Il
21 marzo si celebra la Giornata mondiale della
poesia, istituita dall’Unesco nel 1999 e celebrata per la prima
volta il 21 marzo 2000. L’obiettivo della giornata è quello di valorizzare il
ruolo dell’espressione poetica nella promozione del dialogo interculturale,
della comunicazione e della pace. La poesia, che un tempo era un mezzo
d’espressione complesso e sfaccettato, è oggi una delle forme di arte più
sottovalutate. La poesia non si limita a dar voce ai sentimenti, è in grado di
dare forma alle grandi questioni su cui l’uomo si interroga fin dai primordi.
Qual è il senso della poesia oggi? In questa società
dominata dalla comunicazione di massa in cui i messaggi sono stilizzati, dal
contenuto smagrito da un linguaggio sempre più impoverito?
Il nostro tempo, caratterizzato dalla frenesia, si proietta verso il culto dell’immagine e usufruisce di una informazione monopolizzata dai media standardizzati; resta da chiedersi se siamo ancora in grado di ‘isolarci’ dedicandoci alla riflessione, all’analisi esistenziale, la ponderatezza del dubbio a quella che, in definitiva, è la Poesia.
Il nostro tempo, caratterizzato dalla frenesia, si proietta verso il culto dell’immagine e usufruisce di una informazione monopolizzata dai media standardizzati; resta da chiedersi se siamo ancora in grado di ‘isolarci’ dedicandoci alla riflessione, all’analisi esistenziale, la ponderatezza del dubbio a quella che, in definitiva, è la Poesia.
Sembra che
oggi, la poesia, abbia perso la prerogativa di accompagnare l’uomo nel proprio
cammino attraverso gli affanni d’amore, il susseguirsi delle stagioni, le
perdite o l’elogio dei ricordi. Se in epoche precedenti il poeta era una figura
rispettata, quasi divinizzata, ai giorni d’oggi sembra non trovare più spazio
nella società. Vassalli osserva come la poesia al giorno d’oggi sia diventata un genere letterario che desta
l’interesse di una ristretta cerchia di cultori.
A tale
proposito vorrei riproporre il discorso tenuto da Eugenio Montale nel ritirare
il premio Nobel.
Eugenio Montale - Nobel Lecture
Nobel
Lecture, December 12, 1975
È ancora
possibile la poesia
II premio
Nobel è giunto al suo settantacinquesimo turno, se non sono male informato. E
se molti sono gli scienziati e gli scrittori che hanno meritato questo
prestigioso riconoscimento, assai minore è il numero dei superstiti che vivono
e lavorano ancora. Alcuni di essi sono presenti qui e ad essi va il mio saluto
e il mio augurio. Secondo opinioni assai diffuse, opera di aruspici non sempre
attendibili, in questo anno o negli anni che possono dirsi imminenti il mondo
intero (o almeno quella parte del mondo che può dirsi civilizzata) conoscerebbe
una svolta storica di proporzioni colossali. Non si tratta ovviamente di una
svolta escatologica, della fine dell'uomo stesso, ma dell'avvento di una nuova
armonia sociale di cui esistono presentimenti solo nei vasti domini
dell'Utopia. Alla scadenza dell'evento il premio Nobel sarà centenario e solo
allora potrà farsi un completo bilancio di quanto la Fondazione Nobel e il
connesso Premio abbiano contribuito al formarsi di un nuovo sistema di vita comunitaria,
sia esso quello de Benessere o del Malessere universale, ma di tale portata da
mettere fine, almeno per molti secoli, alla multisecolare diatriba sul
significato della vita. Intendo riferirmi alla vita dell'uomo e non alla
apparizione degli aminoacidi che risale a qualche miliardo d'anni, sostanze che
hanno reso possibili l'apparizione dell'uomo e forse già ne contenevano il
progetto. E in questo caso come è lungo il passo del deus absconditus! Ma non
intendo divagare e mi chiedo se è giustificata la convinzione che lo statuto
del premio Nobel sottende; e cioè che le scienze, non tutte sullo stesso piano,
e le opere letterarie abbiano contribuito a diffondere o a difendere nuovi
valori in senso ampio «umanistici ». La risposta è certamente positiva.
Sarebbe lungo l'elenco dei nomi di coloro che avendo dato qualcosa all'umanità
hanno ottenuto l'ambito riconoscimento del premio Nobel. Ma infinitamente più
lungo e praticamente impossibile a identificarsi la legione, l'esercito di
coloro che lavorano per l'umanità in infiniti modi anche senza rendersene conto
e che non aspirano mai ad alcun possibile premio perché non hanno scritto
opere, atti e comunicazioni accademiche e mai hanno pensato di «far gemere i
torchi» come dice un diffuso luogo comune. Esiste certamente un esercito di
anime pure, immacolate, e questo è l'ostacolo (certo insufficiente) al
diffondersi di quello spirito utilitario che in varie gamme si spinge fino alla
corruzione, al delitto e ad ogni forma di violenza e di intolleranza. Gli
accademici di Stoccolma hanno detto più volte no all'intolleranza, al fanatismo
crudele, e a quello spirito persecutorio che anima spesso i forti contro i
deboli, gli oppressori contro gli oppressi. Ciò riguarda particolarmente la
scelta delle opere letterarie, opere che talvolta possono essere micidiali, ma
non mai come quella bomba atomica che è il frutto più maturo dell'eterno albero
del male.
Non insisto
su questo tasto perché non sono né filosofo, né sociologo, né moralista.
Ho scritto
poesie e per queste sono stato premiato, ma sono stato anche bibliotecario,
traduttore, critico letterario e musicale e persine disoccupato per
riconosciuta insufficienza di fedeltà a un regime che non poteva amare. Pochi
giorni fa è venuta a trovarmi una giornalista straniera e mi ha chiesto: come
ha distribuito tante attività così diverse? Tante ore alla poesia, tante alle
traduzioni, tante all'attività impiegatizia e tante alla vita? Ho cercato di
spiegarle che non si può pianificare una vita come si fa con un progetto
industriale. Nel mondo c'è un largo spazio per l'inutile, e anzi uno dei
pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell'inutile alla quale sono
sensibili particolarmente i giovanissimi.
In ogni modo
io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma
quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà. Ma non è il solo,
essendo la poesia una produzione o una malattia assolutamente endemica e
incurabile.
Sono qui
perché ho scritto poesie: sei volumi, oltre innumerevoli traduzioni e saggi
critici. Hanno detto che è una produzione scarsa, forse supponendo che il poeta
sia un produttore di mercanzie; le macchine debbono essere impiegate al
massimo. Per fortuna la poesia non è una mercé. Essa è una entità di cui si sa
assai poco, tanto che due filosofi tanto diversi come Croce storicista
idealista e Gilson cattolico, sono d'accordo nel ritenere impossibile una
storia della poesia. Per mio conto, se considero la poesia come un oggetto
ritengo ch'essa sia nata dalla necessità di aggiungere un suono vocale (parola)
ali martellamento delle prime musiche tribali. Solo molto più tardi parola e
musica poterono scriversi in qualche modo e differenziarsi. Appare la poesia
scritta, ma la comune parentela con la musica si fa sentire. La poesia tende a
schiudersi in forme architettoniche sorgono i metri, le strofe, le così dette
forme chiuse. Ancora nelle prime saghe nibelungiche e poi in quelle romanze, la
vera materia della poesia è il suono. Ma non tarderà a sorgere con i poeti
provenzali una poesia che si rivolge anche all'occhio. Lentamente la poesia si
fa visiva perché dipinge immagini, ma è anche musicale: riunisce due arti in
una. Naturalmente gli schemi formali erano larga parte della visibilità
poetica. Dopo l'invenzione della stampa la poesia si fa verticale, non riempie
del tutto lo spazio bianco, è ricca di « a capo » e di riprese. Anche
certi vuoti hanno un valore. Ben diversa è la prosa che occupa tutto lo spazio
e non dà indicazioni sulla sua pronunziabilità. È a questo punto gli schemi
metrici possono essere strumento ideale per l'arte del narrare, cioè per il
romanzo. È il caso di quello strumento narrativo che è l'ottava, forma che è
già un fossile nel primo Ottocento malgrado la riuscita del Don Giovanni di
Byron (poema rimasto interrotto a mezza strada). Ma verso la fine
dell'Ottocento le forme chiuse della poesia non soddisfano più né l'occhio né
l'orecchio. Analoga osservazione può farsi per il Blank verse inglese e
per l'endecasillabo sciolto italiano. E nel frattempo fa grandi passi la
disgregazione del naturalismo ed è immediato il contraccolpo nell'arte
pittorica. Così con un lungo processo, che sarebbe troppo lungo descrivere, si
giunge alla conclusione che non si può riprodurre il vero, gli oggetti reali,
creando così inutili doppioni; ma si espongono in vitro, o anche al naturale,
gli oggetti o le figure di cui Caravaggio o Rembrandt avrebbero presentato un
facsimile, un capolavoro. Alla grande mostra di Venezia anni fa era esposto il
ritratto di un mongoloide: era un argomento très dègoûtant, ma perché
no? L'arte può giustificare tutto. Sennonché avvicinandosi ci si accorgeva che
non di un ritratto si trattava, ma dell'infelice in carne ed ossa.
L'esperimento fu poi interrotto manu militari, ma in sede strettamente teorica
era pienamente giustificato. Già da anni critici che occupano cattedre
universitarie predicavano la necessità assoluta della morte dell'arte, in
attesa non si sa di quale palingenesi o resurrezione di cui non s'intravvedono
i segni.
Quali
conclusioni possono trarsi da fatti simili? Evidentemente le arti, tutte le
arti visuali, stanno democraticizzandosi nel senso peggiore della parola.
L'arte è produzione di oggetti di consumo, da usarsi e da buttarsi via in
attesa di un nuovo mondo nel quale l'uomo sia riuscito a liberarsi di tutto, anche
della propria coscienza. L'esempio che ho portato potrebbe estendersi alla
musica esclusivamente rumoristica e indifferenziata che si ascolta nei luoghi
dove milioni di giovani si radunano per esorcizzare l'orrore della loro
solitudine. Ma perché oggi più che mai l'uomo civilizzato è giunto ad avere
orrore di sé stesso?
Ovviamente
prevedo le obiezioni. Non bisogna confondere le malattie sociali, che forse
sono sempre esistite ma erano poco note perché gli antichi mezzi di comunicazione
non permettevano di conoscere e diagnosticare la malattia. Ma fa impressione il
fatto che una sorta di generale millenarismo si accompagni a un sempre più
diffuso comfort, il fatto che il benessere (là dove esiste, cioè in limitati
spazi della terra) abbia i lividi connotati della disperazione. Sotto lo sfondo
così cupo dell'attuale civiltà del benessere anche le arti tendono a
confondersi, a smarrire la loro identità. Le comunicazioni di massa, la radio e
soprattutto la televisione, hanno tentato non senza successo di annientare ogni
possibilità di solitudine e di riflessione. Il tempo si fa più veloce, opere di
pochi anni fa sembrano « datate » e il bisogno che l'artista ha di farsi
ascoltare prima o poi diventa bisogno spasmodico dell'attuale, dell'immediato.
Di qui l'arte nuova del nostro tempo che è lo spettacolo, un'esibizione non
necessariamente teatrale a cui concorrono i rudimenti di ogni arte e che opera
sorta di massaggio psichico sullo spettatore o ascoltatore o lettore che sia.
Il deus ex machina di questo nuovo coacervo è il regista. Il suo scopo non è
solo quello di coordinare gli allestimenti scenici, ma di fornire intenzioni a
opere che non ne hanno o ne hanno avute altre. C'è una grande sterilità in
tutto questo, un'immensa sfiducia nella vita. In tale paesaggio di
esibizionismo isterico quale può essere il posto della più discreta delle arti,
la poesia? La poesia così detta lirica è opera, frutto di solitudine e di
accumulazione. Lo è ancora oggi ma in casi piuttosto limitati. Abbiamo però
casi più numerosi in cui il sedicente poeta si inette al passo coi nuovi tempi.
La poesia si fa allora acustica e visiva. Le parole schizzano in tutte le
direzioni come l'esplosione di una granata, non esiste un vero significato, ma
un terremoto verbale con molti epicentri. La decifrazione non è necessaria, in
molti casi può soccorrere l'aiuto dello psicanalista. Prevalendo l'aspetto
visivo la poesia è anche traducibile e questo è un fatto nuovo nella storia
dell'estetica. Ciò non vuoi dire che i nuovi poeti siano schizoidi. Alcuni
possono scrivere prose classicamente tradizionali e pseudo versi privi di ogni
senso. C'è anche una poesia scritta per essere urlata in una piazza davanti a
una folla entusiasta. Ciò avviene soprattutto nei paesi dove vigono regimi
autoritari. E simili atleti del vocalismo poetico non sempre sono sprovveduti
di talento. Citerò un caso e mi scuso se è anche un caso che ini riguarda
personalmente. Ma il fatto, se è vero, dimostra che ormai esistono in
coabitazione due poesie, una delle quali è di consumo immediato e muore appena
è espressa, mentre l'altra può dormire i suoi sonni tranquilla. Un giorno si
risveglierà, se avrà la forza di farlo.
La vera
poesia è simile a certi quadri di cui si ignora il proprietario e che solo
qualche iniziato conosce. Comunque la poesia non vive solo nei libri o nelle
antologie scolastiche. Il poeta ignora e spesso ignorerà sempre il suo vero
destinatario. Faccio un piccolo esempio personale. Negli archivi dei giornali
italiani si trovano necrologi di uomini tuttora viventi e operanti. Si chiamano
coccodrilli. Pochi anni fa al Corriere della Sera io scopersi il mio
coccodrillo firmato da Taulero Zulberti, critico, traduttore e poliglotta. Egli
affermava che il grande poeta Majakovskij avendo letto una o più mie poesie tradotte
in lingua russa avrebbe detto: « Ecco un poeta che mi piace. Vorrei poterlo
leggere in italiano ». L'episodio non è inverosimile. I miei primi versi
cominciarono a circolare nel 1925 e Majakovskij (che viaggiò anche in America e
altrove) morì suicida nel 1930.
Majakovskij
era un poeta al pantografo, al megafono. Se ha pronunziate tali parole posso
dire che quelle mie poesie avevano trovato, per vie distorte e imprevedibili,
il loro destinano.
Non si credo
però che io abbia un'idea solipsistica della poesia. L'idea di scrivere per i
così detti happy few non è mai stata la mia. In realtà l'arte è sempre
per tutti e per nessuno. Ma quel che resta imprevedibile è il suo vero begetter,
il suo destinano. L'arte-spettacolo, l'arte di massa, l'arte che vuole produrre
una sorta di massaggio fisico-psichico su un ipotetico fruitore ha dinanzi a sé
infinite strade perché la popolazione del mondo è in continuo aumento. Ma il
suo limite è il vuoto assoluto. Si può incorniciare ed esporre un paio di pantofole
(io stesso ho visto così ridotte le mie), ma non si può esporre sotto vetro un
paesaggio, un lago o qualsiasi grande spettacolo naturale.
La poesia
lirica ha certamente rotto le sue barriere. C'è poesia anche nella prosa, in
tutta la grande prosa non meramente utilitaria o didascalica: esistono poeti
che scrivono in prosa o almeno in più o meno apparente prosa; milioni di poeti
scrivono versi che non hanno nessun rapporto con la poesia. Ma questo significa
poco o nulla. Il mondo è in crescita, quale sarà il suo avvenire non può dirlo
nessuno. Ma non è credibile che la cultura di massa per il suo carattere
effimero e fatiscente non produca, per necessario contraccolpo, una cultura che
sia anche argine e riflessione. Possiamo tutti collaborare a questo futuro. Ma
la vita dell'uomo è breve e la vita del mondo può essere quasi infinitamente
lunga.
Avevo
pensato di dare al mio breve discorso questo titolo: potrà sopravvivere la
poesia nell'universo delle comunicazioni di massa? È ciò che molti si chiedono,
ma a ben riflettere la risposta non può essere che affermativa. Se s'intende
per la così detta belletristica è chiaro che la produzione mondiale andrà
crescendo a dismisura. Se invece ci limitiamo a quella che rifiuta con orrore
il termine di produzione, quella che sorge quasi per miracolo e sembra
imbalsamare tutta un'epoca e tutta una situazione linguistica e culturale,
allora bisogna dire che non c'è morte possibile per la poesia.
E' stato
osservato più volte che il contraccolpo del linguaggio poetico su quello
prosastico può essere considerato un colpo di sferza decisivo. Stranamente la
Commedia di Dante non ha prodotto una prosa di quell'altezza creativa o lo ha
fatto dopo secoli. Ma se studiate la prosa francese prima e dopo la scuola di Ronsard,
la Plèiade, vi accorgerete che la prosa francese ha perduto quella mollezza per
la quale era giudicata tanto inferiore alle lingue classiche ed ha compiuto un
vero salto di maturità. L'effetto è stato curioso. La Plèiade non produce
raccolte di poesie omogenee come quelle del Dolce stil nuovo italiano (che è
certo una delle sue fonti), ma ci dà di tanto in tanto veri « pezzi di
antiquariato » che andranno a far parte di un possibile museo immaginario
della poesia. Si tratta di un gusto che si direbbe neogreco e che secoli dopo
il Parnasse tenterà invano di eguagliare. Ciò prova che la grande lirica può
morire, rinascere, rimorire, ma resterà sempre una delle vette dell'anima
umana. Vogliamo rileggere insieme un canto di Joachim Du Bellay. Questo poeta,
nato nel 1522 e morto a soli trentacinque anni, era nipote di un cardinale
presso il quale visse a Roma qualche anno riportando profondo disgusto per la
corruzione della corte pontifica. Du Bellay ha scritto molto, imitando più o
meno felicemente i poeti della tradizione petrarchista. Ma la poesia (forse
scritta a Roma), ispirata da versi latini del Navagero, che raccomanda la sua
fama, è frutto di una dolorosa nostalgia per le campagne della dolce Loira da
lui abbandonate. Da Sainte-Beuve fino a Walter Pater, che dedicò a Joachim un
profilo memorabile, la breve Odelette des vanneurs de blé è entrata nel
repertorio della poesia mondiale. Proviamo a rileggerla se questo è possibile,
perché si tratta di una poesia in cui l'occhio ha la sua parte.
A vous troppe legere,
qui d'aele passagere
par le monde volez,
et d'un sifflant murmure l'ombrageuse verdure doulcement esbranlez,
j'offre ces violettes,
ces lis et ces fleurettes,
et ces roses icy,
ces vermeillettes roses,
tout freschement écloses,
et ces oeilletz aussi.
De vostre doulce halaine
eventez ceste plaine,
eventez ce sejour,
ce pendant que j'ahanne
a mon blé, que je vanne
a la chaleur du jour.
qui d'aele passagere
par le monde volez,
et d'un sifflant murmure l'ombrageuse verdure doulcement esbranlez,
j'offre ces violettes,
ces lis et ces fleurettes,
et ces roses icy,
ces vermeillettes roses,
tout freschement écloses,
et ces oeilletz aussi.
De vostre doulce halaine
eventez ceste plaine,
eventez ce sejour,
ce pendant que j'ahanne
a mon blé, que je vanne
a la chaleur du jour.
Non so se
questa Odelette sia stata scritta a Roma come intermezzo nel disbrigo di
noiose pratiche d'ufficio. Essa deve a Patter la sua attuale sopravvivenza. A
distanza di secoli una poesia può trovare il suo interprete.
Ma ora per
concludere debbo una risposta alla domanda che ha dato un titolo a questo breve
discorso. Nella attuale civiltà consumistica che vede affacciarsi alla storia
nuove nazioni e nuovi linguaggi, nella civiltà dell'uomo robot, quale può
essere la sorte della poesia? Le risposte potrebbero essere molte. La poesia è
l'arte tecnicamente alla portata di tutti: basta un foglio di carta e una matita
e il gioco è fatto. Solo in un secondo momento sorgono i problemi della stampa
e della diffusione. L'incendio della Biblioteca di Alessandria ha distrutto tre
quarti della letteratura greca. Oggi nemmeno un incendio universale potrebbe
far sparire la torrenziale produzione poetica dei nostri giorni. Ma si tratta
appunto di produzione, cioè di manufatti soggetti alle leggi del gusto e della
moda. Che l'orto delle Muse possa essere devastato da grandi tempeste è, più
che probabile, certo. Ma mi pare altrettanto certo che molta carta stampata e
molti libri di poesia debbano resistere al tempo.
Diversa è la
questione se ci si riferisce alla reviviscenza spirituale di un vecchio testo
poetico, il suo rifarsi attuale, il suo dischiudersi a nuove interpreta-zioni. E
infine testa sempre dubbioso in quali limiti e confini ci si muove parlando di
poesia. Molta poesia d'oggi si esprime in prosa. Molti versi d'oggi sono prosa
e cattiva prosa. L'arte narrativa, il romanzo, da Murasaki a Proust ha prodotto
grandi opere di poesia. El il teatro? Molte storie letterarie non se ne
occupano nemmeno, sia pure estrapolando alcuni geni che formano un capitolo a
parte. Inoltre: come si spiega il fatto che l'antica poesia cinese resiste a
tutte le traduzioni mentre la poesia europea è incatenata al suo linguaggio
originale? Forse il fenomeno si spiega col fatto che noi crediamo di leggere Po
Chü-i e leggiamo invece il meraviglioso contraffattore Arthur Waley? Si
potrebbero moltiplicare le domande con l'unico risultato che non solo la poesia,
ma tutto il mondo dell'espressione artistica o sedicente tale è entrato in una
crisi che è strettamente legata alla condizione umana, al nostro esistere di
esseri umani, alla nostra certezza o illusione di crederci esseri privilegiati,
i soli che si credono padroni della loro sorte e depositari di un destino che
nessun'altra creatura vivente può vantare. Inutile dunque chiedersi quale sarà
il destino delle arti. E' come chiedersi se l'uomo di domani, di un domani
magari lontanissimo, potrà risolvere le tragiche contraddizioni in cui si
dibatte fin dal primo giorno della Creazione (e se di un tale giorno, che può
essere un'epoca sterminata, possa ancora parlarsi).
From Les Prix Nobel en 1975, Editor Wilhelm Odelberg, [Nobel
Foundation], Stockholm, 1976
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Copyright © The Nobel Foundation 1975
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