La Valle d’Intelvi
è per molti chilometri terra di confine tra l’Italia e la Confederazione
Elvetica, un territorio dove l’attività di contrabbando è stata sempre presente
nelle abitudini della popolazione locale. Farina, uova, riso da portare in
Svizzera fino al 1947, poi ‘bionde’, cioccolato e orologi da portare in Italia
fino all'inizio degli anni ''70. Gli spalloni, come venivano chiamati,
si incamminavano lungo i sentieri portando la bricolla, cesta di paglia
intrecciata, sulle spalle portando un carico sino ai 30 kg.
Quella del
contrabbando è una storia che ha contraddistinto una valle affamata e
abbandonata a sé stessa. Ed è stato proprio il contrabbando a salvare la
popolazione dall'emarginazione e la valle dallo spopolamento. Un’attività che
ha creato dei briganti-eroi e i suoi martiri, uomini condannati dallo stato ma
assolti dalla gente.
Il racconto
che voglio dedicarvi oggi tratta di un contrabbandiere, un padre di famiglia
che, pensando al futuro del proprio figlio, ha fatto della bricolla la propria
croce.
La bricolla
Le pareti dell’osteria, come sponde di biliardo, rimbalzano
le voci fra i tavoli. L’aroma del caffè si mescola al fumo dei toscani, mentre
la miseria quotidiana si stempera nei bicchieri di vino. Il vino costa poco e
colma lo stomaco, sgravando i pensieri.
Mario, che siede smargiasso al tavolo della briscola, gioca
l’asso di bastoni spiazzando gli avversari. Gli animi si scaldano: i commenti
schizzano nell’aria come schegge di granata.
Una folata di vento s’intrufola dalla porta, accompagnando
il viso paonazzo di un ragazzino. Una di quelle raffiche che, impreviste,
annunciano una buriana. Si smorzano i lamenti sulla pessima stagione, il
raccolto delle patate, le mogli, le suocere; immuni restano solo i santi e il
governo: le camicie nere hanno orecchie lunghe. Un brivido mi sale lungo la
schiena sino alla nuca: le cattive notizie corrono veloci come caprioli,
proprio come le gambe dei ragazzini che, a quest’ora, dovrebbero essere a
letto.
«Hanno preso Antonio!» annuncia ansimante. «Giù al ponte. I
finanzieri li stavano aspettando, hanno preso tutti!»
Le carte gettate sul tavolo chiudono la partita; Mario
lascia l’osteria, trascinandosi dietro il messaggero.
«Gan
ciapà Ton?» chiede esterrefatto Cinto in dialetto che, duro e sbrigativo
come noi, gente di montagna, taglia con una falciata il superfluo.
«C’è un Giuda in paese!» sentenzia gelido
Aldo.
«No. Impossibile» ribatte Cinto.
«Ma non hai sentito? Li stavano aspettando
al ponte!»
«La miseria è cosa grama» intervengo,
condividendo il duro giudizio. «La fame tira fuori il peggio della gente.»
Lascio l’osteria colma di congetture e dibattiti. Attraverso
il paese con passo felpato. Percorro la via acciottolata stretta fra le case
mollemente addormentate sul pianoro; da una stalla esce il vociare di chi, come
la sacra famiglia, s’attarda godendosi il tepore. Il vento di Breva scivola
lungo le vie, portando l’umidità raccolta sul lago. Quel lago che, chiudendo la
valle, pare sbarrarci la via di fuga, mentre le montagne alle nostre spalle ci
rammentano che siamo gente di confine, dimenticata. Dicono che ora siamo un
impero: l’Italia fascista ha conquistato l’Africa, ma qui, a casa nostra, manca
tutto.
In testa batte un pensiero fisso: Antonio
dietro le sbarre. Penso alla famiglia, a Mario, caricato di altre bocche da
sfamare. Con un brivido associo subito mia moglie, mio figlio Francesco che, di
sei anni, starà sicuramente dormendo. Chi baderà a loro se venissi arrestato?
Fare lo spallone è stata una scelta
obbligata, preferivo di gran lunga la dura vita d’alpeggio. Ma fare il
contrabbandiere è l’alternativa a emigrare. La nostra valle è una vacca dalla
mammelle secche, e il latte che concede non sfama tutti.
Penso alla mia Bricolla nascosta nel fienile, al carico di riso e sale, a quelle
maledette galline che non la finiscono di fare uova, impedendo il rinvio
ulteriore del viaggio.
Pensieri che, simili a gendarmi, scortano
i miei passi finché, aperto l’uscio di casa, un’ultima folata di Breva mi
spinge dentro come un genitore che invita un ragazzino a ritirarsi, piantandola
con le stupidaggini.
Nessuna differenza fra la temperatura
esterna e quella interna: la legna è preziosa, meglio conservarla per il vero
freddo, quello che morde. Annamaria è sotto le coperte, che si gode il calore
del proprio corpo. Cerco di non far rumore, aggirandomi per la camera come un
gatto. Infilandomi nel letto, trovo un abbraccio di tepore avvolgente.
«Tutto bene?» bisbiglia, allertata da un
sesto senso.
«Han preso Ton» rispondo, suscitandole un
tremito. «Domani parto» sentenzio, senza lasciarle il tempo di assimilare la
notizia. «Da solo. Prendo il sentiero della mula, è il meno pattugliato dai
canarini.»
Proprio non mi riesce chiamarli ‘finanzieri’.
Annamaria si stringe a me; conosce il
codice, sa bene che ogni parola di persuasione sarebbe vana. Da buona moglie,
accoglie le informazioni sapendole utili in caso non mi vedesse tornare. Non
spreca tempo e fiato in piagnistei, ma inizia subito a pregare in silenzio.
Preghiere che sospende quando la mia mano scivola sul suo ventre. Mi si concede
con trasporto, come l’amante del soldato destinato al fronte. I nostri respiri
si fondono in un mantice intenzionato a soffiar via i cattivi presagi.
Parto che è ancora notte; sulla tovaglia
ho lasciato il caffè avanzato e alcune briciole di pane nero. La croce di legno
che forma il telaio della bricolla
preme sulla schiena. Ognuno ha la propria croce, diceva sempre mio padre. Son
peccatore, certo, malfattore, ma la legge degli uomini non è quella di Dio.
“Date da mangiare agli affamati” ha detto, e quello che faccio sfama diverse
famiglie.
Salendo il sentiero, il gelo mi viene incontro, le mani a
conca a scaldare il naso con il fiato. Il lucore dell’alba scivola dal cielo
d’oriente, mentre la luna, compiuto il proprio dovere, si ritira dietro il
crinale roccioso, lasciandomi solo con le stelle e i pensieri. Con il bastone
tasto il tracciato, mentre l’acciottolato gelato crepita smosso dai passi
attutiti da pedule di juta. Tracciato che pare aggrappato al fianco della
montagna come un rampicante. Una vecchia mulattiera battuta da pastori e
cacciatori di frodo.
A metà del pendio, mi appoggio al tronco
rugoso di un vecchio susino, le gambe molli e le ginocchia dolenti; non è il
carico che porto o la strada scoscesa a pesare, ma un senso di vuoto, di
frustrazione, d’impotenza. Un gelo surreale penetra sino alle ossa,
irrigidendole; non mi stupirei di sentirle crocchiare.
Scosso da un brivido, riprendo il cammino
a passo spedito, quasi a seminare il senso di oppressione che pare braccarmi
come un segugio. Un peso sul petto mi affanna: non voglio questo schifo per mio
figlio. Ho giurato di lastricare con il mio sangue questi sentieri pur di
procurargli un passaporto per il futuro. Lontano da questa valle, questo
paradiso arido, lontano dai lupi e dagli agnelli, dall’avvolgente calore del
focolare e il gelo della fame, dai ciliegi in fiore e le croci al campo santo.
Il latrato di un cane mi coglie alle spalle, raggelandomi: una
pattuglia. Se quel bastardo mi fiuta, sono spacciato; non ci sono nascondigli
da qui alla baita del Casson. Tre chilometri di arrampicata su questa montagna
così grande da riempire il cielo. Riprendo il cammino, incespicando di
continuo; mi aggrappo al bastone come alla fune di una cordata. L’alba tarda;
prego non faccia giorno mentre maledico le tenebre. Non penso a nulla, quasi
che il pensare sprechi fiato rallentando la corsa.
Inciampo ancora e cado, gravato dal peso;
il ginocchio batte su di una pietra, la fitta arriva dritta al cervello. Mi
rialzo e, zoppicando, riprendo la fuga, mentre il sangue caldo cola lungo lo
stinco. La disperazione acuisce la vista, scorgo il sentiero nel buio come
fossi una lince.
“Francesco… Francesco… Francesco…”
Il cuore batte il ritmo, spingendo avanti
le gambe. I latrati si calmano, per poi tornare più vicini: il vento è
traditore. Un’ondata che, facendomi barcollare, mi getta nuovamente a terra
sullo stesso ginocchio. Bestemmio; la mano corre al falcin appeso alla cintola: se recido le cinghie della bricolla, nessuno può starmi dietro
lungo i ghiaioni. La lama preme il cuoio, un colpo secco e sarei libero. Questo
zaino, però, contiene la mia casa, mattone su mattone: ogni chicco di riso,
grammo di sale, ogni uovo è un debito che non saprei ripagare.
Mi rialzo, la ferita al ginocchio guizza
sangue come una fontanella. Strappo un lembo della giacca per tamponarla.
Riprendo la corsa, anche se è solo un’illusione: sembro un mutilato in preda
alle convulsioni. Barcollo, il ginocchio cede, scagliandomi a terra ai piedi
del crocefisso di legno: piantato a sorvegliare il pendio che sovrasta il
paese.
Aggrappandomi al legno, mi rialzo. La
gola mi duole per l’affanno, mentre il torace pare non trattenere i polmoni. Il
cuore é impazzito: un tamburo da cui partono delle fitte che si propagano lungo
il braccio sinistro. Un conato di vomito mi piega in due. Sbatto il muso sul
Cristo. Avvampo di calore: il crocifisso è caldo. Le ginocchia cedono, mentre
il latrato, ormai prossimo, pare svanire nel vento.
Mi ritrovo in ginocchio a destra del
Cristo, come uno dei ladroni. Privo di forze, mi lascio andare, cadendo supino.
La bricolla attutisce il colpo; la
croce del telaio preme sulla schiena. Un calore che scioglie ogni pena,
un’ondata che fonde il mondo intero: tutto si fa liquido. Non percepisco più le
membra, mi sento un brodo tiepido che cola nel terreno diventandone parte.
Perdo il controllo di me stesso. Ho sete. I latrati sono svaniti, ora restano
silenzio e immagini: mio padre, mia madre, Annamaria, Francesco.
Mio figlio è un istante che si fa eterno,
un filo di seta che mi ancora a questa terra. Sprofondo in una neve ovattata e
tiepida, ma non provo conforto: un gelo rovente mi tortura, pensando di perdere
il suo futuro. Non voglio abbandonarlo. Devo ancora metterlo in guardia sulla
vita, istruirlo a pascolare le capre, tosarle, assisterle nel parto, cacciare i
caprioli.
Ho paura. Paura di tradirlo come si
abbandona un capretto sul bordo di un dirupo. Cerco, invano, la forza per riempire
dei polmoni inermi, che battono su di un cuore disertore. Non ho più nemmeno
una vita da barattare per un ultimo abbraccio, per quella carezza mai
data, soffocata da un assurdo pudore. I
suoi occhi, gli occhi di caramello di Annamaria, si stemperano nell’infinito
assieme al ricordo di parole lontane, sensazioni eterne e fugaci come il
pensiero.
Scivolo nella leggerezza. Sono stanco, ho
sonno. Ora riposo un po’, prima di ripartire.
di Pierangelo Colombo
Edito nella raccolta Dodici semi di senape 2014
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