Federico
Garcìa Lorca nasce il 5
giugno 1898 a Fuentevaqueros, un piccolo paesino nella Vallata
di granata. Proviene da una famiglia benestante; il padre è un facoltoso
proprietario terriero e la madre è una maestra. Nel 1909 si trasferisce con la
famiglia a Granata, dove mostra disinteresse per la scuola, affascinato invece
dalla musica e dai quartieri gitani che frequenta negli anni
dell’adolescenza. Brillante negli studi di pianoforte, sogna di diventare un
grande compositore e di trasferirsi a Parigi. Nel 1914 s’iscrive in quella che
definisce “indecente” Università di Granada per intraprendere gli studi di
Lettere, Filosofia e Diritto. Nel 1919 si iscrive all’università di Madrid dove
incontrerà Salvador Dalì e
Luis Buñuel.
La sua prima opera teatrale, scritta nel 1919 e rappresentata l’anno seguente, Il maleficio della farfalla, non ottiene alcun successo.
La sua prima opera teatrale, scritta nel 1919 e rappresentata l’anno seguente, Il maleficio della farfalla, non ottiene alcun successo.
Pubblica
numerose raccolte di poesie tra cui Libro
de Poemas (1921), Canciones
(1922), il Romancero Gitano
(1928), il Poema del cante jondo
(1931) e Pianto per la morte di
Ignacio Sànchez Mejias (1935). Scrive contemporaneamente
anche per il teatro e vengono messe in scena, riscotendo un enorme successo,
molte sue opere, tra cui Mariana
Pineda, La
zapatera prodigiosa, Yerma e La
casa di Bernarda Alba, scritta nel 1936.
La sua vita è caratterizzata da profonde depressioni a causa della propria omosessualità. Nel 1929 affronta un viaggio negli stati uniti, dove darà vita a Poeta en Nueva York.
La sua vita è caratterizzata da profonde depressioni a causa della propria omosessualità. Nel 1929 affronta un viaggio negli stati uniti, dove darà vita a Poeta en Nueva York.
Al suo ritorno
in Spagna, nel 1930, Lorca si pone al servizio della politica culturale del
governo repubblicano fondando e dirigendo una compagnia teatrale, chiamata La Barraca.
Allo scoppio della Guerra civile, lascia Madrid per Granata. Prelevato nella casa di amici in cui si era rifugiato per cercare di sfuggire alle persecuzioni fasciste, viene condotto a Viznar e all'alba del 19 agosto 1936 viene fucilato da militanti del movimento politico CEDA perché di sinistra, omosessuale e massone. Il corpo è stato poi gettato in una tomba senza nome a Fuentegrande.
Così commenta Pablo Neruda, grande amico di Lorca, la brutalità di tale uccisione: «L’assassinio di Federico fu per me l’avvenimento più doloroso di un lungo combattimento. La Spagna è sempre stata un campo di gladiatori; una terra con molto sangue. L’arena, con il suo sacrificio e la sua crudele eleganza, ripete l’antica lotta mortale fra l’ombra e la luce».
Allo scoppio della Guerra civile, lascia Madrid per Granata. Prelevato nella casa di amici in cui si era rifugiato per cercare di sfuggire alle persecuzioni fasciste, viene condotto a Viznar e all'alba del 19 agosto 1936 viene fucilato da militanti del movimento politico CEDA perché di sinistra, omosessuale e massone. Il corpo è stato poi gettato in una tomba senza nome a Fuentegrande.
Così commenta Pablo Neruda, grande amico di Lorca, la brutalità di tale uccisione: «L’assassinio di Federico fu per me l’avvenimento più doloroso di un lungo combattimento. La Spagna è sempre stata un campo di gladiatori; una terra con molto sangue. L’arena, con il suo sacrificio e la sua crudele eleganza, ripete l’antica lotta mortale fra l’ombra e la luce».
La luna venne alla fucina
col suo sellino di nardi.
Il bambino la guarda, guarda.
Il bambino la sta guardando.
Nell’aria commossa
la luna muove le sue braccia
e mostra, lubrica e pura,
i suoi seni di stagno duro.
Fuggi luna, luna, luna.
Se venissero i gitani
farebbero col tuo cuore
collane e bianchi anelli.
Bambino, lasciami ballare.
Quando verranno i gitani,
ti troveranno nell’incudine
con gli occhietti chiusi.
Fuggi, luna, luna, luna
che già sento i loro cavalli.
Bambino lasciami, non calpestare
il mio biancore inamidato.
Il cavaliere s’avvicina
suonando il tamburo del piano.
nella fucina il bambino
ha gli occhi chiusi.
Per l’uliveto venivano,
bronzo e sogno, i gitani.
le teste alzate
e gli occhi socchiusi.
Come canta il gufo,
ah, come canta sull’albero!
Nel cielo va luna
con un bimbo per mano.
Nella fucina piangono,
gridano, i gitani.
Il vento la veglia, veglia.
Il vento la sta vegliando.
Mia viva morte, amore delle viscere,
io aspetto invano una parola scritta
e penso, con il fiore che marcisce,
che se non vivo preferisco perderti.
L’aria è immortale. E la pietra nessuna
ombra conosce, né, immobile, la scansa.
Non ha bisogno nel profondo il cuore
del freddo miele che sparge la luna.
Ti sopportai. Mi lacerai le vene,
tigre e colomba, sulla tua cintura
in un duello di gigli e veleno.
Calma la mia follia con le parole,
o nella notte dell’anima oscura
per sempre, lascia ch’io viva sereno.
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