Massimo Cecchini
Il Bambino
Neri Pozza
Presentato da
Cesare Milanese
A volte i casi umani, che di solito sono considerati i più umani in ragione della loro condizione di relegazione nell’estremizzazione del male, si rivelano come i casi più inumani. In genere sono quelli che accadono fatalisticamente come tali, da sé, per sé stessi si direbbe, senza che ci sia nessuno che debba o possa assumersene la causa o la colpa. Sarebbe questa, peraltro, la ben nota condizione assurda della vita umana di cui Albert Camus ha trattato in tutta la sua opera. Condizione contro la quale lo stesso Camus contrappone la rivolta (se non altro morale ed esistenziale, anche se inutilmente eroica) dell’uomo verso una tale irrazionalità dovuta all’assurdità della sorte. Ebbene, niente di tutto questo nel romanzo di Massimo Cecchini, Il Bambino, che pur tratta materialmente di un caso umano relegato in una situazione da male estremo entro un vivere che è un non-vivere, se non di sofferenza e di dolore senza rimedio e senza scampo.
Il libro di Cecchini espone il caso (umano e disumano al tempo stesso) di una sottomissione e di un’accettazione completa a tale sorte; anzi da dedizione ad essa, senza rivolta, senza lamento, senza recriminazione, senza maledizione e perfino senza sofferenza. Ed è questo il dato di fatto che più si impone in questa narrazione da resoconto «indifferente», tutto impostato sull’atarassia dello «sguardo dal di fuori». Uno sguardo che si mostra impassibile, pur essendo partecipe di ciò che con analitica precisione descrive, al punto tale da far sì che il lettore si senta pienamente coinvolto dal sentimento di comprensione e di pietà che il caso, descritto da questo libro, naturalmente suscita.
Una pietà da naturalità senza patemi e senza autocommiserazioni da parte dei personaggi in questione del romanzo intitolato Il Bambino: un evidente nome-metafora di Angelo, il bambino già concepito oligofrenico ancor prima di nascere e che resterà irreversibilmente tale per tutta la sua vita (che sarà perfino una lunga vita); da cerebroleso inconsapevole di sé e del mondo e il cui linguaggio si arresterà del tutto entro i limiti del biascicare e del gorgogliare possibili espressioni senza senso. E inoltre, autolesionista: a tal punto da accecarsi da solo a forza di colpi che si infligge da sé alle tempie e alla testa.
Nonostante ciò, il Bambino (Angelo di nome) più che nel vivere continuerà nel suo sopravvivere, in grazia o in virtù che dir si voglia dei suoi due genitori (Pietro e Anna) che si dedicheranno a lui con una dedizione che non si sa come definire, se da volontà di autosacrificio superumano, oppure da abulia fatalistica per sottomissione a un imperativo superiore che li condiziona ad agire perinde ac. Succubi come essi sono a una coattività che li sovrasta e che essi trasmettono tale e quale a un ridottissimo gruppo di altri due o tre personaggi servili (o quasi angelici per ammirevole e generosissima ottusità) che li assecondano in tale mansione abnorme.
Sia come sia, quello che conta, alla fine, è il poter constatare che il miglior merito di questo libro (oltre all’effetto di stupore che esso suscita per l’aver saputo affrontare un simile caso da aberrazione del possibile dell’umano: il contenuto in sé del libro) consiste soprattutto per il suo risultato ottenuto in termini di qualità della scrittura: perciò principalmente nel suo esito precipuamente letterario. Trattandosi di una qualità di scrittura che pur occupandosi di un caso considerato e analizzato con estrema precisione e con esatta puntualizzazione, anche nei suoi aspetti che potrebbero apparire psicologicamente e umanamente scostanti, risulta essere, nella sua essenza di scrittura, nitida e pura, come un pregevole esempio da letteratura egregiamente riuscita.
Una forma di scrittura che (pur dovendo rappresentare un tipo di vicenda e una qualità di materiale, che inducono di per sé al dover suscitare effetti di orrore e di pietà) considerata sul piano della elaborazione essenzialmente stilistica, risulta essere, invece, del tutto immune e del tutto libera, tanto dagli effetti d’orrore quanto dagli effetti di pietà. E tutto ciò pur sapendo dare, e rendere, presenza attiva e partecipativa sia alla componente dell’ orrore e sia a quella della pietà; e per di più sapendosi avvalere di una forma di scrittura, appunto, che si potrebbe definire, non tanto della neutralità (da intendersi come indifferenza sia nei confronti dell’orrore e sia della pietà), bensì come assunzione di una «scrittura dell’impersonalità» che questi due effetti contrapposti li tiene compresenti entrambi, mettendoli tra parentesi per neutralizzarli come tali, pertanto trascendendoli.
Ada D’Adamo
Come d’aria
Elliot
Presentato da
Elena Stancanelli
Come d’aria è un libro che fruga dentro il cuore del lettore. Serviva la lingua esatta e implacabile di questa scrittrice per riuscire a sostenere un sentimento tanto feroce. C’è tutta la rabbia e tutto l’amore del mondo nel racconto di questa danza che lega due donne. Avvinghiate l’una all’altra, in una assoluta e reciproca dipendenza. Daria, la figlia, che comunica soltanto attraverso il suo irresistibile sorriso, Ada, la madre, catapultata suo malgrado in questa storia d’amore. Era una ballerina, Ada. E il corpo, di entrambe, è il centro di questo memoir sfolgorante per intelligenza, coraggio e misericordia. In questo libro si entra con enorme facilità, ma da questo libro si esce cambiati. C’è una tale quantità di vita, nelle sue pagine, da lasciarci senza fiato. Ci siamo noi, la fatica, la nostra inutile bellezza. Dalla prima lettura ho pensato che fosse una pepita d’oro, un dono, un abbraccio. Come avrebbe detto Bobi Bazlen, una perfetta e lacerante «primavoltità».
Silvia Dai Pra’
I giudizi sospesi
Mondadori
Presentato da
Sergio De Santis
Nell’affollato campo delle storie di famiglia è ormai difficile non cadere nel già detto o nel già letto. Ci riesce Silvia Dai Pra’ nel suo I giudizi sospesi anche grazie a una narrazione generosa, guidata da una sapiente ironia e da una scrittura tanto intrigante e originale da spingermi a proporlo al Premio Strega.
Si tratta della storia di una famiglia dei nostri tempi, che copre l’arco di venticinque anni. A raccontarcela è il più giovane, ma anche il più disincantato dei suoi componenti, Felix. Il padre è un carismatico professore di storia e filosofia; la madre, insegnante anche lei, ha scelto di ruotare nell’orbita del marito e dei figli; la sorella, Perla, è tale di nome e di fatto, e in lei risiedono le aspettative dei genitori, trincerati in un intellettualismo un po’ velleitario, ma a loro parere tanto salvifico da dover essere assolutamente trasmesso ai figli.
La famiglia potrebbe essere felice, perfetta, ma la vita non lo è, e aspetta tutti al varco nella persona di un giovane attraente quanto bugiardo e manipolatore, che ruberà loro «Perla-la-perla», avvelenandola con uno di quegli amori tossici destinati a distruggere l’illusoria armonia di quella famiglia colta, illuminata, ma che forse non aveva capito, come recita l’ultimo rigo del libro, che «con la ferocia non puoi ragionarci». Quale ferocia? Quella che può annidarsi, come una malattia latente e minacciosa, in ogni individuo, in ogni famiglia, per manifestarsi a volte improvvisa e devastante, costringendo ognuno a fare i conti con una realtà il cui senso pare non concedere o pretendere altro se non innumerevoli giudizi sospesi.
Raffaele Donnarumma
La vita nascosta
Il ramo e la foglia
Presentato da
Paolo Ruffilli
Il romanzo di esordio di Raffaele Donnarumma, La vita nascosta (Il ramo e la foglia), si apre con la fine del ménage tra il protagonista, quarantenne professore di università, e il suo convivente. La relazione è ormai stanca, si trascina, i due si sono traditi senza dirselo e, quando uno dei due lo scopre, l’altro è messo con le spalle al muro e si lasciano. Di qui comincia il doloroso percorso del protagonista, che ripercorre a ritroso il cammino che dalla scoperta della propria omosessualità nell’adolescenza lo riconsegna all’insoddisfazione dell’oggi e alla nuova inquietudine che lo spinge a rilanciarsi in un’ossessiva ricerca di incontri. È così che conosce un giovane bello, intelligente, apatico e (lo scoprirà andando avanti) depresso, che lo affascina e di cui si innamora. La forza e la novità della storia si materializzano nella sofferta esperienza del protagonista che si sente legato a una persona inaffidabile e che pure lo attrae proprio per il vuoto che lo caratterizza e che lo porta a buttarsi via e a dilapidare ogni occasione di vita. Inseguimento, il suo, destinato inevitabilmente al fallimento. La vita nascosta è un romanzo di grande sottigliezza psicologica, narrato con raro senso della pietas nell’indagine dentro il groviglio delle contraddizioni di carnalità e di testa, di delicatezza e di forza, di saggezza e di follia, di dolcezza e di crudeltà dei personaggi. La scrittura ha una misura personale originale che si appoggia stilisticamente a passaggi focalizzanti per creare effetti soprattutto visivi e percettivi e per suggerire alla lettura, in modo appunto suggestivo, immagini e atmosfere coinvolgenti, costruendo una dimensione intrigante di radiografia del profondo e di vicende comunque della quotidianità.
Marcello Fois
La mia Babele
Solferino
Presentato da
Elisabetta Mondello
Un memoir intenso e autoironico che, fin dalle prime pagine, coinvolge il lettore in una riflessione profonda sulle parole e sulla scrittura. Sulla difficoltà a trovare una voce, un lessico, un modo per raccontare ciò che si sente e si vuole comunicare. Per tutti concretizzare un’emozione o un pensiero in una frase, cioè tradurre sé stessi in parole, è un percorso da costruire nel tempo. Ma per il protagonista dei primi capitoli del libro, il Fois bambino e poi adolescente cui la sorte, fin dalla nascita, sembra riservare non scorciatoie ma complicazioni, l’operazione di traduzione diviene più complessa: è «sardoparlante», cresciuto in una lingua madre forte. Per lui, la conquista delle parole per raccontarsi vuol dire anche apprendere una seconda lingua, l’italiano, acquisire un vocabolario, una struttura di pensiero, una sintassi. Popolato dai personaggi centrali nella vita di Fois e nel mondo della cultura e dell’editoria del secondo Novecento – Ezio Raimondi, Piero Gelli, Giulio Einaudi -, La mia Babele è un memoir brillante ma intenso che si fa romanzo di formazione e romanzo picaresco, attraversando i vari territori emozionali del lavoro letterario, dalla felicità per la conquista delle parole all’ansia per un loro possibile stravolgimento nelle traduzioni straniere, oggetto della seconda parte del libro, dedicata al mondo della post-scrittura.
Ermal Meta
Domani e per sempre
La Nave di Teseo
Presentato da
Furio Colombo
È una storia (molte storie) di abbandono e di guerra, dove tutte le vie di fuga sono bloccate da macerie di distruzione e da macerie di ignoto e di paura. È un libro che fa conoscere personaggi che vuoi conoscere perché portano un carico di futuro e di speranza.
«Mi ha molto colpito Domani e per sempre (La Nave di Teseo), esordio narrativo del cantautore Ermal Meta che oggi ha 41 anni e arrivò in Italia dall’Albania quando ne aveva 13. Il protagonista si chiama Kajan ed è un ragazzo che vive in una fattoria con il nonno, mentre i genitori partigiani sono sulle montagne a combattere i nazisti. La sua vita cambia il giorno in cui arriva un disertore tedesco, che si rivela un bravo pianista e introduce il ragazzo all’arte della musica. Mi ha anche colpito che un giovane uomo come Ermal Meta, ormai affermato e di successo, abbia deciso di confrontarsi seriamente con la storia.»
Uso queste righe scritte da Liliana Segre su «Oggi», la sua rubrica per una volta è diventata recensione, perché questa recensione in poche righe contiene le ragioni per cui questo primo libro del giovane cantautore merita l’attenzione di un Premio come lo Strega.
Infatti è il documento di un ragazzo che, dal fondo della povertà e del pericolo, afferra la musica (imparare la musica) per cominciare a esistere, una persona giovane che trapassa quasi magicamente il muro della origine e della estraneità per diventare italiano senza andare in esilio, una persona forte da piccolo e da adulto, con una e con l’altra appartenenza, con la musica e poi con il libro che vale la pena di conoscere. I protagonisti del nuovo autore meritano l’attenzione di un premio letterario perché affrontano con coraggio le condizioni che tormentano la vita di un popolo durante una guerra: la solitudine, la paura, l’ignoto, il peso del potere arbitrario che rende impotenti e hanno nella lotta di liberazione il solo strumento. Nel percorso, certamente riuscito, adottato da Meta, è il bambino che narra, ma con la visione del giovane adulto che ha scavalcato due grandi ostacoli: essere libero e poter raccontare che cosa vuol dire non esserlo. Il risultato che l’autore raggiunge è che varie storie straordinarie si sovrappongono, quella del bambino insieme terrorizzato e coraggioso, quella del nonno protettore che segna con chiarezza il passaggio della storia, quella del soldato ribelle e musicista, che ha cioè molta esperienza di una vita per molti mai intravista, conosce lo stato d’animo di terrore, attesa e speranza, ma anche un carico di esperienza ignota, e apre al più piccolo dei protagonisti la porta splendida dell’arte. Il rapporto con la musica dell’autore conta, nel libro, perché dà alla narrazione un respiro calmo e una espressività allo stesso tempo semplice e piena di notizie che inducono il lettore a vivere l’esperienza dei suoi personaggi come se fossero contemporanei; dunque, sotto la cappa di un presente pauroso ma con il carico di una attesa che in certi momenti diventa festosa. Perciò è bene che questo libro rimanga con noi, identificato da un riconoscimento che merita.
Giorgio Nisini
Aurora
HarperCollins
Presentato da
Massimo Onofri
La fiaba della Bella addormentata nel bosco possiede un’attualità che va oltre la storia che tutti conoscono, quella della fanciulla che cade in un oscuro sonno di morte: è una attualità che riguarda la paura del sonno (eterno) e la speranza del risveglio (altrettanto eterno), archetipi psicologici che fuggono da ogni determinazione temporale. Nisini, con questo suo romanzo inaspettato e sorprendente, che candido senza esitazione al Premio Strega 2023, compie un’operazione di raffinato recupero narrativo: smonta l’antica fiaba, riprende le sue versioni più nere e crudeli – da quella di Giambattista Basile fino ai più antichi modelli nordici – rimonta poi il tutto in un romanzo contemporaneo, ambientato ai giorni nostri. Si tratta di una soluzione narrativa che lavora quasi filologicamente sul passato per interpretare il presente, epperò lo fa attraverso un’operazione che va oltre la filologia stessa: il lavoro di recupero è puramente funzionale a quello della narrazione. La dimensione drammaturgica nel suo insieme, l’incomprensibile narcolessia di Aurora, l’ambientazione da archeologia industriale, spingono l’antica fiaba ormai “defiabizzata” a confrontarsi con temi oggi attualissimi: la superstizione, i limiti della scienza, la tensione morale prodotta dal confronto con l’ignoto.
Igiaba Scego
Cassandra a Mogadiscio
Bompiani
Presentato da
Jhumpa Lahiri
La lingua italiana è sempre un personaggio cruciale nella narrativa di Igiaba Scego. Come Primo Levi, Italo Svevo, a altri scrittori di confine che che hanno indagato e arricchito l’italiano per via della loro condizione ibrida, Scego, di libro in libro, ha sempre scandagliato l’idioma della sua creatività con massima attenzione. Scrivendo dalla prospettiva di chi conosce l’italiano da dentro e da fuori, ne ha forgiato un linguaggio folgorante, urgente, tutto suo. In Cassandra a Mogadiscio, il cui titolo già segnala un ponte fra mondi, tempi e tradizioni, la politica e il personale si intrecciano, così come si sovrappongono le diverse lingue e realtà dei personaggi. Colpiscono i temi complessi e sempre più attuali dell’appartenenza, della famiglia diasporica, della ricerca delle origini e dello sradicamento. Ma questo romanzo, con intensità e autorevolezza, mette al centro la preminenza della parola: quella che squarcia, che resiste, che restituisce. Questo libro ben equilibrato, anche dirompente, sicuramente il libro più importante che esista, nella letteratura italiana, sulla storia postcoloniale italo-somala, va letto per uscire dal silenzio, dall’oblio e dalla rimozione che distorce la verità di quell’epoca, e per far i conti con il razzismo non solo di una volta ma di oggi. Va letto per rendere contemporanea e sempre rilevante la lotta secolare di donne che hanno da dire ma sono condannate a non essere ascoltate. Sono le parole, dunque, di questa Cassandra testarda ma tenera, vincente e accogliente, vispa e ironica, che conquistano il lettore, e la sua potenza sta nel continuare a esprimersi senza rabbia, solo con convinzione e con lucidità. In questa Cassandra, crediamo.
Andreea Simionel
Male a est
Italo Svevo
Presentato da
Gioacchino De Chirico
Il libro d’esordio di Andreea Simionel merita tutta l’attenzione che gli dedicano le pagine culturali di quotidiani e periodici, radio e televisioni. Male a est racconta la lacerazione dell’emigrazione. Ne rende visibili e tangibili le opportunità e le perdite, ma soprattutto, evidenzia i traumi di una lingua nuova che si misura e combatte con la lingua madre, anche se il rumeno ha la stessa radice latina dell’italiano. Ogni parola, ogni neologismo, ogni ricordo risulta così profondamente legato alla realtà che se in un primo momento può disorientare il lettore, ben presto si rivela un prezioso strumento di narrazione. È la letteratura.
Simonetta Tassinari
Donna Fortuna e i suoi amori
Corbaccio
Presentato da
Marcello Rotili
La narrazione, serrata e coinvolgente, intreccia con eleganza, in un gioco ripetuto di giustapposizioni, la tormentata biografia dell’avvenente figlia e sorella di poverissimi contadini anarchici della bassa padana con la costruzione delle grandiose navi di Nemi disposta dal megalomane Caligola, con il loro affondamento ordinato da Claudio quale forma di damnatio memoriae del suo predecessore e ancora con le vicende del loro impegnativo recupero archeologico dalle acque del lago sui Colli Albani.
Fortuna Cavina è la diciottenne che la prematura scomparsa del giovane marito risucchia ancora di più nel gorgo di un’emarginazione a cui ancor prima l’avevano condannata l’umile origine e le scelte politiche dei familiari. La mediocre società di Ponterotto, ove la protagonista abita dopo il matrimonio con l’anarchico Ateo Assirelli, perito nei disordini del 1914, le riserva sospetto e odio mentre Fortuna ne invidia il benessere considerato come una meta da raggiungere, prescindendo da una scelta politica che ritiene da evitare per garantire il futuro del figlio. Così quando Libero (Bibo) ha 4 anni, nel settembre 1918 conosce Giuseppe Guidi, un boscaiolo desideroso di recuperare una dimensione di vita normale dopo la tragedia della grande guerra, accetta di sposarlo e di trasferirsi a Nemi, ove Giuseppe impianta una piccola ditta di falegnameria.
La storia che svolta in senso favorevole alla protagonista anche grazie all’impegno di don Luigi, il caritatevole parroco di Ponterotto, si svolge negli anni in cui il regime di Mussolini è impegnato nel recupero e nell’esaltazione della romanità e nel tentativo di costruire una nuova identità dell’Italia e degli italiani: oltre alla propaganda ne furono strumenti la politica imperialistica, alcune imprese urbanistiche dai molteplici risvolti e iniziative di carattere archeologico che hanno suscitato di volta in volta ammirazione, perplessità e giudizi negativi per le scelte compiute e i metodi applicati.
In questo clima politico e culturale si colloca il complesso e per tanti versi eccezionale recupero delle navi fatte costruire da Caligola e affondare da Claudio. Ecco, dunque, che la narrazione della Tassinari riallaccia al passato di età imperiale, attualizzato dal recupero delle navi, la vicenda di Fortuna, del figlio e del marito, laborioso e intraprendente a dispetto delle menomazioni polmonari derivanti dal suo passato di combattente. Sicché nell’agile racconto entrano in scena gli artefici del recupero attuato prosciugando in parte il lago di Nemi: in particolare il conte Filiberto Orsatti, ingegnere e reduce di guerra, ritiratosi a vivere a Villa Giulia, la magnifica residenza di famiglia sulle sponde del lago, dopo la menomazione subita in combattimento, una menomazione alla quale si somma il rimorso per avere coinvolto nell’impresa bellica il giovanissimo figlio che, dopo un lungo ricovero, non sopravviverà alle lesioni prodotte dalla guerra.
Un giorno, casualmente, Filiberto conosce il figlio di Fortuna, appassionato di storia romana, e, colpito dalla sua spiccata propensione per l’attività intellettuale, ne sostiene gli studi intensificando altresì il rapporto, che presto diventerà intimo, con la madre dopo averla coinvolta nell’assistenza della figlia Cristina, gravemente ammalata.
Da questo momento le vicende delle due famiglie si incroceranno in modo ancora più stretto: il fidanzamento di Libero e di Cristina segue l’interruzione del rapporto tra Fortuna e Filiberto a sua volta funzionale alla realizzazione del matrimonio dei due giovani: un matrimonio alla cui laboriosa preparazione partecipa soprattutto Fortuna, mentre la madre di Cristina, l’altera nobildonna Isotta, vi assiste con freddezza e distacco. Ma Cristina non arriverà all’agognata meta per il riacutizzarsi della tubercolosi ossea che la tormenta da anni, mentre Filiberto Orsatti, Giuseppe Guidi, Fortuna e Libero, da qualche tempo divenuto direttore del Museo delle navi di Nemi per i suoi meriti scientifici, saranno coinvolti nelle tragiche vicende che la guerra voluta da Mussolini comporta per l’Italia, stretta tra i due fuochi degli ex alleati tedeschi e degli ex nemici anglo-americani impegnati in scontri ed azioni belliche devastanti.
Il riemergere dal gorgo di violenze di Fortuna e di Bibo, nonostante le ferite da questo riportate nell’incendio del Museo delle navi, indica la propensione dei personaggi e dell’autrice per la prosecuzione della vita nel ricordo di esperienze maturate nel tempo anche dai propri ascendenti.
Donna Fortuna e i suoi amori può essere definito un romanzo di formazione: intenso ed avvincente, nel serrato svolgimento della storia personale della coraggiosa protagonista evidenzia i connotati dell’epoca in cui ne è ambientata la vita avventurosa.
Domenico Tomassetti
Una vita come la tua
Bertoni Editori
Presentato da
Giulio Marcon
Propongo per la prima volta un romanzo al Premio, perché la lettura di Una vita come la tua di Domenico Tomassetti è stata una rivelazione. «Che altri si vantino delle pagine che hanno scritto; io sono orgoglioso di quelle che ho letto». Raramente, ma può capitare, si è orgogliosi anche di quello che scopriamo, leggendo il primo romanzo di un autore che però ha una solida esperienza nell’intrecciare le storie, maturata nella scrittura per il cinema.
In una Roma complice e perduta, un avvocato, che ha perso la memoria di una porzione della sua vita, si affida al figlio per ricercare il tempo dimenticato. Quello che scopre lo mette di fronte all’ineluttabile corruzione che contamina la vita degli adulti. Perché, come si legge nel libro, «le nostre scelte, quelle importanti, non sono lineari, né razionali come vogliamo credere. Seguono percorsi obliqui e, spesso, sono frutto di cedimenti progressivi». Così, tornato al mondo con una riacquisita e immeritata verginità, il protagonista è costretto a chiedersi se la nostra vita non sia in fondo nient’altro che la storia che «ne abbiamo raccontato non tanto agli altri, ma soprattutto a noi stessi» per trovare un senso alle cose, cercando un’ultima menzogna che coincide con la sua verità più profonda (e la riflessione finale, sulla memoria e sull’identità, è davvero sorprendente). Allo stesso tempo il figlio, che lo accompagna, ha lo sventurato privilegio di conoscere suo padre nella crudele visione delle sue debolezze.
Liberamente ispirato a recenti fatti di cronaca, in equilibrio tra il «mondo di mezzo» di Mafia capitale e l’apparente tranquillità di uno studio legale di Prati, il romanzo mi ha raccontato uno spaccato (senza sconti) di Roma, vista da chi, ogni faticoso giorno, cerca di sopravvivere al mondo della (in)giustizia. E lo ha fatto con uno stile solo apparentemente semplice – direi divertito e perciò divertente, che si fa leggere – ma sempre alla ricerca «della parola esatta e migliore», come è giustamente scritto nella motivazione di un premio vinto, riportata nella prefazione.
A differenza di altri esordienti, troppo spesso attenti solo al loro microcosmo, Domenico Tomassetti ha provato a guardare il mondo che lo circonda, intessendo storie che raccontano vite come le nostre, ma con gli occhi di uno scrittore. Non dovrebbe servire a questo la scrittura? «Una rappresentazione fallace della vita che, tuttavia, ci aiuta a capirla meglio».
Piero Trellini
L’Affaire. Tutti gli uomini del caso Dreyfus
Bompiani
Presentato da
Massimo Raffaeli
Fu il test d’ingresso del XX secolo e insieme la profezia dei suoi cataclismi ma innanzitutto fu ciò che divise rovinosamente a metà la Francia e, di riflesso, l’Europa: leggibile alla stregua di un documentatissimo libro di storia, L’Affaire di Piero Trellini è una vera e propria Opera Mondo, capace di tenere insieme in maniera appassionante vicende materiali e evenemenziali, fatti del costume e della cultura, modernariato e belle arti, documentaristica e narrativa tout court. La struttura plurale e la scrittura polifonica riadattano il modello della tavola di Warburg dove il dettaglio e la notizia minuta si connettono volta a volta al campo totale assecondando una procedura e uno stile che Piero Trillini ha avviati con La partita (Mondadori 2019), Danteide (Bompiani 2021) e che con L’Affaire porta a pieno compimento.
Valeria Tron
L’equilibrio delle lucciole
Salani
Presentato da
Vivian Lamarque
Proveniente dalla Val Germanasca, Tron ha dato voce alla sua gente e alla sua terra, alla comunità valdese e a un’intera cultura poco conosciuta. In un antico borgo, ora in stato di semi-abbandono, durante una tormenta di neve il ritorno di Adelaide, poche e lontane le luci delle case.
Il sottovoce del patois è forte richiamo. Quando risuona, il lettore inizialmente si giova della traduzione come di sottotitoli, col procedere può ignorarli, a fine libro ha imparato una lingua. E ripassato quella remota dei passi nel ghiaccio, tra le case di pietra, e quella della legna che brucia nelle stufe. Scrittura con forza, ricerca personale di una memoria collettiva (per me, leggendo, quella della mia originaria valdesità, ma questo non c’entra).
Avrei però titolato diversamente, senza lucciole. E, in patois: Meizoun, casa.
Francesca Veltri
Malapace
Miraggi Edizioni
Presentato da
Laura Massacra
Chi è davvero François, protagonista del romanzo di formazione Malapace?
Un eroe guidato da una fiducia cieca in un ideale, quello del pacifismo a oltranza, che nel tempo gli si ritorcerà contro come una tortura? Oppure un antieroe, un ignavo, un uomo senza qualità, un trasformista della prima ora che nasconde le sue debolezze in un credo morale astratto, per non affrontare di petto la vita?
Il romanzo di Francesca Veltri è un’opera sorprendente che ci conduce per mano nell’inferno delle scelte e delle decisioni, all’interno del campo di prigionia nell’autunno del ’44, dove il protagonista è detenuto con l’accusa di avere collaborato coi tedeschi, con il regime fascista di Vichy, benché sia stato precedentemente iscritto al partito comunista.
Nel campo di prigionia, François, tormentato dai ricordi e dai sensi di colpa, ripercorrerà a ritroso le tappe della propria esistenza, puntellata dalla volontà di perseguire, con le proprie azioni, i suoi ideali pacifisti, all’altare dei quali sacrificherà tuttavia amici e amori, finendo poi con lo sgretolare la sua stessa identità.
Sulla scorta di una robusta conoscenza del periodo storico nel quale è ambientato, e che approfondisce alcuni aspetti dell’evoluzione della sinistra francese a cavallo della Seconda Guerra mondiale, il romanzo esplode nelle mani e nel cuore del lettore il quale, anziché trovare risposte alla sua angoscia, che cresce e incalza lungo una trama fitta di bivi e interrogativi, finisce col mettere in discussione il suo stesso mondo interiore fatto di credenze, valori, idee.
Malapace è inoltre un romanzo che affronta un tema universale, sebbene di grande attualità, riassumibile nella domanda: «è legittimo invocare la pace a tutti i costi?», un interrogativo da affrontare solo se si è pronti a mettersi in discussione e ad accettare che anche un’ottima idea, se difesa in termini assoluti, può portarci alla morte.
Nessun commento:
Posta un commento