Stregata dalla musica
Aggrappato al
soffitto come una ragnatela, un blasone sbiadito testimonia antichi fasti,
mentre giovani addetti di sala, concitati nei preparativi, dribblano sedie
vuote. I miei colleghi, meticolosi come chirurghi in procinto di operare,
accordano i propri strumenti inseguendo un la, sospeso nell’aria come
pulviscolo.
Ripongo il
violino sul sedile, smaniosa di consumare la sigaretta anelata da settimane e
mendicata a un collega. Quattro settimane, due giorni e tredici ore è durata la
sofferta astensione al fumo. Ennesimo tentativo fallito di una volontà fragile
e incoerente. Testimone ne è l’abito lungo che, stringendomi in vita, certifica
i frequenti spuntini sbranati nel vano sforzo di sedare l’ansia, una belva
asfissiante che so domare soltanto con la frusta della nicotina. L’inquietudine
prende corpo nella mia mente: mani furiose che sparpagliano i pensieri come
fossero cartacce; buriana dispotica che spazza ogni nota incisa sul pentagramma
della memoria, strappandole dal rigo come foglie secche. Sto per cedere al
panico: come un sub in debito d’ossigeno, ho bisogno d’aria fresca.
Il mio
riflesso scivola fluido lungo la sinuosa lacca del pianoforte. Oltrepassando il
grande camino, un leggero odore di fuliggine mi sfiora. La mano tremolante
rovista nella borsetta, cercando l’accendino. Supero la finestra appena
accostata, portandomi sul terrazzo. Lieve, una folata di brezza mi investe,
portando con sé un anticipo dell’inverno imminente: aria profumata di foglie
bagnate, di nebbia, di malinconia.
Pesano come
macigni i mesi trascorsi dalla scomparsa di mio padre. Da quel saluto spentosi
nell’asettica camera dell’ospedale. La sua assenza mi ha rivelato il metro di
misura di quel gigante camuffato fra i nani, e adesso soffro un vuoto
incolmabile lacerato da ricordi, un silenzio che nessun urlo umano può
scansare. Rimorsi solidi e taglienti quanto il ghiaccio.
Il fischio di
un treno fende l’aria e, come gli artigli di una civetta, pare afferrarmi,
portandomi via. Seguendo il fumo della sigaretta rapito dalla brezza, l’anima
plana fra la bruma del passato. Risalendo controcorrente lo scorrere del tempo,
sfioro i placidi riflessi d’immagini ed emozioni. Minuscoli tasselli di un
mosaico, come le note su di un pentagramma, si ricompongono formando una
melodia cristallina. La soave musica di quell’età in cui è facile sognare e
ancora possibile credere nelle favole. Età in cui credevo che mio padre potesse
essere l’unico uomo della mia vita. A lui devo la passione per il violino, la
forza di superare i momenti bassi, gli eterni esami al conservatorio. «La
musica nella vita è come una fogliolina di basilico nella cioccolata» mi disse
un giorno. «Non è essenziale: senza, la cioccolata sarebbe deliziosa comunque,
ma la sua discreta presenza sa arricchirne l’aroma. Così è la musica:
vibrazioni che accarezzano l’anima impreziosendo la vita.»
Quanto mi
manca il suo sguardo fiero, gli occhi che infondevano coraggio senza l’uso di
una parola. Ricordo il primo saggio, le suole delle scarpe nuove consumate
dietro le quinte, la carezza prima di salire sul palcoscenico. Qualsiasi fosse
stato il risultato, esibizione straordinaria o clamorosa débâcle, avrei avuto da lui un abbraccio colmo d’orgoglio. Lo
stesso che ardeva nei suoi occhi stanchi la sera della prima al Carlo Felice
come primo violino. Ancora convalescente dall’ictus che lo aveva messo al
tappeto, contravvenendo ogni ordine dei medici e a mia insaputa, quella sera
aveva voluto esserci: nemmeno i bombardamenti l’avrebbero fermato. Rammento il
biglietto scritto con mano tremante di mia madre ad avvisarmi; la corsa alle
quinte per sbirciare fra il pubblico; il cuore impazzito sino al sussulto
nell’incontrarne gli occhi grandi. Quella sera detti me stessa, la mia anima si
sciolse in musica.
Una magia
avvolse la mia aurea, dalle prime battute fui una cosa sola con lo strumento:
l’archetto era il mio fiato, mentre il violino le corde vocali. Le vibrazioni
che emanava erano il mio canto d’amore. Il pensiero stesso si trasfigurò: la
melodia prese il posto delle immagini, le parole furono soppiantate da
quartine, ottave, semicrome, diesis, bemolli; non frasi, ma variazioni
correvano nella mia mente. Ostinata, stillavo sino all’ultima goccia d’energia;
esausta ma felice fluttuavo in una dimensione dove il tutto era sinfonia, dove
Čajkovskij pareva avesse composto la partitura appositamente per me; un’estasi
controllata a vista dagli occhi meravigliati del maestro.
Terminata
l’esecuzione, mio padre si sorresse a mia madre nell’immane sforzo di mantenere
l’equilibrio e coordinare le braccia in un applauso sgraziato. Il volto per
metà offeso dalla paresi, i singhiozzi dettati da un pianto dirotto. Sembrava
così piccolo e fragile: un bambino in una platea di adulti; avrei voluto
scendere dal palco e stringerlo in un abbraccio.
Un sussurro
sfiora i ricordi, polverizzandoli; un bisbiglio che, risvegliandomi, mi riporta
al presente e si fa dolce melodia, elevandosi alle mie spalle in un crescendo
armonico. Una melodia cristallina che
può sgorgare solamente da uno strumento magico, rammentando la favola del
pifferaio di Hemelin.
Un brivido mi
pervade, consapevole che l’esecuzione superba è una dedica di Marco dai capelli
color rame, così carino e garbato.
Lusingata e
commossa, indugio vincendo l’istinto di voltarmi a render grazie all’autore. Le
note mi avvolgono nella serenata di Bach,
scandita dal battito del cuore. L’emozione si fa solida, velando gli occhi di
lacrime.
Mi volto
lentamente, come una ballerina che, cinta dal compagno, compie una mezza volta en dedans. Gli sguardi si cercano, si
toccano nell’istante di una quartina annullando l’universo. La musica si fa
ponte, sostituendo parole introvabili perché ancora non esistono.
Abile
giocoliere, Marco si esibisce in fraseggi arditi: modella come creta la
serenata sino a trasformarla in una ballata bretone, dove la gioia di vivere
esplode con vigorosa energia. Le note fluttuano nell’aria come polline,
estasiata, mi lascio stregare dalla musica: il corpo, con inaudita naturalezza,
sembra fluttuare nello spazio inseguendo la musica come una gitana; movenze
fluide, spensierate, sensuali.
Onorato da tale omaggio, Marco suona più forte, soffiando nella boccola
non aria, non respiro, ma puro amore.Di Pierangelo Colombo Edito nella raccolta Dodici semi di senape (2014)
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