di Pierangelo Colombo

giovedì 26 aprile 2018

Stregata dalla musica

La musica è formata da vibrazioni, non solo onde sonore che udiamo attraverso l’orecchio, ma vere e proprie vibrazioni che, espandendosi nell’aria, arrivano a noi e, attraverso la pelle, si diffondono nel nostro corpo arrivando sino al profondo dell’animo. La musica, come le emozioni possiede una grande gamma di sfumature; a volte cataloghiamo un sentimento nel modo più semplice, senza soffermarci a pensare. La felicità, per esempio, raggruppa quelle sensazioni che sono l’euforia, la trepidazione, la gioia, l’aspettativa, l’allegria, la soddisfazione. Lasciarsi avvolgere dalla musica significa imparare a discernere le sue sfumature, imparando, quindi, ad apprezzare le differenze che caratterizzano le emozioni. A volte, la musica si fa ponte, sostituendo parole introvabili perché ancora non esistono.




Stregata dalla musica


Aggrappato al soffitto come una ragnatela, un blasone sbiadito testimonia antichi fasti, mentre giovani addetti di sala, concitati nei preparativi, dribblano sedie vuote. I miei colleghi, meticolosi come chirurghi in procinto di operare, accordano i propri strumenti inseguendo un la, sospeso nell’aria come pulviscolo.
Ripongo il violino sul sedile, smaniosa di consumare la sigaretta anelata da settimane e mendicata a un collega. Quattro settimane, due giorni e tredici ore è durata la sofferta astensione al fumo. Ennesimo tentativo fallito di una volontà fragile e incoerente. Testimone ne è l’abito lungo che, stringendomi in vita, certifica i frequenti spuntini sbranati nel vano sforzo di sedare l’ansia, una belva asfissiante che so domare soltanto con la frusta della nicotina. L’inquietudine prende corpo nella mia mente: mani furiose che sparpagliano i pensieri come fossero cartacce; buriana dispotica che spazza ogni nota incisa sul pentagramma della memoria, strappandole dal rigo come foglie secche. Sto per cedere al panico: come un sub in debito d’ossigeno, ho bisogno d’aria fresca.
Il mio riflesso scivola fluido lungo la sinuosa lacca del pianoforte. Oltrepassando il grande camino, un leggero odore di fuliggine mi sfiora. La mano tremolante rovista nella borsetta, cercando l’accendino. Supero la finestra appena accostata, portandomi sul terrazzo. Lieve, una folata di brezza mi investe, portando con sé un anticipo dell’inverno imminente: aria profumata di foglie bagnate, di nebbia, di malinconia.
Pesano come macigni i mesi trascorsi dalla scomparsa di mio padre. Da quel saluto spentosi nell’asettica camera dell’ospedale. La sua assenza mi ha rivelato il metro di misura di quel gigante camuffato fra i nani, e adesso soffro un vuoto incolmabile lacerato da ricordi, un silenzio che nessun urlo umano può scansare. Rimorsi solidi e taglienti quanto il ghiaccio.
Il fischio di un treno fende l’aria e, come gli artigli di una civetta, pare afferrarmi, portandomi via. Seguendo il fumo della sigaretta rapito dalla brezza, l’anima plana fra la bruma del passato. Risalendo controcorrente lo scorrere del tempo, sfioro i placidi riflessi d’immagini ed emozioni. Minuscoli tasselli di un mosaico, come le note su di un pentagramma, si ricompongono formando una melodia cristallina. La soave musica di quell’età in cui è facile sognare e ancora possibile credere nelle favole. Età in cui credevo che mio padre potesse essere l’unico uomo della mia vita. A lui devo la passione per il violino, la forza di superare i momenti bassi, gli eterni esami al conservatorio. «La musica nella vita è come una fogliolina di basilico nella cioccolata» mi disse un giorno. «Non è essenziale: senza, la cioccolata sarebbe deliziosa comunque, ma la sua discreta presenza sa arricchirne l’aroma. Così è la musica: vibrazioni che accarezzano l’anima impreziosendo la vita.»
Quanto mi manca il suo sguardo fiero, gli occhi che infondevano coraggio senza l’uso di una parola. Ricordo il primo saggio, le suole delle scarpe nuove consumate dietro le quinte, la carezza prima di salire sul palcoscenico. Qualsiasi fosse stato il risultato, esibizione straordinaria o clamorosa débâcle, avrei avuto da lui un abbraccio colmo d’orgoglio. Lo stesso che ardeva nei suoi occhi stanchi la sera della prima al Carlo Felice come primo violino. Ancora convalescente dall’ictus che lo aveva messo al tappeto, contravvenendo ogni ordine dei medici e a mia insaputa, quella sera aveva voluto esserci: nemmeno i bombardamenti l’avrebbero fermato. Rammento il biglietto scritto con mano tremante di mia madre ad avvisarmi; la corsa alle quinte per sbirciare fra il pubblico; il cuore impazzito sino al sussulto nell’incontrarne gli occhi grandi. Quella sera detti me stessa, la mia anima si sciolse in musica.
Una magia avvolse la mia aurea, dalle prime battute fui una cosa sola con lo strumento: l’archetto era il mio fiato, mentre il violino le corde vocali. Le vibrazioni che emanava erano il mio canto d’amore. Il pensiero stesso si trasfigurò: la melodia prese il posto delle immagini, le parole furono soppiantate da quartine, ottave, semicrome, diesis, bemolli; non frasi, ma variazioni correvano nella mia mente. Ostinata, stillavo sino all’ultima goccia d’energia; esausta ma felice fluttuavo in una dimensione dove il tutto era sinfonia, dove Čajkovskij pareva avesse composto la partitura appositamente per me; un’estasi controllata a vista dagli occhi meravigliati del maestro.
Terminata l’esecuzione, mio padre si sorresse a mia madre nell’immane sforzo di mantenere l’equilibrio e coordinare le braccia in un applauso sgraziato. Il volto per metà offeso dalla paresi, i singhiozzi dettati da un pianto dirotto. Sembrava così piccolo e fragile: un bambino in una platea di adulti; avrei voluto scendere dal palco e stringerlo in un abbraccio. 
Un sussurro sfiora i ricordi, polverizzandoli; un bisbiglio che, risvegliandomi, mi riporta al presente e si fa dolce melodia, elevandosi alle mie spalle in un crescendo armonico. Una melodia   cristallina che può sgorgare solamente da uno strumento magico, rammentando la favola del pifferaio di Hemelin.
Un brivido mi pervade, consapevole che l’esecuzione superba è una dedica di Marco dai capelli color  rame, così carino e garbato.
Lusingata e commossa, indugio vincendo l’istinto di voltarmi a render grazie all’autore. Le note mi avvolgono nella serenata di Bach, scandita dal battito del cuore. L’emozione si fa solida, velando gli occhi di lacrime.
Mi volto lentamente, come una ballerina che, cinta dal compagno, compie una mezza volta en dedans. Gli sguardi si cercano, si toccano nell’istante di una quartina annullando l’universo. La musica si fa ponte, sostituendo parole introvabili perché ancora non esistono.
Abile giocoliere, Marco si esibisce in fraseggi arditi: modella come creta la serenata sino a trasformarla in una ballata bretone, dove la gioia di vivere esplode con vigorosa energia. Le note fluttuano nell’aria come polline, estasiata, mi lascio stregare dalla musica: il corpo, con inaudita naturalezza, sembra fluttuare nello spazio inseguendo la musica come una gitana; movenze fluide, spensierate, sensuali.
Onorato da tale omaggio, Marco suona più forte, soffiando nella boccola non aria, non respiro, ma puro amore.


Di Pierangelo Colombo Edito nella raccolta Dodici semi di senape (2014)

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