e il cibo in nome del danaro, dio che adulate ingozzandovi di opulenza, lasciando milioni di vostri simili a bramare persino dell’acqua imbevibile. L’avidità umana soggioga bambini innocenti schiavizzandoli, comprandone il corpo con una manciata di monete. Vendete l’anima per tesori che accecano la mente».
L’uomo le stringe la mano al fianco, sentendo ogni parola come un’accusa, una stilettata.
«Accompagno l’uomo verso la propria fede, la speranza, il riposo e il sogno. Io sono testimone assoluta, ho toccato con mano l’orrore di cui la bestia umana è capace. Le fiere uccidono per nutrirsi, l’uomo uccide per rabbia, egoismo e ottusità. Ho visto in voi la crudeltà, assente negli altri esseri viventi, l’innaturale propensione nel produrre dolore. Avete creato marchingegni infernali per torturare, martoriare e sterminare interi popoli. Avete crocefisso, lapidato, impalato. Ho visto notti buie illuminate dai roghi appiccati da falsi religiosi». Nei suoi occhi un’umanità disarmante.
«Ho accompagnato bambini, donne, vecchi attraverso alti camini consegnandone le polveri al vento. Negli occhi degli aguzzini una cieca crudeltà mai scorta in nessuna belva, nemmeno la più feroce. Negli occhi delle vittime, invece, l’incredulità, la sofferenza, la disperazione e l’orrore inconsolabile. Ciò che più mi fa male è il non saper rispondere alla domanda: perché? Perché tutto questo dolore?»
«Non esiti, però, a reclamare ciò che ti spetta, senza riguardi verso giovani, sani, felici o giusti».
«Io sono risolutrice, non destino. Non è nella natura invocare la morte; tuttavia, ho visto uomini, giovani e sani, implorarmi di porre fine a sofferenze insopportabili. Malvagità che nulla ha di naturale».
«Vi sarà, tuttavia, qualcosa di buono nel mondo».
«Potete sentire il calore del sole» risponde trasognata. «Il soffio del vento, la fragranza di un fiore. L’uomo ha avuto doni straordinari, così numerosi da non accorgersene nemmeno. Tesori inestimabili accantonati come fossero ninnoli di poca importanza o, peggio, usati nel peggiore dei modi. Il più grande di tutti è l’amore, termine di cui abusate, ma vi guardate bene dall’usarne la forza. Amore è vita, padre e madre di tutti i sentimenti umani; aria, polline, calore, luce che indica la via. L’amore è immortale, preghiera in una carezza; è quel nome che il cielo infinito non può contenere. Amore è verbo generoso. Amore e odio si possono elargire con la stessa facilità, eppure l’uomo troppo spesso propende per quest’ultimo. Un sentimento da cui attinge a piene mani, tanto da incutermi timore».
«Come puoi temere l’uomo su cui tieni sospesa la mannaia?»
«Temo l’uomo perché può decretare la mia fine e, con essa, quella della vita stessa».
«Com’è possibile?»
«L’uomo non rispetta la vita, ma la rinnega per mero profitto o cieca follia. Un giorno annienterà il miracolo dell’esistenza, sentenziando la mia fine con quella dell’umanità. Ne ha i mezzi». La mano stringe quella dell’uomo mossa da un fremito; lui sospende la danza, fissando gli occhi della donna.
«Non crucciare il tuo animo, però; il tempo della sofferenza ha termine» sussurra lei, guardandolo compassionevole. «Abbandona ogni tormento, lasciati avvolgere dal sollievo e segui i miei passi».
L’atmosfera si carica di sensazioni amplificate, emozioni che l’uomo assapora per la prima volta, senza che esse siano filtrate dal corpo o diluite dalla razionalità. Vibrazioni pure che vanno catalizzandosi attorno a lui facendosi fluide. Un liquido caldo e avvolgente che ricolma lo spazio con la dolcezza di una nenia; una percezione di benessere, l’estasi di un amplesso, dove l’uomo si dissolve diventandone parte integrante.
Lo spazio si condensa nella vibrazione di un bacio a fior di labbra. Risucchiato in un vortice, fluttua nel caldo conforto di un grembo materno. Non fine, ma imperscrutabile scintilla che apre nuove dimensioni: l’immenso attraversato in un soffio, assorbendone l’amore in un respiro. Poi, il tutto.

Di Pierangelo Colombo; edito nella raccolta: Prospettive (2017)

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