Ieri era San
Valentino, la festa degli innamorati, il due che si fonde in uno, la
celebrazione della condivisione del cammino nella vita. Unione che sperimenta,
nel bene e nel male, una complicità unica dove l’uno colma le carenze
dell’altro. Quando questa alchimia viene a mancare, subentra l’assenza, un
senso di vuoto incolmabile, dove i ricordi si fanno ambivalenti, espressione di
dolce conforto e straziante dolore nel rammentare ciò che si è perduto. Allora
subentra la solitudine.
La solitudine può essere voluta, ricercata come spazio d’introspezione, necessaria nel
sottolineare le tappe evolutive di crescita, poi c’è la solitudine come
condanna, impossibilità di ‘stare con’. Si tratta di un sentimento doloroso,
associato a tristezza, ansia e disperazione. Percezione che non ha sempre
una relazione con una solitudine reale, bensì, si tratta di un disagio che si
può sperimentare anche in mezzo a una folla. Il senso di ‘mancanza’ produce un
vuoto interiore molto profondo, difficilmente colmabile. Subentra la paura di
dimenticare, come se allentando i ricordi si lasciasse andare per sempre quella
parte della nostra vita che non c’è più, come se lasciassimo spegnere quella
fiamma che teneva in vita l’amore. Allora i ricordi si fanno ardenti e,
nonostante il rischio di bruciarsi, li teniamo stretti a noi, come un tesoro
inestimabile. E così i riti di una vita in comune sopravvivono, ma non hanno
più lo stesso sapore.
Oggi voglio dedicare questo
mio racconto a tutti quelli che, tutti i giorni, combattono con l’assenza, quel
vuoto che nulla al mondo pare colmare.
Un caffè amaro
Irrompendo
attraverso la grande vetrata, i raggi abbacinanti di un sole primaverile si
tingono di oro, inondando la tromba delle scale. Investita dalla luce
paglierina, la polvere, sospesa nel tempo e nello spazio, fluttua lieve e
cangiante nell’aria.
Aggrappandosi
alla ringhiera delle scale, Mario sale quell’interminabile sequela di gradini
che lo separano dall’uscio di casa. Scalini che, invecchiando, ha imparato a
conoscere centimetro per centimetro, grazie ai dolori alle ginocchia e a quel
leggero senso di vertigine che lo coglie guardando di sotto. Nella mano destra
la sporta con la spesa: due pani bianchi, un etto di prosciutto e una bottiglia
di vino bianco, mentre il fiato si fa sempre più corto a causa della polvere,
forse, o molto probabilmente del peso invisibile, ma non meno greve, delle sue
settantasei primavere.
Respira a
fatica quell’aria stantia che sa di vecchio, mentre affronta ogni gradino come
una scalata dove l’ossigeno pare diradarsi salendo; i polmoni aspirano
avidamente quell’aria priva degli odori di una volta, quando, a ogni ballatoio,
aromi di cucinato ne salutavano il passaggio. Profumi di roba povera da
mangiare, tuttavia pregni di calore umano, riti e cordialità. Sterili cibi
precotti hanno rimpiazzato i soffritti, gli intingoli preparati
meticolosamente; così come visi giovani, dalla sfrontata superbia, hanno
sostituito i volti famigliari di coinquilini diventati nel tempo compagni di
viaggio, attraverso gli anni miseri del dopoguerra, dove mancava tutto tranne i
sogni e le speranze. Strano come il tempo e le vicissitudini possano modificare
ciò che pare immutabile.
Casa sua, per
esempio, che vide le gioie, i disagi e i sacrifici di una coppia di sposini,
pareva allora così ristretta: inadeguata a contenere un amore tanto grande.
Ora, invece, dopo che Annamaria è scomparsa lasciando un abisso incolmabile
dietro di sé, quelle stesse mura, facendosi di ghiaccio, si espandono
all’infinito. La camera è grande, vuota, silenziosa, così come la cucina,
fredda, inodore, senza il vapore del perenne tegame sopra un fuoco lento;
nemmeno il caffè ha più lo stesso aroma.
Lentamente, come una marea che ritirandosi
deposita frammenti di madreperla sulla sabbia, immagini sbiadite riemergono dai
meandri della memoria. Serate invernali in cui la mancanza dell’energia
elettrica incitava la coppia all’intimità. Chiacchierate leggere che
annaffiavano partite a briscola al chiaro di candele, giochi che lentamente si
tramutavano in maliziosi accenni a svaghi assai più arditi: carezze,
ammiccamenti e sguardi complici.
Impossibile
dimenticare quegli occhi profondi e dolci come il miele, il profumo di cipria,
i capelli fluenti e la risata semplice. Ad ogni gradino la malinconia accresce,
mentre la speranza d’incontrare qualcuno con cui parlare s’affievolisce.
Soltanto la televisione a diffondere una voce umana fra quelle mura bianche e
sterili, tinte dell’amara tristezza per quel sogno mai avverato di un figlio.
Vivere
attraverso giorni identici a se stessi nella tetra malinconia della solitudine.
Unico barlume il mercoledì: un breve scambio di battute con sora Lella, che per dieci euro l’ora ne
rassetta la casa; persona affabile, se non fosse per la perenne fretta. La
stessa impazienza di un bambino assale Mario nell’attendere quell’appuntamento
come fosse Natale, fremendo nel risentire passi femminili riecheggiare svelti
fra le mura di casa.
Affronta un
ultimo gradino; prima di entrare in quella cella imbottita di ricordi,
voltandosi, guarda quel vuoto dietro di sé, colmato da lacrime credute ormai
esaurite.
Inutile: come
una candela in pieno sole, apre l’uscio, mentre l’aroma del caffè mattutino
l’avvolge; quel caffè così maledettamente amaro, che nessun tipo di zucchero al
mondo sa addolcire.
Tratto dalla raccolta edita, Dodici semi di senape.
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