Che la scuola
italiana sia in piena crisi è sotto gli occhi di tutti; non sarò certo io a
puntare il dito o stilare una graduatoria di responsabilità. Come è uso nel
nostro paese si assisterebbe al solito scaricabarile di colpe. La nostra
società sembra essere lanciata verso il falso mito del ’più furbo’, più volte
mi è capitato di udire genitori consigliare la ‘furbata’ al proprio figlio. Scorciatoie
che disimpegnano, svalorizzando la fatica nel conquistare i propri obiettivi;
risultato: stiamo crescendo una classe dirigente del futuro disabituata ai
sacrifici, allergica all’approfondimento e allo studio. Forse dovremmo
riflettere sul fatto che lo studente soggetto all’abitudine del copiare o
portarsi i ‘bigliettini’ nelle verifiche o peggio negli esami, potrebbe essere
chi, un giorno, amministrerà il nostro conto in banca, gestirà la rotta del
velivolo su cui viaggiamo o ci opererà una colecistectomia.
Se fino a ieri il campanello d’allarme sul cattivo andamento della
scuola era l’abbandono scolastico, nella secondaria di II grado è al 4,3% (a.s.
2015/2016), oggi a far rabbrividire sono i dati desolanti emanati dopo la prima
prova scritta nel concorso del 2016 della Buona
Scuola. Dove
su
4 aspiranti maestri ne sono
stati bocciati 3 a causa di sconcertanti errori grammaticali.
Molti
insegnano da anni nelle scuole dell’infanzia del Friuli, sono giovani diplomati,
alcuni sono anche laureati. Errori imperdonabili, come l’immancabile uso
errato del verbo avere, dove la lettera H latita (“L’alunno a bisogno di…”). Le lettere
doppie scordate (“La strutura”). I congiuntivi
massacrati e alcune abbreviazioni
in stile SMS (xkè, cmq).
Immancabile l’errore che riguarda gli articoli indeterminativi
(“Un’evento”). Ma anche nel
resto d’Italia la situazione non è migliore: solo il 30%
degli aspiranti maestri ha superato la prova scritta. Nel Lazio su 10 aspiranti 8 sono stati rimandati a casa; in Veneto sono
stati promossi solo 1.604 concorrenti su 3.410; in Emilia Romagna invece sono passati
solo il 16.5%
dei partecipanti.
Una scuola che
funzioni è essenziale per la crescita dei singoli individui, ma lo è anche per
dell'intera nazione. Sia dal punto di vista sociale, sia da quello economico. La
scuola italiana è oggetto di polemiche. Le critiche che più viene mossa è l’inadeguatezza
nei confronti dei propri compiti. La comparazione internazionale dei test condotti
sugli alunni mostra, specialmente nelle aree meridionali del Paese, gravi
insufficienze nella preparazione.
Credo sia
giunto il momento di chiedere a gran voce una riforma non più procrastinabile.
Una riforma vera, che riveda i metodi, i programmi e i progetti, non l’ennesima
riforma basata su tagli e depotenziamento.
Il consiglio
di lettura di oggi è: Lettera a una
professoressa, scritto da don Lorenzo
Milani
Nel maggio del
1967 esce per la piccola casa editrice fiorentina LEF un libro dal titolo Lettera a una professoressa.
L’hanno scritto don Lorenzo Milani e gli alunni della scuola di Barbiana, una
canonica del Mugello a pochi chilometri da Firenze. Un luogo sperduto
dell’Appennino, afflitto, ancora negli anni del miracolo economico, dalla
miseria e dall’arretratezza. Un luogo di esilio dove don Milani è arrivato il 7
dicembre del 1954, a 31 anni. Niente acqua, né luce, né una strada per
arrivarci. Ci vivevano quaranta anime.
Manifesto che
ha reso celebre in tutto il mondo don Milani e la scuola di Barbiana,
"Lettera a una professoressa" ha lasciato segni profondi nella
cultura e nella società, nonostante travisamenti e strumentalizzazioni. Frutto
di una scrittura collettiva sostenuta da un imponente lavoro preparatorio e di
cesello linguistico, questo libro-icona rivendica il diritto allo studio di
fronte a una realtà scolastica che riproduceva ferocemente le diseguaglianze
sociali. E ancora oggi rivolge alla classe docente il suo appassionato appello
morale e civile, il rivoluzionario messaggio di un sacerdote convinto che un
maestro amante del vero e del giusto può cambiare il mondo. Postfazione di
Alberto Melloni. Con uno scritto di Pietro Citati.
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