Il
pregiudizio è un’immagine preliminare che abbiamo riguardo a
qualcosa o qualcuno. Una visione negativa che ci influenza nel considerare
quella cosa o persona in un determinato modo. Difficile liberarsi dai
pregiudizi in quanto li abbiamo interiorizzati. Essi ci impediscono di
aprire in modo completo la nostra mente, di godere davvero di libertà di
pensiero. Oltretutto, tendiamo a valutare gli altri sulla base di un giudizio
che in qualche modo non applichiamo alle nostre prestazioni. Tendiamo a preoccuparci
di quello che fanno tutti gli altri e a giudicarli senza considerare quello che
stiamo facendo noi stessi.
A riguardo
vorrei dedicarvi il primo, di tre capitoli, di questo mio racconto.
Giosuè di Betania
cap. I
Chino dinanzi
alla fornace, Giosuè vi gettava nuova legna, così da innalzare la temperatura e
cuocere le crete modellate durante la giornata.
«Hai lavorato
a sufficienza per oggi» disse rivolgendosi al figlio.
«Sì, ho quasi
terminato» rispose Matteo che, intento a rifinire una brocca, diede le ultime
spinte al tornio cigolante.
Premendosi le
mani sui lombi doloranti, Giosuè si avvicinò al manufatto. «Hai carpito nuove
idee dai mercanti fenici?»
Il sole, di
poco alto sopra l’orizzonte, filtrava attraverso la stuoia di giunchi
intrecciati, disegnando una graticola sul terreno. Ricavata nel patio della
casa, la loro era una bottega modesta, come umile era l’abitazione che, assieme
ad altre, formava il villaggio di Sicar, situato sulle colline della
Sammaria; una terra montuosa che divideva la Galilea dalla Giudea.
«È rimasto un
angolino per la cena, o i miei uomini hanno stipato l’intero forno?» domandò
Marta che, provenendo dalla cucina, reggeva una pentola di coccio.
«Con quale
pietanza ci vizia la mia dolce moglie?» la canzonò Giosuè, sbirciando nel
contenitore.
«Pecora.
Offerta dalla famiglia di Tobia» rispose lei, allontanandogli le mani e
infilando la terrina nella fornace. «A pagamento del vasellame che avete fatto
per il corredo della figlia» concluse, richiudendo la bocca del forno.
«Hanno pagato
con una pecora?»
Giosuè era
crucciato: aspettava quel compenso da settimane, confidando nell’onestà del
vicino. Le tasse imposte da Roma erano esose e gli esattori pretendevano moneta
sonante.
Marta sospirò.
«Sii comprensivo, l’annata è stata difficile per tutti: le greggi hanno
risentito del pascolo scarso. Tobia è un brav’uomo, si è indebitato per il
corredo di Anna. Ti assicuro che rinunciare a questa pecora è stato per loro un
vero salasso».
Il rumore di
passi sul selciato interruppe il discorso. L’ombra allungata di un uomo si
proiettò sulla stuoia, preannunciando una visita. Giosuè guardò la moglie e il
figlio, domandando tacitamente se aspettassero ospiti. I due mostrarono, però,
la stessa espressione sorpresa.
Lavatosi le
mani nel catino dell’acqua, il capofamiglia uscì ad accogliere il viandante.
Sicar, trovandosi lungo la via principale, era attraversata da numerose
carovane: pellegrini diretti a Gerusalemme o semplici mercanti che facevano la
spola fra la Galilea e la Giudea.
Pensando a un
commerciante, Giosuè auspicò una buona trattativa. Transitando vicino la
cucina, percepì la fragranza della focaccia che Sara, la figlioletta di sette
anni, stava impastando per cena. Interpretò il fatto come un buon segno e meditò
d’invitare l’eventuale cliente a cenare con loro.
Uscito fuori,
salutò delle donne di ritorno dal pozzo. Si portò la mano alla fronte per
ripararsi gli occhi dal sole che, alle spalle del viandante, impediva di
distinguerne la fisionomia.
Preceduta
dalla propria ombra, una sagoma scura si fece avanti.
«Pace a te,
Giosuè, figlio di Zaccaria».
Si stupì:
nessuno lo chiamava in quel modo da anni; per tutti, nei paraggi, era Giosuè di
Betània, la città da cui proveniva. Quando l’uomo fu abbastanza vicino,
riconoscendone il viso, gli si gettò addosso con un balzo e lo strinse in un
abbraccio.
«Tu sia
benedetto, Tommaso, fratello mio. La tua visita è tanto inaspettata quanto
carica di gioia per il mio cuore».
Gli pose le
mani sulle spalle, squadrandolo dalla testa ai piedi.
«Come ti sei
fatto grande. Sei un uomo, ormai».
«Il tempo
passa, vecchio mio; e se quella sulla tua barba non è argilla, significa che l’età
sta tingendo di bianco ciò che ricordavo nero come il carbone» ribatté benevolo
Tommaso.
«Ma non
restiamo qui fuori; vieni dentro, Marta e Matteo saranno felici di rivederti. Inoltre, voglio presentarti a Beniamino e Sara.
Ricordi Beniamino? Era ancora in fasce l’ultima volta che ci siamo visti;
vedrai che ragazzotto s’è fatto. Dovrebbe essere di ritorno: aiuta Zebedeo, un
amico, a pascolare le capre. Sara, invece, è una signorina, lo specchio della
piccola Rachele».
«Piccola
Rachele? È davvero molto che non ci vediamo, quindi; nostra sorella ha due
bambini!»
Rachele era l’ultima
dei figli di Zaccaria; Giuda era il primogenito, seguito da Giosuè, Maria,
Ismaele e Tommaso. Giosuè aveva lasciato la casa paterna che era ancora un
ragazzo; trasferitosi a Betània, aveva lavorato nella bottega di Giacomo che,
al pari di un secondo padre, gli aveva insegnato a plasmare e decorare le
terrecotte.
«Hai ragione, è
trascorso molto tempo dalla mia ultima visita».
«Già, troppo
tempo» sospirò Tommaso.
«Cosa ti ha
portato ad affrontare questo viaggio da solo?» chiese Giosuè che, ripresosi
dall’emozione, scrutò la via, senza scorgervi, però, nessuno che potesse
essersi attardato nel cammino. «Dimmi che non sei messaggero di cattive notizie».
«Purtroppo, le
nuove che ti porto non sono liete: il mio cuore è colmo di tristezza e, temo,
presto anche il tuo dovrà sopportare il peso di tale afflizione».
«Parla, non
tenermi ancora sulle spine!»
«Nostro padre,
come tu sai, è giunto a un’età considerevole: il respiro si fa sempre più
faticoso e le forze lo stanno abbandonando. Ormai, raramente lascia il suo
giaciglio per uscire da casa, ogni movimento gli costa fatica». Posandogli una
mano sulla spalla, ne fissò gli occhi. «Temo che l’ora funesta si avvicini
rapidamente».
Giosuè abbassò
lo sguardo velato di lacrime.
«Anche lui ne è
cosciente» proseguì Tommaso. «Ed è per questo che mi ha inviato da te; è suo
desiderio, infatti, festeggiare l’imminente Pèsach[1]
in tua compagnia, così da concederti la propria benedizione».
Giosuè percepì
appieno l’amarezza della notizia; amava molto suo padre, uomo giusto e saggio
che, nei momenti di carestia, più volte aveva rinunciato alla propria porzione
di cibo per donarla a loro. Amorevole e severo al tempo stesso, li aveva
cresciuti timorati di Dio e rispettosi dei precetti della Torah.
Parlando, i
due raggiunsero la soglia di casa.
«Accomodati,
sarai stanco per il lungo viaggio».
Marta venne
loro incontro facendo gli onori di casa. Sedutosi, Tommaso riprese a parlare
con tono greve.
«V’è dell’altro
cui devo metterti a conoscenza» proferì imbarazzato. «Parlo anche a nome dei
nostri fratelli» aggiunse subito, quasi volesse sgravarsi del peso di ciò che
stava per dire. «Si tratta di Giuda».
Giosuè sussultò:
il rapporto con Giuda, infatti, era da sempre burrascoso; quando ancora
vivevano nella casa paterna, numerosi furono gli attriti fra loro. Di carattere
contrapposto, si trovarono a scontrarsi, anche duramente, a causa delle
divergenze d’opinioni sulla gestione del gregge, patrimonio del padre.
«Negli ultimi
tempi» continuò Tommaso, «Giuda si comporta in modo strano, sconsiderato.
Trascura le greggi e le messi, che affida con leggerezza ai servi, mentre lui
sta di continuo al capezzale di nostro padre».
«Non trovo in
ciò una colpa, anzi, è segno d’affetto e responsabilità» intervenne Giosuè.
«Certo, ma c’è
Maria e anche Rachele che possono occuparsi dei suoi bisogni. Ciò che affligge
me e gli altri fratelli è che Giuda ha iniziato a sperperare il patrimonio di
nostro padre; ha speso una fortuna per acquistargli una sontuosa veste, pur
sapendo non la indosserà mai al di fuori di casa. Qualche giorno fa, ha venduto
un magnifico montone per comprargli un nuovo giaciglio, ma quello che aveva era
ancora in buono stato».
Giosuè inarcò
le sopracciglia.
«E non è tutto»
proseguì Tommaso. «Spesso organizza lauti banchetti invitando molta gente, con
il pretesto di portare allegria a nostro padre. Altre cose sono successe, ma
non starò ora a crucciarti. Temiamo, però, che in breve tempo possa dilapidare
l’intero patrimonio. Solamente tu puoi parlargli, hai sempre saputo tener testa
al suo temperamento. A te darà retta, devi farlo ragionare».
Giosuè si fece
serio; un turbine di emozioni lo investì, scagliandolo in un lontano passato.
Liti e gelosie mai risolte riaffiorarono, portando malinconia e inquietudine.
«Tommaso,
quello che mi racconti è molto grave. Ti assicuro che mai; avrei pensato che
nostro fratello potesse comportarsi così. Sai
bene, tuttavia, che non ho più alcun diritto sul patrimonio di Zaccaria;
infatti, prima di trasferirmi a Betània, chiesi la parte dell’eredità che mi
spettava. Nostro padre accettò senza indugi vendendo una parte del gregge e,
assieme al ricavato, mi diede la sua benedizione. Temo che ora Giuda possa
interpretare il mio intervento come un tentativo di ricavarne ciò che non mi
spetta».
«Tutti
conosciamo la tua posizione, ma sappiamo che se nessuno tenta di riportare
Giuda al giudizio, la nostra famiglia è destinata a cadere in miseria».
Giosuè si agitò,
angosciato dal pensiero d’affrontare una discussione con Giuda che, certamente,
si sarebbe tramutata in lite.
Marta,
interpretandone il pensiero, gli accarezzò il viso. «Vai da tuo padre, ti aspetta. Giuda è un
uomo forte e determinato, ma sono certa che saprà ascoltarti».
Giosuè le
afferrò la mano, stringendola alla guancia.
«Partirò al più
presto» decise.
Durante la
cena, Matteo cercò di alleggerire l’atmosfera raccontando aneddoti su Beniamino
che, tornato dal pascolo, fece la conoscenza dello zio. Giosuè sorrideva,
cercando di scacciare i pensieri che lo tormentavano. L’immagine del fratello
maggiore, però, faceva breccia nella sua testa, battendo come il martello di un
fabbro su di un’incudine.
Quando i figli
furono a letto, organizzò la partenza.
«Domani parte
una carovana diretta a Gerusalemme, mi unirò a loro sino a Betània. Lì farò
visita a Giacomo, sarà felice d’ospitarmi. Dopodiché prenderò la via che,
attraverso le montagne, porta al villaggio di mio padre».
«Ti preparo la
bisaccia» disse Marta mettendosi all’opera.
«Porterò con
me Beniamino: conoscerà suo nonno». Si rivolse
al fratello. «Tommaso, ti chiedo di fermarti presso la mia casa: Matteo ha
sedici anni, ormai è un uomo, ma ti sarei grato se potessi dargli una mano in
mia assenza».
«Conta pure su
di me! La tua famiglia è la mia famiglia».
Giosuè di
Betania edito 2015
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