di Pierangelo Colombo

giovedì 12 aprile 2018

Diritto all'infanzia. Il sogno di Srey


Secondo i dati diffusi dall'Unicef, sono 150 milioni i bambini che, nel mondo, sono costretti a lavorare rischiando la propria salute fisica e mentale. Bambini tra i 5 e i 14 anni, soprattutto nei paesi in via di sviluppo dove, circa il 13% di tutti i bambini e i ragazzi in quella fascia di età, sono costretti a lavori estenuanti. La più alta percentuale si trova in Africa subsahariana. In Asia meridionale, il 12% di loro, nella stessa fascia di età, svolge lavori dannosi. In Asia Meridionale sono 77 milioni i ragazzini che lavorano. In Pakistan l’88% ha tra  7 e 14 anni; in Bangladesh sono il 48%, in India il 40% e in Sri Lanka il 10%. É l'Asia il continente dove il lavoro infantile rappresenta un vero modello produttivo, in genere nel settore cosiddetto informale, cioè del lavoro nero: piantagioni, concerie, cave, miniere, laboratori tessili e di giocattoli, fornaci, edilizia. Fenomeno a cui contribuisce la delocalizzazione operata dalle multinazionali occidentali.
In Africa lavora un bambino su tre, prevalentemente nell'agricoltura familiare. In America Latina lavora il 15 - 20% dei bambini al di sotto dei 15 anni, in prevalenza nel settore agricolo, ma anche nelle miniere e nelle fabbriche d'abbigliamento.
Numeri impressionanti, che dovrebbero farci riflettere, perché nulla al mondo può essere più importante del diritto all’infanzia.
Tema a cui dedico questo mio racconto breve. Buona lettura.


 

Il sogno di Srey


 Camminando con la leggerezza di un uccellino, percepì il soffice tappeto d’erba rinfrescata dalla rugiada. Steli robusti e fibrosi ne solleticavano le caviglie e una brezza leggera scompigliava i sottili capelli nero corvino.
Il sole indugiava dietro le colline, mentre il fiume attraversava sinuoso la pianura, rispecchiando le cangianti tinte rosate dell’alba. Una brezza silenziosa increspava la morbida superficie delle risaie, come mano invisibile che, accarezzando i teneri steli, disegnava fluide onde che si rincorrevano.
Srey iniziò a correre, attraversando i campi. Respirò a pieni polmoni quell’aria dolce e frizzante che gli solleticava il naso; le braccia aperte a cogliere la sensazione di libertà, di piacevole fatica.
Correva come un giovane puledro, i passi sempre più lievi, quasi a sfiorare l’erba e il terreno soffice appena dissodato. Era libero, come il vento, la pioggia, come un uccello, i raggi del sole, come la felicità, un urlo sfogato a squarciagola. Libero e vivo, perché la libertà è vita.

Srey si sveglia di soprassalto. Affannato, si sforza di mettere a fuoco la memoria: fatica a capire dove si trova. Realtà che subito, però, si palesa dinanzi ai suoi occhi, gettandolo in una cupa desolazione. Abbandona mestamente il dolce sogno che per qualche istante ha saputo alleviarne la prigionia. Un miraggio che, come le ali di un gabbiano, ha portato la sua anima nella terra natia.
Il mondo reale riemerge dal nulla, riavvolgendo la sua vita in una cappa d’aria soffocante. Il frastuono notturno di una città mai vista filtra attraverso la finestrella, troppo alta sulla parete per sbirciare. L’odore di collante e cuoio che impregna l’angusta stanza lo aggredisce come una belva selvaggia in agguato. Effluvio penetrante che, attraversando la pelle, si spinge sino ad avvolgerne l’anima in spire opprimenti.
 Stipati nell’angusto tugurio, altri quattro bambini come lui, stesi a terra fra tavoli, pezze di gomma e barattoli di colla. Somaly è arrivata da poco; gli occhi neri come la notte senza luna hanno pregato invano déi che sembrano averla dimenticata. I lunghi capelli di seta, imprigionati in una crocchia per non dar impaccio nel lavoro, chiedono libertà. Piange sommessamente, sfogandosi prima che arrivino i padroni a dar inizio all’ennesima giornata di sudore. Piangere rallenta i movimenti, la produzione si fa scarsa e alla sfortuna di essere una femmina non può permettersi di sommare la lentezza. Troppe le bambine carine che Srey ha visto passare fra queste pareti color tabacco bruciato. Bambine che restano poche settimane; altri padroni, dallo sguardo da rettile, vengono a comprarsele trasformandole in donne nel modo più orrendo.
 Srey ha perso il conto del tempo, tutti i giorni sono uguali: dall’alba al tramonto a incollare scarpe. Non sa leggere, e ignora la propria età: parecchio tempo è trascorso da quel giorno in cui sua madre gli aveva detto dei suoi otto anni. Era un buon contadino, amava il lavoro nei campi. Malgrado non fosse andato a scuola, sapeva riconoscere tutti i semi, dalla tapioca al peperoncino.
A volte, la notte gli capita di non riuscire a chiudere occhio: la fatica è così pesante da scacciare persino il sonno; ripensa allora a quel sacchetto di sementi costatogli un sacco di patate  coltivate nel suo orticello, dietro la capanna. Il commerciante gli aveva assicurato che ne sarebbero nati dei pomodori grandi come il cuore di un bue: senza semi e dalla polpa così densa e saporita da non crederci. Srey pensa ora a quei semi, alla partenza frettolosa senza che gli fosse concesso il tempo d’interrarli.
Il padre, partito pescatore, era sparito un mattino lasciando dietro di sé odore di alcol, cinghiate e debiti. Un giorno, la madre disse al piccolo Srey che sarebbe dovuto andare a lavorare in città. Gli occhi, due piccole foglie d’alloro selvatico, le si riempirono di lacrime nel crepuscolo di quel saluto; lui non disse nulla, limitandosi a baciarle le guance, annusando per l’ultima volta quel suo profumo di erba e farina di segale.
 A rimpiazzare l’umida e profumata terra sulle sue mani v’è ora il mastice, sostanza che odia: appiccicandosi alle dita, ne rallenta i movimenti e gli regala le botte degli aguzzini. Inoltre, ha un odore acre, pungente, che gli impedisce di respirare in quelle pareti strette, scure e sporche. Contrariamente a Somaly, però, lui non piange: ora è un uomo, non più un bambino, anche se fatica a discernere la differenza fra i due termini. Della sua fanciullezza ha soltanto lievi ricordi di carezze e frammenti di una ninna nanna, che sua madre cantava in un tempo troppo remoto per averne delle immagini. La paura più grande di Srey è quella di vedere il volto della mamma dissolversi nella nebbia dell’oblio, assieme al ricordo delle sue mani: piccole, forti e callose per lavorare la terra. Dimenticarsi del villaggio o il profumo di focaccia.
Passa le giornate chino sul tavolo da lavoro; poche le parole che la sera scambia con i compagni. Stanchi e malinconici, mangiano assieme un pugno di riso nel desiderio di prender sonno al più presto. Lui ha un segreto che lo aiuta a sopportare la prigionia: se durante il giorno pensa intensamente al suo villaggio, la notte è sicuro di ritrovarlo in sogno, assieme alla figura di sua madre china sul tramonto; così fragile e minuta da sembrare una bambina. In un abbraccio ne riassapora la ruvidezza della veste: juta che pare tramutarsi in seta pura sentendo il fiato solleticargli la nuca.
Srey sogna intensamente, perché a forza di sognare la realtà può essere cambiata. Sogna di tornare un giorno a piagarsi le mani arando il terreno, rompersi la schiena seminando e trapiantando le piante di riso; il sole che ne arroventa la pelle durante il raccolto, mentre il vento ne dissecca gli occhi, ormai senza lacrime. La fame a rammentargli quanto sapore ci sia nascosto dentro un piatto di patate, mentre il freddo rievoca quanto calore possa elargire una coperta rammendata. Avrebbe sofferto, lottato e pianto ancora, forse, ma sarebbe stato libero. Libero di crescere e faticare. Libero d’amare sua madre, sospirandone una carezza, un rimprovero. Libero di riascoltarne la ninna nanna, simile a un cucchiaio di miele. Libero di sentirsi un bambino.


Edito nella raccolta: Dodici semi di senape, 2014

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