La fiducia in se stessi è fondamentale
nell’intraprendere strade nuove, affrontare le nostre paure per superarle. A
volte capita di incontrare persone semplici, che quasi sfuggono alla nostra
attenzione, ma che, se conosciute da vicino, svelano tesori straordinari. Per
non farci sfuggire questi incontri, però, dobbiamo saper far cadere quegli
stereotipi che ci impediscono di guardare oltre l’apparenza.
Mille passi cominciano sempre da uno
«Manca
molto?» domanda Huso, affiancandosi a Bundi, il giovane guerriero che guida la
comitiva. Huso non è stanco: lui è un Turkana, pastori creati nomadi per un
territorio arido, dove l’acqua è un tesoro da guadagnarsi tutti i giorni. La
sua è piuttosto impazienza, brama di vedere il grande lago, che gli anziani del
villaggio descrivono come un mare di giada.
«Manca
il tempo necessario» replica Bundi, che, muovendo stizzito la lancia, intima al
ragazzino di tornare nel gruppo.
«Non rispondi perché ti
sei perso» ribatte Huso. «Ti credi un condottiero, ma sapresti perdere un
gruppo di capre cieche, legate fra loro e coperte di sonagli».
Bundi
ne afferra il braccio con una mossa fulminea, costringendolo a inginocchiarsi
e, fissandolo nelle pupille, lo sommerge di disprezzo. «Conserva l’arroganza
per il dottore, quando il coraggio ti lascerà solo, davanti ai suoi ferri».
«Non
ho paura del dottore!» sbotta Huso, stizzito. «Un giorno sarò un guerriero».
A sedare la diatriba
interviene Numa, una delle madri che accompagna il gruppo di ragazzini verso la
missione della Consolata. «Prima di farti guerriero» irride il ragazzino, «vedi
d’uscire vivo da questa situazione». Voltandosi, poi, verso Bundi, lo
redarguisce con sguardo torvo.
«Da
quando gli hanno dato una lancia, si è montato la testa. È una termite che si
crede uno scorpione» sbotta Huso. Sbruffando, rientra fra i compagni scortato
da Numa.
Vista da lontano, la
comitiva sembra fluttuare nella calura che, rimbalzando sul terreno, forma il
miraggio di una superficie liquida. Camminano compatti e disciplinati, diretti
a Loiyangalani sulla riva sud-occidentale del lago Turkana. A guidarli due guerrieri,
mentre in coda alcune madri portano i propri piccoli nel fagotto legato alla
schiena. Alla missione li attende il presidio medico per le visite e le
vaccinazioni.
Nell’ora
più calda sostano un una piccola oasi. Il sole arroventa i ciottoli sparsi sul
terreno riarso; una calura che penetra sino alle ossa e scalda i polmoni
attraverso l’aria che sa di polvere. Iniziando dai più piccoli, ognuno beve la
propria razione d’acqua, attento a non sprecarne.
«Dietro
quella collina c’è il lago» dice Numa, rivolgendosi a Huso. Il ragazzo ha
l’impulso di sollevarsi e correre per raggiungere per primo il culmine del
promontorio. Un desiderio represso, però, dalla consapevolezza del castigo che
avrebbe meritato.
Il
sole è di poco sopra l’orizzonte quando, scollinando, Huso scorge il lago
rimanendone sbalordito. Uno specchio d’acqua che, riverberando il celeste del
cielo, esalta il paesaggio lunare circostante. Appena increspata, la superficie
splende mandando una miriade di scintille. Una quantità d’acqua mai immaginata;
il colore ha qualcosa di magico, irreale: un turchese così limpido da far
credere che un pezzo di cielo sia precipitato nella vallata. Uno spettacolo per
chi non ha visto che pozze fangose. Huso ne è talmente assorto da non
accorgersi nemmeno del sopraggiungere di Numa.
«Layeni»
dice la donna, indicando un gruppo di capanne adagiate sulla riva. «Il
villaggio degli El Molo. Passeremo la notte lì».
«Il sole non è ancora tramontato, possiamo
proseguire» ribatte Huso, stizzito. Il pensiero d’accamparsi presso un
villaggio di pescatori, infatti, lo irrita quanto una manciata di formiche
rosse lungo la schiena. Lui fa parte di un popolo fiero: guerrieri che nulla
hanno da spartire con degli omuncoli che, anziché cacciare, mangiano pesce.
Meglio dormire all’addiaccio, che condividerne il bivacco.
Discendendo
l’altura, Huso osserva il villaggio alla stregua di una carogna d’animale.
Sparse a manciate, le capanne a cupola sembrano spuntare direttamente dal
terreno, come fossero funghi. Un nugolo di uccelli vola caoticamente
sfiorandone i tetti. Giunta nei pressi dell’insediamento, la comitiva è accolta
da una torma vociante di ragazzini che, ravvisando nei coetanei un’opportunità
di gioco, non s’attardano in convenevoli. Un baccano che infastidisce Huso. Irritato
dallo schiamazzo che si mescola alle strida degli uccelli, palesa il proprio
risentimento lanciando occhiate sdegnose verso gli ospiti, mentre i compagni si
mescolano a loro, rendendo indistinguibili le due etnie.
Schifato da una simile
promiscuità, s’allontana dirigendosi verso il lago. Il cielo è acceso dagli
ultimi raggi del sole, mentre il vento rinforza increspandone le acque. Una
brezza che stempera la calura del giorno, spingendo delle piccole onde a
smorzarsi sulla rena.
Fermandosi a pochi passi
dalla riva, scruta intimorito il confine mobile fra terra e lago. Prova la
sensazione di trovarsi sull’orlo di un dirupo; contrariamente all’aria, però,
l’acqua cela il vuoto. Il fondale si stempera nelle acque scure, come gli
spiriti nelle tenebre. Un pensiero che gli procura un brivido, lo stesso panico
provato quando, spostando un masso, aveva sentito il sibilo di un mamba nero; a
salvarlo era stata la prontezza di spirito e una corsa a perdifiato.
Inconsciamente,
arretra di un passo, come se il lago possa inghiottirlo in un sol boccone. Ha
paura, e ciò che più lo atterrisce è il non sapere affrontare la situazione;
suo padre gli ha insegnato a fronteggiare il terrore con il coraggio: un
guerriero Turkana non teme nulla. Ora, invece, trema come una femminuccia
davanti all’acqua.
«Come ti chiami?» domanda
una vocina, che giungendogli alle spalle lo fa trasalire. Voltatosi, vede una
ragazzina dagli occhi grandi ed espressivi; i capelli raccolti in fini trecce,
una fossetta a dividere le sopracciglia. Le labbra carnose disegnano un sorriso
grazioso. «Io sono Maluum» si presenta.
«Huso»
risponde lui, asciutto.
«Vuoi
sentire Aban raccontare della caccia allo yee?»
Huso
non è dell’umore giusto per ascoltare delle storie, specie su fantomatiche
cacce all’ippopotamo; ma non vuole restare solo. Alza quindi le spalle,
dissimulando ogni interesse.
«Domani
è il secondo giorno dopo la luna nuova» spiega Maluum. «Gli uomini del
villaggio partiranno verso nord, per la caccia allo yee».
Remissivo,
Huso segue la ragazza attraversando il villaggio. Alcune donne stanno
preparando il materiale per la spedizione: tabacco, pelli conciate, una coperta
di lana, carne e pesce secco, il tutto legato in un fagotto. Gli uomini,
invece, predispongono corde, coltelli e lance munite di arpioni. Gesti che
affascinano Huso, alleggerendone la tensione. Non ha mai visto un ippopotamo,
ma ne ha sentito parlare: quando uno yee entra in acqua, il coccodrillo
si allontana; eppure, persino il leone teme il coccodrillo.
«Quella
è la capanna di Aban» spiega Maluum, indicando il bivacco dove sono radunati
altri ragazzi. «É stato un grande cacciatore».
Seduti a semicerchio, i
ragazzini reggono una ciotola da cui pescano la cena, nell’attesa che l’uomo
inizi il racconto. Huso, unendosi a loro, mette subito a fuoco la figura esile
del narratore: un vecchio ricurvo, dalla pelle e gli occhi bruciati dal vento e
dal sole. Stenta a credere, però, che quell’omino possa aver cacciato un
animale più grande di una suricata.
«Ero
ragazzino, quando ho partecipato al mio primo Tuul» esordisce il
vecchio. Le mani degli uditori si fermano a mezz’aria, le bocche semiaperte. «Tuul
è la caccia sacra: solo all’uomo più coraggioso è dato di uccidere lo yee.
Quel giorno, mio padre era fra i cacciatori che marciavano lungo la riva,
mentre io, ancora giovane, ero d’aiuto sulla Kadish, la grande zattera».
Huso è rapito dal
racconto, nemmeno s’accorge che Maluum gli porge una ciotola di pesce stufato.
La fantasia è proiettata nell’immaginarsi fra i cacciatori, durante la marcia,
nella preparazione degli arpioni serrati alla lancia.
«Il
secondo giorno avvistammo il branco, un gruppo numeroso che riposava vicino
riva. Con la zattera ci fermammo a distanza, osservando la scena. I cacciatori
si mossero lentamente; scivolando nel lago, lasciarono solo la testa fuori
dall’acqua. Uno dopo l’altro, si avvicinarono alla preda formando un
semicerchio per bloccarne la fuga. Quando gli furono abbastanza vicini,
iniziarono a gridare: “Too! Too!”» urla, facendo trasalire i ragazzini. «L’animale,
enorme, attaccò i cacciatori per aprirsi un varco. Mio padre gli era davanti e
io avevo paura, imploravo i nostri avi che gli facessero salva la vita. Lo yee
spalancò la bocca per azzannarlo. I compagni cercarono di colpirlo, ma mio
padre non si mosse, aspettò la distanza giusta e, con tutta la sua forza, gli
conficcò l’arpione nel collo». Mima la scena. «Il primo che riesce ad arpionare
la preda ha diritto di ucciderla. Così, mentre i compagni lo colpivano per
sfinirlo, mio padre si tuffò in acqua per trafiggerlo raggiungendogli il cuore.
Doveva stare attento, però; la bocca dello yee è molto pericolosa. Mio
padre era immerso, mentre lo yee si dibatteva; l’acqua ribolliva
tingendosi di sangue. I compagni tesero le corde, per costringere l’animale verso
riva. Io strinsi così forte la fune della zattera da far sanguinare i palmi
delle mani. Il tempo passava e mio padre non riemergeva; i compagni invocavano
gli spiriti: Apaa, Swaa e Swoi, finché, chiudendo le fauci con
uno schianto, l’animale non s’immobilizzò. Trattenni il respiro, sino a quando
non vidi mio padre riemergere con le braccia alzate lanciando un urlo per
liberare la gola dall’acqua».
Huso
fissa il vecchio con occhi trasognati; è sbalordito, mai avrebbe immaginato
tanto valore in semplici pescatori. Una riflessione che attizza un moto
d’orgoglio: come può lui, un Turkana, mostrare meno coraggio di un El Molo?
Come può aver paura dell’acqua?
Terminato
il racconto, i ragazzi lasciano il bivacco. Huso affronta pensieroso le tenebre
appena stemperate da uno spicchio di luna. Maluum, che lo segue, sembra
coglierne il tormento.
«Sei
triste?» domanda, posandogli la mano sulla spalla.
«No,
perché?» dissimula Huso, inorridendo al pensiero di confidarsi con una femmina.
Il silenzio che segue, però, non fa che esasperarne l’ansia. «Sei mai entrata
nel lago?» domanda, rompendo gli indugio.
«Sì.
Ogni volta che aiuto mio padre a tirare le reti».
«Non
hai mai paura?» replica titubante.
«Perché
dovrei?» risponde lei, sorpresa. «Tu hai paura?» Intuisce il problema.
«Io? Figurati, non ho
paura di nulla, io» replica Huso, stizzito. Maluum non insiste, ma afferrando
la mano del ragazzo lo accompagna sino alla riva. La notte cela il lago
assorbendone la forma; un lieve sciabordio sulla rena segnala la presenza dell’acqua.
Il vulcano Nabuyaton, “stomaco d’elefante”, staglia la propria figura
sull’orizzonte segnato dalle stelle.
Tenendo
la mano di Huso, la ragazza immerge il piede nell’acqua; lui vorrebbe
divincolarsi e fuggire, ma perderebbe ogni dignità. Maluum fa un altro passo,
tirandoselo a sé. Trattenendo il fiato, Huso immerge il piede sentendone
scaturire un brivido.
«Anche
mio fratello aveva paura del lago. Non c’è nulla di male» sussurra Maluum.
«Fidati di me, gli ho insegnato io a nuotare in una notte come questa. Meglio
al buio, perché se una cosa non la vedi, vuol dire che non c’è. E se non c’è,
non devi averne paura».
Huso
non comprende il discorso, ma la sua voce tranquilla lo conforta. I denti
battono forte: non è soltanto l’angoscia d’essere risucchiato nel buio; i
brividi di freddo si fanno violenti. Maluum gli afferra l’altra mano,
trascinandolo al largo.
Huso cammina lentamente,
sentendo le pietre lisce sotto i piedi; il livello dell’acqua sale ad ogni
passo. Lambisce prima le ginocchia, l’inguine, la vita; quando arriva al
torace, sentendo mancare il respiro, il ragazzo oppone resistenza. Maluum lo
tira con forza, portandolo sino ad avere l’acqua alla gola.
Fermandosi, Huso avverte
un tepore piacevole, mentre una forza invisibile lo spinge verso l’alto.
Sensazioni contrastanti fra paura e quiete. Per un istante, l’ansia ha il
sopravvento; la sensazione che l’acqua si stia infiltrando nel proprio corpo fa
scaturire un pensiero: quello d’essere un grumo di terra che, gettato in acqua,
vi si stempera dissolvendosi.
Un brivido lo scuote.
Maluum lo percepisce, e gli stringe forte la mano. «Lasciati andare, come per
dormire» sussurra. Huso è teso, l’idea di lasciare la presa lo terrorizza.
«Fidati! Ci sono io. Un passo alla volta» lo incoraggia.
Combattuto
fra paura e orgoglio, Uso si costringe a sollevare le gambe, ma è rigido e la
testa finisce sotto. Beve una sorsata d’acqua sapida di minerali e, annaspando,
riemerge mordendo l’aria.
«Prova
adesso» sussurra Maluum, facendogli leva sui lombi. «Tranquillo, respira piano
e lasciati andare». Sempre sussurrando, intona un canto che parla di uccelli,
di stelle e una nuvola che volle farsi pioggia. La voce è così dolce da
smorzare ogni pensiero nella testa di Huso, come una fiammella che scaccia le
tenebre.
Rilassatosi, si ritrova a
galleggiare, mentre l’aria fresca gli solletica la pancia. Egli stesso è il
confine fra lago e cielo. “È come volare” pensa; nessun contatto con il
terreno, fluttua come una piuma. Il pelo dell’acqua gli accarezza le guance,
sussurrandogli nell’orecchio lo sciabordio. Non ha più paura; anzi, è
sbalordito, leggero anche se impacciato. Ascolta il proprio respiro, il battito
regolare del cuore ora mansueto, senza le crisi sempre più ricorrenti dove,
senza ragione, esplode in una corsa zoppa, come fosse la fuga di una gazzella
con la zampa ferita. Un cuore malato che lo vorrebbe guerriero ma, nello stesso
tempo, gli impedisce di correre o di fare grandi sforzi senza cadere svenuto.
Maluum toglie la mano da
sotto la schiena; Huso si sente mancare. Lei lo rassicura: «Sst! Respira
lentamente. Guarda le stelle e non pensare a nulla».
Huso
le stringe la mano, che sente liscia e calda. Poi, la percepisce galleggiare a
pelo dell’acqua, con la stessa delicatezza di una foglia. Per un istante, sente
un desiderio far breccia nell’animo: trattenere quel momento il più a lungo
possibile. Non desidera più farsi grande il prima possibile, andare a caccia e
diventare un guerriero rispettato e onorato dalla propria gente. Quello che il
suo cuore desidera è stare lì, immobile, a mirare il creato. Vorrebbe non
lasciare mai la mano di Maluum, mano calda come una focaccia cotta al sole, e
ascoltarne la voce cantare altre canzoni.
«A
cosa stai pensando?» chiede lei, con un filo di voce.
«Non
penso a nulla» s’affretta a rispondere, vergognandosi dei propri pensieri.
Trattenendo
ogni altra parola, i ragazzi guardano le stelle, gli animali, gli eroi che
ricordano nel firmamento.
«Sveglia
dormiglione!»
La
voce di Numa s’intrufola nel sogno di Huso, sbriciolandone ogni possibile
memoria. Ridestandosi, fluttua nel sottile confine fra sogno e realtà. I
ricordi riaffiorano come bolle nell’acqua. Avverte qualcosa stretto nella mano;
aprendo il palmo, scopre una conchiglia: un dono di Maluum. Stenta a credere di
provare malinconia all’idea di lasciare il villaggio, così come gli è difficile
ammettere che Bundi ha ragione: il pensiero d’affrontare il dottore lo
atterrisce più del lago.
«Maluum!» esclama,
balzando in piedi. Corre verso il centro del villaggio. Chiamandone il nome,
cerca la ragazza. Vorrebbe salutarla, prima di lasciare il villaggio; dirle
quel grazie che, seppur occultato dall’oscurità, l’orgoglio aveva trattenuto in
gola.
«Buona
giornata». La voce di Maluum lo coglie nuovamente alle spalle, facendolo trasalire.
Seduta per terra, macina del grano fra due pietre. Il sorriso le illumina il
volto. Huso dimentica le parole che avrebbe voluto dirle. La guarda afono,
ritto come una canna seccata al sole.
«Partite?»
domanda lei, rompendo il silenzio. «Al ritorno passerete ancora per il nostro
villaggio?»
«Certo!» risponde Huso;
non ne è sicuro, ma la speranza di rivederla è tale da spingerlo a farle una
promessa. «Torneremo, anche perché devo ancora conoscere tuo fratello». Si trae
d’impaccio temendo d’essersi compromesso.
Maluum
sorride, maliziosa. «Io non ho fratelli, ma due sorelle. Gli anziani, però,
dicono che lo straniero è come un fratello che non hai mai incontrato».
Huso
la guarda torvo; per un istante si sente raggirato. Si china, immerge l’indice
nella farina che porta alla bocca e ribatte con un altro detto: «Le donne sono
le trappole del diavolo».
«Mille passi cominciano sempre da uno» risponde lei.
di Pierangelo Colombo, edito nella raccolta: Prospettive (2017)
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