di Pierangelo Colombo

giovedì 22 marzo 2018

Giosuè di Betania capitolo I


 Il pregiudizio è un’immagine preliminare che abbiamo riguardo a qualcosa o qualcuno. Una visione negativa che ci influenza nel considerare quella cosa o persona in un determinato modo. Difficile liberarsi dai pregiudizi in quanto li abbiamo interiorizzati. Essi ci impediscono di aprire in modo completo la nostra mente, di godere davvero di libertà di pensiero. Oltretutto, tendiamo a valutare gli altri sulla base di un giudizio che in qualche modo non applichiamo alle nostre prestazioni. Tendiamo a preoccuparci di quello che fanno tutti gli altri e a giudicarli senza considerare quello che stiamo facendo noi stessi.
A riguardo vorrei dedicarvi il primo, di tre capitoli, di questo mio racconto.

 
 

Giosuè di Betania


cap. I


Chino dinanzi alla fornace, Giosuè vi gettava nuova legna, così da innalzare la temperatura e cuocere le crete modellate durante la giornata.
«Hai lavorato a sufficienza per oggi» disse rivolgendosi al figlio.
«Sì, ho quasi terminato» rispose Matteo che, intento a rifinire una brocca, diede le ultime spinte al tornio cigolante.
Premendosi le mani sui lombi doloranti, Giosuè si avvicinò al manufatto. «Hai carpito nuove idee dai mercanti fenici?»
Il sole, di poco alto sopra l’orizzonte, filtrava attraverso la stuoia di giunchi intrecciati, disegnando una graticola sul terreno. Ricavata nel patio della casa, la loro era una bottega modesta, come umile era l’abitazione che, assieme ad altre, formava il villaggio di Sicar, situato sulle colline della Sammaria; una terra montuosa che divideva la Galilea dalla Giudea.
«È rimasto un angolino per la cena, o i miei uomini hanno stipato l’intero forno?» domandò Marta che, provenendo dalla cucina, reggeva una pentola di coccio.
«Con quale pietanza ci vizia la mia dolce moglie?» la canzonò Giosuè, sbirciando nel contenitore.
«Pecora. Offerta dalla famiglia di Tobia» rispose lei, allontanandogli le mani e infilando la terrina nella fornace. «A pagamento del vasellame che avete fatto per il corredo della figlia» concluse, richiudendo la bocca del forno.
«Hanno pagato con una pecora?»
Giosuè era crucciato: aspettava quel compenso da settimane, confidando nell’onestà del vicino. Le tasse imposte da Roma erano esose e gli esattori pretendevano moneta sonante.
Marta sospirò. «Sii comprensivo, l’annata è stata difficile per tutti: le greggi hanno risentito del pascolo scarso. Tobia è un brav’uomo, si è indebitato per il corredo di Anna. Ti assicuro che rinunciare a questa pecora è stato per loro un vero salasso».
Il rumore di passi sul selciato interruppe il discorso. L’ombra allungata di un uomo si proiettò sulla stuoia, preannunciando una visita. Giosuè guardò la moglie e il figlio, domandando tacitamente se aspettassero ospiti. I due mostrarono, però, la stessa espressione sorpresa.
Lavatosi le mani nel catino dell’acqua, il capofamiglia uscì ad accogliere il viandante. Sicar, trovandosi lungo la via principale, era attraversata da numerose carovane: pellegrini diretti a Gerusalemme o semplici mercanti che facevano la spola fra la Galilea e la Giudea.
Pensando a un commerciante, Giosuè auspicò una buona trattativa. Transitando vicino la cucina, percepì la fragranza della focaccia che Sara, la figlioletta di sette anni, stava impastando per cena. Interpretò il fatto come un buon segno e meditò d’invitare l’eventuale cliente a cenare con loro.
Uscito fuori, salutò delle donne di ritorno dal pozzo. Si portò la mano alla fronte per ripararsi gli occhi dal sole che, alle spalle del viandante, impediva di distinguerne la fisionomia.
Preceduta dalla propria ombra, una sagoma scura si fece avanti.
«Pace a te, Giosuè, figlio di Zaccaria».
Si stupì: nessuno lo chiamava in quel modo da anni; per tutti, nei paraggi, era Giosuè di Betània, la città da cui proveniva. Quando l’uomo fu abbastanza vicino, riconoscendone il viso, gli si gettò addosso con un balzo e lo strinse in un abbraccio.
«Tu sia benedetto, Tommaso, fratello mio. La tua visita è tanto inaspettata quanto carica di gioia per il mio cuore».
Gli pose le mani sulle spalle, squadrandolo dalla testa ai piedi.
«Come ti sei fatto grande. Sei un uomo, ormai».
«Il tempo passa, vecchio mio; e se quella sulla tua barba non è argilla, significa che l’età sta tingendo di bianco ciò che ricordavo nero come il carbone» ribatté benevolo Tommaso.
«Ma non restiamo qui fuori; vieni dentro, Marta e Matteo saranno felici di rivederti. Inoltre, voglio presentarti a Beniamino e Sara. Ricordi Beniamino? Era ancora in fasce l’ultima volta che ci siamo visti; vedrai che ragazzotto s’è fatto. Dovrebbe essere di ritorno: aiuta Zebedeo, un amico, a pascolare le capre. Sara, invece, è una signorina, lo specchio della piccola Rachele».
«Piccola Rachele? È davvero molto che non ci vediamo, quindi; nostra sorella ha due bambini!»
Rachele era l’ultima dei figli di Zaccaria; Giuda era il primogenito, seguito da Giosuè, Maria, Ismaele e Tommaso. Giosuè aveva lasciato la casa paterna che era ancora un ragazzo; trasferitosi a Betània, aveva lavorato nella bottega di Giacomo che, al pari di un secondo padre, gli aveva insegnato a plasmare e decorare le terrecotte.
«Hai ragione, è trascorso molto tempo dalla mia ultima visita».
«Già, troppo tempo» sospirò Tommaso.
«Cosa ti ha portato ad affrontare questo viaggio da solo?» chiese Giosuè che, ripresosi dall’emozione, scrutò la via, senza scorgervi, però, nessuno che potesse essersi attardato nel cammino. «Dimmi che non sei messaggero di cattive notizie».
«Purtroppo, le nuove che ti porto non sono liete: il mio cuore è colmo di tristezza e, temo, presto anche il tuo dovrà sopportare il peso di tale afflizione».
«Parla, non tenermi ancora sulle spine!»
«Nostro padre, come tu sai, è giunto a un’età considerevole: il respiro si fa sempre più faticoso e le forze lo stanno abbandonando. Ormai, raramente lascia il suo giaciglio per uscire da casa, ogni movimento gli costa fatica». Posandogli una mano sulla spalla, ne fissò gli occhi. «Temo che l’ora funesta si avvicini rapidamente».
Giosuè abbassò lo sguardo velato di lacrime.
«Anche lui ne è cosciente» proseguì Tommaso. «Ed è per questo che mi ha inviato da te; è suo desiderio, infatti, festeggiare l’imminente Pèsach[1] in tua compagnia, così da concederti la propria benedizione».
Giosuè percepì appieno l’amarezza della notizia; amava molto suo padre, uomo giusto e saggio che, nei momenti di carestia, più volte aveva rinunciato alla propria porzione di cibo per donarla a loro. Amorevole e severo al tempo stesso, li aveva cresciuti timorati di Dio e rispettosi dei precetti della Torah.
Parlando, i due raggiunsero la soglia di casa.
«Accomodati, sarai stanco per il lungo viaggio».
Marta venne loro incontro facendo gli onori di casa. Sedutosi, Tommaso riprese a parlare con tono greve.
«V’è dell’altro cui devo metterti a conoscenza» proferì imbarazzato. «Parlo anche a nome dei nostri fratelli» aggiunse subito, quasi volesse sgravarsi del peso di ciò che stava per dire. «Si tratta di Giuda».
Giosuè sussultò: il rapporto con Giuda, infatti, era da sempre burrascoso; quando ancora vivevano nella casa paterna, numerosi furono gli attriti fra loro. Di carattere contrapposto, si trovarono a scontrarsi, anche duramente, a causa delle divergenze d’opinioni sulla gestione del gregge, patrimonio del padre.
«Negli ultimi tempi» continuò Tommaso, «Giuda si comporta in modo strano, sconsiderato. Trascura le greggi e le messi, che affida con leggerezza ai servi, mentre lui sta di continuo al capezzale di nostro padre».
«Non trovo in ciò una colpa, anzi, è segno d’affetto e responsabilità» intervenne Giosuè.
«Certo, ma c’è Maria e anche Rachele che possono occuparsi dei suoi bisogni. Ciò che affligge me e gli altri fratelli è che Giuda ha iniziato a sperperare il patrimonio di nostro padre; ha speso una fortuna per acquistargli una sontuosa veste, pur sapendo non la indosserà mai al di fuori di casa. Qualche giorno fa, ha venduto un magnifico montone per comprargli un nuovo giaciglio, ma quello che aveva era ancora in buono stato».
Giosuè inarcò le sopracciglia.
«E non è tutto» proseguì Tommaso. «Spesso organizza lauti banchetti invitando molta gente, con il pretesto di portare allegria a nostro padre. Altre cose sono successe, ma non starò ora a crucciarti. Temiamo, però, che in breve tempo possa dilapidare l’intero patrimonio. Solamente tu puoi parlargli, hai sempre saputo tener testa al suo temperamento. A te darà retta, devi farlo ragionare».
Giosuè si fece serio; un turbine di emozioni lo investì, scagliandolo in un lontano passato. Liti e gelosie mai risolte riaffiorarono, portando malinconia e inquietudine.
«Tommaso, quello che mi racconti è molto grave. Ti assicuro che mai; avrei pensato che nostro fratello potesse comportarsi così. Sai bene, tuttavia, che non ho più alcun diritto sul patrimonio di Zaccaria; infatti, prima di trasferirmi a Betània, chiesi la parte dell’eredità che mi spettava. Nostro padre accettò senza indugi vendendo una parte del gregge e, assieme al ricavato, mi diede la sua benedizione. Temo che ora Giuda possa interpretare il mio intervento come un tentativo di ricavarne ciò che non mi spetta».
«Tutti conosciamo la tua posizione, ma sappiamo che se nessuno tenta di riportare Giuda al giudizio, la nostra famiglia è destinata a cadere in miseria».
Giosuè si agitò, angosciato dal pensiero d’affrontare una discussione con Giuda che, certamente, si sarebbe tramutata in lite.
Marta, interpretandone il pensiero, gli accarezzò il viso. «Vai da tuo padre, ti aspetta. Giuda è un uomo forte e determinato, ma sono certa che saprà ascoltarti».
Giosuè le afferrò la mano, stringendola alla guancia.
«Partirò al più presto» decise.
Durante la cena, Matteo cercò di alleggerire l’atmosfera raccontando aneddoti su Beniamino che, tornato dal pascolo, fece la conoscenza dello zio. Giosuè sorrideva, cercando di scacciare i pensieri che lo tormentavano. L’immagine del fratello maggiore, però, faceva breccia nella sua testa, battendo come il martello di un fabbro su di un’incudine.
Quando i figli furono a letto, organizzò la partenza.
«Domani parte una carovana diretta a Gerusalemme, mi unirò a loro sino a Betània. Lì farò visita a Giacomo, sarà felice d’ospitarmi. Dopodiché prenderò la via che, attraverso le montagne, porta al villaggio di mio padre».
«Ti preparo la bisaccia» disse Marta mettendosi all’opera.
«Porterò con me Beniamino: conoscerà suo nonno». Si rivolse al fratello. «Tommaso, ti chiedo di fermarti presso la mia casa: Matteo ha sedici anni, ormai è un uomo, ma ti sarei grato se potessi dargli una mano in mia assenza».
«Conta pure su di me! La tua famiglia è la mia famiglia».


Giosuè di Betania edito 2015


[1] Pasqua ebraica

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