di Pierangelo Colombo

giovedì 14 giugno 2018

La Micia


A volte le persone più care compiono, loro malgrado, delle azioni che ci feriscono nel profondo, tanto più è forte l’amore che nutriamo per loro, tanto più bruciante sarà la delusione che ne trarremo. Il tempo saprà portare pace, riconciliazione, ma la cicatrice resterà per sempre.

 
La Micia


Oggi sembra così piccola questa casa. Un casolare perfetto, circondato da campi che, visti dagli occhi di una bambina, parevano infiniti. Il cortile in cui correvo libera, rinfrescata dall’ombra dei tigli; il portico movimentato dalle rondini che vi costruivano il nido, mentre l’aria profumava di fieno e ronzare di bombi. Il canto della civetta rendeva esoterica la notte estiva, mentre i gechi portavano fortuna, aggrappati sul muro accanto la finestra.
Casa dei nonni, che mi ospitavano durante le parentesi estive; vacanze da sogno, ad apprendere dall’università della natura ciò che sui libri non si trova. Casolare piccolo e vuoto, ora che anche gli ultimi mobili sono spariti, assieme ai rumori e ai profumi. Scomparsi come il cartello “vendesi”, che per mesi ha vegliato lo stabile disabitato. Dei nonni restano i ricordi e la vecchia credenza, che i nuovi inquilini hanno voluto lasciassimo. Il resto sono immagini ed emozioni, sussurri custoditi nella mia testa.
Richiudo l’uscio, respirando per l’ultima volta il profumo di fuliggine del camino. Abbandono nel salone la malinconia, e il rimpianto, di perdoni lasciati a mezz’aria. I bambini non hanno mezze verità, non conoscono sfumature: o sono tristi o felici, provano amore oppure odio. Amavo i miei nonni. Li amavo così tanto che, quando mi sono sentita tradita, l’odio è stato altrettanto viscerale. Un risentimento durato qualche settimana, ma che ha lasciato una ferita non ancora sanata.
Era l’estate delle mie nove candeline. Una vacanza come le precedenti, scandita da ritmi e abitudini ormai radicate: i nonni, io, e il mondo a mia disposizione. Nessuno sembrava accorgersi che stavo crescendo, nemmeno io; nessuno tranne la Micia.
La Micia era la veneranda gatta, matriarca del regno felino del circondario. Una perfetta macchina da riproduzione; non c’era gatto nei paraggi che non avesse sacrificato un pezzo d’orecchio o un occhio per conquistarne i favori. Il controllo delle nascite era amministrato dai nonni; il metodo, allora, lo ignoravo. La Micia, invece, ne era a conoscenza, quindi, cercava nascondigli dove partorire e svezzare la prole. Dal giorno del parto iniziava una lotta di spionaggio fra i due vecchietti e la gatta, una guerra fredda fatta d’appostamenti, depistaggi e pedinamenti. A volte, la Micia aveva la meglio e, allora, quattro nuovi gatti entravano nell’anagrafe dei randagi. La maggior parte delle volte, però, il fiuto dei contadini superava l’astuzia della genitrice.
Quell’estate, la Micia aveva visto qualcosa in me: una maturità cui affidarsi, o forse la possibilità di ricompensare i bocconi che, tratti dal mio piatto, le portavo sottobanco. Fatto sta che, in un pomeriggio di canicola, si era appostata sotto la finestra dove espletavo il supplizio dei compiti. Fu facile distrarmi: quattro miagolii ed ero già sul davanzale a chiedere di che necessitasse. Mancava dall’aia da due giorni, e il ventre svuotato e le mammelle penzolanti erano espliciti: una cucciolata era occultata in un angolo della fattoria. Da sempre mi sapeva sua alleata. Agendo di soppiatto, le procurai del latte e un pezzo di formaggio. Per alcuni giorni si ripeté la scena: stessa ora, stesso pasto, uno sguardo di riconoscenza e poi via, nel nascondiglio.
Il sabato, però, dopo lo sguardo riconoscente, fece per andarsene per poi bloccarsi; voltatasi verso di me, emise dei miagolii. Sembrava invitarmi a seguirla. Incredula, iniziai ad andarle dietro; ogni volta che mi fermavo, si girava miagolando. Sbalordita, la seguii in un giro che parve infinito. Fu nel capanno che, dietro a delle balle di fieno, trovai sei splendidi micini con gli occhi spalancati e la vocina implorante. La Micia gli si sdraiò accanto in un abbraccio di poppate. Guardava loro e poi me, in un gioco di sguardi fra l’orgoglio e la richiesta d’aiuto. Aveva dato alla luce sei piccoli: troppi per lei sola.
Ora che l’età ha cancellato ogni brandello dell’innocenza da bambina, non saprei spiegare come avvenne, ma allora fu facile comprenderne i pensieri. I suoi occhi parlavano: domandavano cibo e protezione. L’istinto le diceva che sarebbe stata l’ultima cucciolata.
I giorni successivi mi prodigai, con la massima cautela, per portare loro del latte, mentre per la Micia rubavo del parmigiano: avevo sentito nonna consigliarlo alla zia che allattava mio cugino. Furti che, però, non sfuggirono alla nonna; le domande si fecero incalzanti, difficile eludere la sorveglianza. Mi aggrappai alla fantasia inventando scuse verosimili; di norma non raccontavo bugie, specie a nonna, ma la posta in gioco era troppo alta: la Micia mi aveva affidato la salvaguardia dei suoi figli. Sembrava funzionare, credevo d’essermi perfezionata come agente segreto, ma, probabilmente, la nonna finse di non vedere.
Trascorrevo nel capanno ogni istante trafugato allo studio. I gattini crescevano a vista d’occhio. La Micia lasciava il nido per cacciare, e io mi sentivo una tata; imitando nonna, coccolavo, viziavo e adoravo quei batuffoli. Avevo dato loro dei nomi, suggeriti dagli atteggiamenti o dalle caratteristiche fisiche. Il mio preferito era Tigre: un vero tigrotto in bianco e nero, come si vedevano alla tivù di allora. Adoravo giocare con lui e gli parlavo, escogitando il modo di persuadere i miei genitori ad adottarlo. Non sarebbe stato semplice, ne ero consapevole, ma mi consolava la certezza che nonna non avrebbe resistito ai miei occhi dolci: l’avrei convinta a tenerlo. Tigre sarebbe stato il mio gattone nelle vacanze venture. Saremmo cresciuti assieme. Non immaginavo che, in pochi istanti, quel mondo perfetto si sarebbe mutato in una sorsata di fiele.
Settembre galoppava verso di me, portando lo spettro della scuola. I compiti si erano accumulati, costringendomi alla scrivania. Un pomeriggio, però, marinando lo studio, saltai dalla finestra per andare a trovare i micini. La nonna non faceva la sentinella sotto il portico; la trovai nel capanno. Entrando, mi accorsi subito di lei e nascondendomi, ne seguii le mosse. La vidi estrarre dal nascondiglio un gattino che, impaurito, con gli artigli si aggrappava al fieno. La Micia era fuori, a caccia. Non capii subito le intenzioni di nonna; pensai, ingenuamente, che la tenerezza del cucciolo l’avesse conquistata. Con gesti delicati, infatti, presolo in mano, lo voltò supino, quasi volesse accarezzargli il pancino. Il micio pareva apprezzare, anche se miagolava spaurito.
La mossa fu fulminea quanto agghiacciante. Fendendo l’aria, il braccio calò come una mannaia, portando la testa del piccolo, che porgeva dalla mano, a colpire una trave vicina. Silenzio. Il miagolio spento da un secco toc. Gesto che, non solo stroncava una vita, ma squarciava un vaso di Pandora nella mia anima, facendone scaturire una tempesta d’emozioni negative. Tradita e traditrice allo stesso tempo: non avevo saputo difenderli.
Abbassato lo sguardo, vidi i micini sul pavimento. Tigre era immobile. Il silenzio mi stritolò le tempie; avrei voluto scacciarlo con un urlo di rabbia, ma questo era bloccato, però, da un nodo alla gola. Uscii dal nascondiglio. Stringevo così saldamente i pugni da provarne dolore: speravo di svegliarmi dall’incubo. Vedendomi in lacrime, nonna mi venne incontro; mi strinse, chiedendomi spiegazioni. Domande che alimentarono la mia rabbia: non si rendeva conto del delitto compiuto? Veramente riteneva quella strage una cosa naturale? Più la respingevo, più cercava di abbracciarmi. Corsi via. Il gesto sbloccò la voce, che eruppe urlandole l’odio accumulato.
Smarrita, mi ritrovai fuori della campana di vetro dov’ero cresciuta: assaporavo il dolore e l’amarezza. La delusione, il tradimento di chi credevo perfetta. Nonna era amore, coccole, feste e Natale; era la dolcezza di pesca appena colta e ancora tiepida di sole. Con lei era confidenza e complicità, cioccolatini nascosti nel primo cassetto, all’insaputa dei miei. Era il bello delle mamme senza l’apprensività della mia.
Chiusa in camera, sentivo i miagolii strazianti della Micia che richiamava i piccoli. Miagolii che tormentavano l’anima; frustate nell’aria che mi laceravano, facendo lievitare l’odio nei confronti della nonna. Per due giorni la evitai come la peste; poi la telefonata ai miei, pregandoli in lacrime di venirmi a prendere.
Lasciai il casolare la domenica sera, chiudendo quella che diventò l’ultima vacanza in quel paradiso; la testa confusa dalle giustificazioni di mamma e papà, un saluto gelido ai nonni e un’ultima carezza alla Micia. Non dimenticherò mai lo sguardo afflitto di nonna. Non so chi ha sofferto di più, se io che perdevo la spensieratezza entrando nel mondo degli adulti o nonna, che perdeva la fiducia e l’adorazione della nipotina. Sentimenti che ho saputo cogliere saggiando l’esperienza della maternità. Certamente, il dolore maggiore lo provò la Micia. Non la rividi mai più. La trovarono una mattina d’inverno, rannicchiata dietro a delle balle di paglia. Pareva che dormisse.

di Pierangelo Colombo edito nella raccolta: Prospettive (2017)

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