Disparati
possono essere i motivi che spingono molti giovani a migrare all’estero, lo
studio, il lavoro, il desiderio di un cambiamento radicale. Le nuove tecnologie
riescono a mitigare le distanze, voli low cost, treni veloci e poi la rete, che
facilità le comunicazioni. Il momento del saluto, tuttavia, rimane
profondamente doloroso, un’emozione a cui non esiste assuefazione e ogni distacco è
come il primo; perché consapevoli che, rincasando, quell’assenza sarà
incolmabile.
Tema a cui, oggi, vorrei dedicare un mio
racconto.
Il primo come l’ultimo
Le dita
danzano leggere sulla tastiera del computer. I polpastrelli ne sfiorano appena
i tasti usurati; gli occhi fissano severi il cursore pulsante seminare una
sequela di lettere sul foglio. Il mozzicone di una sigaretta emana l’ultimo
filo di fumo, mentre l’ultimo raggio di sole autunnale, intrufolandosi
dall’abbaino, incendia il pulviscolo fluttuante nell’aria tiepida della
mansarda.
Proteso verso
lo schermo, mi sento in simbiosi con il documento elettronico: il pensiero
sgorga fluido. Scrivo freneticamente, come un felino che rincorre la preda. Il
ticchettio dei tasti, mescolandosi al sordo ronzare del computer, infrange la
malinconica assenza di vibrazioni.
Un pensiero artiglia,
spezzandolo, il filo invisibile che mi lega al lavoro. Tento di ricacciare
l’improvviso nodo alla gola che scaturisce all’idea di Martina, di quella
scintilla di vita che brilla nei suoi grandi occhi di mogano; la melodiosa voce
cristallina; la vaporosità dei capelli capricciosi. Il viso ovale e armonioso
l’ha ereditato dalla madre, mentre il naso a patata è innegabilmente il mio.
Figlia adorata la cui
lontananza s’è fatta tormento. Un oceano immenso divide ora le nostre vite:
della sua presenza esuberante, la vivace irruenza, le sfuriate adolescenziali,
le tenerezze, non restano che ricordi; malinconiche fotografie venerate come
cimeli bramando quel ponte che, etereo, ci unisce attraverso telefonate
preziose come acqua nel deserto.
La solitudine mi avvolge
impregnandomi l’anima. Malinconia di anni che, mi accorgo, sono volati via
troppo in fretta. Darei del pazzo a chi direbbe che sono trascorsi già trentuno
anni da quel sabato notte di fine giugno, quando un vento di scirocco
raccoglieva i vagiti di una piccola ranocchietta.
Un esserino che, steso, occupava a malapena il mio avambraccio. Attraverso un
rito silente, ho reciso il cordone ombelicale che legava la sua vita a quella
della madre, diventando garante della sua indipendenza.
Un egoistico rimpianto mi logora ora nell’essermi fatto alfiere di una giovane
guerriera che, affrontando la vita a piccoli passi, ha saputo farsi forte e
coraggiosa; tanto da afferrare le briglie del proprio destino, emigrando in
cerca di gloria e riconoscimenti.
E adesso la
vedo crescere attraverso lo schermo di un computer. L’inflessione della sua
parlata, che ha acquistato un accento insolito, allontana anni luce i giorni in
cui, bimba loquace, storpiava divertita i nomi.
La mia bambina che, spaventata
da un temporale, con passo felpato fuggiva dalla sua cameretta, intrufolandosi
come un topolino nel lettone. La sentivo stringersi al mio braccio, mentre il
respiro, sfiorandomi la spalla, m’infondeva un senso di tepore e tranquillità.
Mi lascio pervadere dai
ricordi, immagini ed emozioni che, come desideri inespressi, custodisco
gelosamente nell’intimo. Cosa non darei per rivivere l’ingenua magia delle
vigilie di Natale, l’euforia dei compleanni, l’agitazione e l’orgoglio del
primo giorno di scuola, quando sentii le sue dita stringermi forte la mano.
L’ansia palpabile per la maturità e per la laurea. Le grandi conquiste assieme
ai piccoli passi d’ogni giorno.
Fremo pensando al suo sorriso,
luminoso e caldo come un raggio di sole. La voce, traghettatrice di piccole
bugie e di grandi verità, capace di ferire ma anche di chiedere aiuto. Lo
sguardo da cucciolo indifeso che sa farsi tigre; occhi che hanno saputo stupire
o intenerire. Occhi che hanno versato calde lacrime: per una caduta, le
canzonature di un compagno, una delusione d’amore. Quel pianto amaro e
insanabile nella festa della mamma, quando non aveva più un angelo da
abbracciare, da emozionare con una poesia.
Quante volte ho desiderato di
poter tirare il freno, sospendendo l’inesorabile fluire del tempo, terrorizzato
nel vederla sbocciare. Quante notti insonni in attesa del suo rincasare. Siamo
cresciuti assieme nella scuola della vita: lei facendosi donna, mentre io
imparavo attraverso gli errori ad essere padre. Quanti cambiamenti abbiamo
affrontato. Lo scorrere del tempo muta le abitudini, videochat ora rimpiazzano
le calde conversazioni seduti a tavola; sms scalzano piccoli abbracci o lesti
baci sulle guance prima d’uscire da casa.
A fatica riesco ad assuefarmi
alla sua cameretta vuota, silenziosa, ordinata. Inerte subisco il tempo che, facendosi
tiranno, accelera la sua corsa bruciando i minuti nelle brevi vacanze. Mai,
però, riuscirò ad abituarmi agli addii strazianti all’aeroporto, quando sento
l’anima lacerarsi. Il rumore dei trolley e il chiacchiericcio si fanno
assordanti nel nostro silenzio: due persone che hanno fatto delle parole una
professione non trovano i vocaboli per esprimere semplici concetti. Mi limito
ad osservarla: una donna fasciata in jeans sbiaditi che, trascinando la
valigia, sembra un pulcino pronto a spiccare il volo dal nido. Contemplo il
volto, le mani, gli occhi lucidi, cercando di fissarli nella mente come
un’istantanea. Come un soldato in trincea nell’attesa dell’imminente assalto,
trattengo a stento la volontà di fuggire, afferrandole il braccio e
trascinandola via. Avvampo di gelosia osservando gli amici venuti a salutarla;
come un bambino mi sento depredato d’ogni parola, sorriso, sguardo che Martina
rivolge a loro. Pesano come macigni i granelli della clessidra che scorrono
senza che io sia al centro delle sue attenzioni. L’aria si fa solida, così come
l’ansia che mi sommerge.
L’inesorabile corsa dei secondi
brucia il tempo a nostra disposizione. Un ultimo abbraccio mi trapassa l’anima
come una lama arroventata; senza fiato, mi ritrovo a lottare con un nodo alla
gola che m’impedisce ogni parola. Solo uno stupido orgoglio da Homo fortis ac strenuus sa
arginare le lacrime, tenendo a freno la voglia di supplicarla a restare.
Orgoglio che stupidamente non mi concede la libertà di dirle: «Ti
voglio bene.» Trattengo il fiato mentre il
tetro rollio del trolley, che si allontana con lei, mi trapassa come una
raffica di mitraglia. Non v’è assuefazione agli addii: l’ultimo come il primo.
In apnea, come
un sommozzatore senza più aria nelle bombole, cerco ossigeno lasciando il
cancello d’imbarco. Con passo svelto, mi porto alla terrazza per vedere il
velivolo prepararsi al decollo. Le immagini di tre settimane si rimescolano
nella mente, mentre sento l’inesorabile senso d’abbandono avvolgermi.
Attraverso un velo di lacrime, guardo le ali staccarsi da terra e resto così,
come un vecchio barbagianni, osservando orgoglioso il suo volo libero.
“Va’ amore
mio, conquista il tuo posto nel mondo.”
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