di Pierangelo Colombo

giovedì 22 febbraio 2018

Rimpianti


I rimpianti, accumulandosi nel tempo, sono erbacce infestanti che soffocano la ragione, tramutando i ricordi in spettri.
Sovente, è una costante comune nella nostra società, ci si rende conto del valore reale delle cose solamente quando queste sono irrimediabilmente perse. Non fanno certamente eccezione le relazioni interpersonali. Troppo spesso i sentimenti vengono “congelati” perché il pensiero è proiettato su false priorità, ambizioni consumistiche, scalate sociali, carriere arrembanti che distolgono l’attenzione su ciò che veramente conta. Spendiamo gran parte delle energie, e del tempo, nel rincorrere idoli materiali, status symbol che certifichino una distinzione dalla massa incanalandoci nella mediocrità. Così il tempo fugge via, portando con sé occasioni uniche, parole mai dette o esperienze irripetibili. A farne le spese sono i legami con le persone più vicine: la mancanza di attenzioni, il darne per scontato la presenza.
Perdere una famiglia può essere un’esperienza devastante, i rimpianti, i sensi di colpa e i rimorsi formano un peso gravoso da sopportare. Un senso di perdita assoluto. I soggetti più deboli ne sono soprafatti e, allora, il dolore emotivo si estende a quello fisico. Trovandosi in un limbo di non vita, si rischia di cadere in una depressione che distorce la visione della realtà. Si cerca, quindi, un possibile sollievo, un anestetico in grado d’alleviare i pensieri, come l’alcol. Un colpo di spugna in grado di spazzare l’intrico di pensieri che arrovellano il cervello; un liquido in cui diluire ansie, depressione e tristezza svigorendone l’amarezza. L’alcol, disinibendo i sensi, procura una sospensione momentanea della ragione, ma, passato il primo effetto di anestetico, apre le porte alle fobie più nascoste, alla rabbia repressa. E gli incubi diventano reali, difficile discernere la vita dall’allucinazione.

Oggi vorrei proporvi un mio racconto dedicato alla dipendenza all’alcol, al mostro che è in grado di sprigionare in noi.
 

 
La sete
 
Salgo indolente le scale in una via crucis che mi porta al primo piano. Un diffusore spande un profumo sintetico di lavanda che mi nausea. Un ficus artificiale piantona sbiadito il pianerottolo. Urla di bambini attraversano la porta, rincorse dalla voce isterica di una madre esausta.
Voltando le spalle al concerto familiare, riprendo l’ascesa verso il Golgota. L’olezzo della metropolitana mi è rimasto appiccicato addosso, come un chewing gum alla suola di una scarpa.
Al secondo pianerottolo sento una musica araba, mentre l’odore di pietanze speziate e cipolle fritte forma un muro, che attraverso come un fantasma. Riprendo ad aggredire i gradini stringendo il corrimano consunto. Una lunga crepa nel muro sembra indicarmi la via.
L’uscio di casa mi si para davanti, mi spingo nell’eremo volontario dove vegeto, nelle pause tra un giorno di lavoro e l’altro, lasciando fuori un mondo che detesto. Una cella dove conto i passi, mentre l’odore di un limone ammuffito aleggia nell’aria che sa di chiuso, umido e fumo.
L’acqua del rubinetto spazza la cremosa sensazione del sapone che, invano, prova a cancellare dalle mani l’ombra nera del lavoro in fabbrica.
La sete mi arde la gola, un incendio indomabile che trova nel corpo un carburante inesauribile: fiamma che brucia il rovo senza consumarlo. Una sete di vita il cui pozzo, però, mi è sconosciuto. In cucina, un tegame giace nell’acqua oleosa. Apro il frigorifero e trangugio due würstel dopo averli inzuppati nel vasetto della senape. Ingollo una sorsata di vino e accendo la tivù. Le immagini crude del notiziario mi scivolano di dosso senza lasciare traccia. Giro canale, pescando nel mazzo di un prestigiatore di terza classe dove tutte le carte sono uguali: programmi che sanno di spazzatura. Getto il telecomando sul divano, lasciando che l’incantatore di turno parli riempiendo il vuoto di questa cella. Rifletto su quanto veleno debba estirpare dal mio animo prima d’irretirmi.
La testa pulsa sotto la pressione di mille pensieri che, come acqua nella moka, vanno in ebollizione senza trovare, però, alcuna valvola di sfogo. La rabbia monta come una marea, una deflagrazione d’energia che vorrebbe distruggere il mondo intero non trovandoci più nulla di buono. Dio deve aver provato la stessa sensazione quando decretò il diluvio universale.
Pensieri veloci vanno a rincorrersi: il viso di una figlia che non vedo da mesi, la voce di una donna che ho amato con la stessa intensità con cui amo la vita, ma che la vita stessa ha reso insopportabile. Donna la cui sola presenza mi è cara quanto la lana di vetro nelle mutande. Arpia arcana, ha saputo cavare da me tutto il peggio di cui non mi sapevo capace.
Inutile attribuire colpe e assoluzioni. La vita è una roulette: ho puntato tutto sul rosso dispari, ma il giro è andato male. Del tesoro che mi circondava, ma non vedevo, ora non mi resta che l’incubo, l’affitto e una sete inappagabile.
Ingollo un’altra sorsata di vino, ma non basta; svito il tappo a una bottiglia dal liquido trasparente. La zaffata di alcol penetra nelle narici, anticipando le fiamme che scacceranno il fuoco. Porto la bottiglia alle labbra e inghiotto una sorsata di vodka scadente: inutile spendere quattrini se il risultato è lo stesso. Il secco bruciore pervade la gola come un fiume di lava che scivola lungo un canalone. La tensione si allenta. Ora la pressione non spinge più per uscire; anzi, le spalle sentono il peso di una forza che sembra voler entrare in me. Inutile opporsi. Resistere significa ragionare e pensare significa soffrire: perché tenersi il dolore quando un sedativo può mitigarlo?
Le pareti si allontanano, memori di liti furibonde con fantasmi ripugnanti: pugni, calci e quadri schiantati a terra. L’aria diventa rarefatta; anche la forza di gravità sembra allentare la presa. Più leggero, sento sgravare il fardello che giornalmente mi opprime. I primi pensieri, quelli meno angoscianti, si dissolvono come il fumo della sigaretta che accendo alla finestra.
Vista dal terzo piano, la gente sembra diversa: nani da giardino semoventi che, strisciando lungo i marciapiedi o chiusi in scatole di metallo, s’illudono di vincere la corsa contro il tempo. I rumori del traffico mi giungono attutiti. La sirena di un’ambulanza fa a pugni con il jingle allegro della televisione alle mie spalle.
Rientro, richiamato dalla bottiglia trasparente posata sul tavolo. Vecchie briciole di pane crocchiano sotto le suole mentre attraverso la stanza. La bottiglia mi attira come le sirene adulavano Ulisse. Nessun compagno, però, mi lega all’albero della nave, così da resistere a quel canto seducente. Nulla è la volontà di reagire, di tappare le orecchie.
In fondo, cosa può fare ancora un goccietto?
L’anestetico scorre più fluido nella gola. Si fa dolce, dissetante; acqua di fonte. La testa gira, o forse è il mondo che si muove e io, come al solito, non so tenere il passo. Altre considerazioni sfuggono, scagliate via dalla forza centrifuga in cui la mente pare essersi lanciata. Voci, volti, parole s’allontanano, aggrappate ad un elastico che li riporterà indietro domattina, quando mi sveglierò risprofondando nell’incubo.
Ora, però, godo del vuoto che va formandosi nella testa permettendomi di respirare. I pensieri che resistono come cozze sullo scoglio sono i più duri: pugni nello stomaco, ceci sotto le ginocchia.
La camera si fa landa desolata, lasciandomi solo con il fantasma di mia figlia. I suoi occhi mi terrorizzano, perché vedono cos’è realmente suo padre. Un nodo alla gola mi toglie il respiro. Vorrei sfiorarla, stringerla a me. Sentire ancora quell’abbraccio forte che serbava per il mio rientro a casa, mentre la sua vocina mi sussurra: «Ti voglio bene, lo sai?» aspettando una risposta rassicurante.
Fiore di cactus nel deserto del nulla l’ho persa senza accorgermene, vinto da una cecità inconsapevole che mi spingeva verso cose futili, mancando d’apprezzare ciò che già stringevo a me. Anelavo ostriche e champagne, senza accorgermi di nutrirmi già di nettare e ambrosia. Desideravo la stima di sconosciuti a scapito del rispetto di chi, invece, mi venerava come eroe.
Vorrei abbracciarla, darle un bacio sulla fronte per rassicurarla sul mio amore, ma non sono nemmeno in grado di fissarne il volto sorridente nella foto sul ripiano. Le lacrime me lo impediscono. Sussurro il suo nome accarezzandone la fotografia, ma la mano trema. La stessa che un giorno alzai su di lei, colpevole d’essere animo innocente. Mano comandata da una mente accecata dall’alcol.
 Il terrore di rompere l’unica immagine che rimane di lei mi spinge a posarla, per poi tornare a cercare conforto nella bottiglia. Il liquido sembra aria: non percepisco alcuna sensazione ingollandone a sorsi. Sprofondo nel divano. L’universo prende a vorticare tutt’attorno, provocandomi un senso di nausea. Chiudo gli occhi, ma il vortice rimane, mentre i binari di realtà e sogno, che scorrono paralleli, si avvicinano fino a fondersi. La stessa sensazione di quando, leggendo prima d’addormentarmi, la mente vede parole mai scritte dall’autore e la fantasia si mescola al reale.
La stanza si fa liquida. Non sarà Morfeo, però, a mettere fine a questo martirio. Torquemada, con altri fantasmi, arriverà a torturarmi. L’alcol annulla quella maschera che cela il lupo vestito d’agnello. La mia vera anima sorgerà dalle nebbie dell’incoscienza, devastandomi con frustate di verità e insofferenza. Mostro orribile, freddo, dalla voce stridula e penetrante come la punta di un trapano. Mostro cui potrei sottrarmi soltanto con la lucidità, ma a volte la realtà è peggio dell’incubo.
Domattina mi sveglierò distrutto, amareggiato e sicuramente me la sarò fatta addosso. E, dell’unico filo che ancora mi tiene appeso a questa vita, non avrò che una foto e sofferenza.

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