Silenzio!
Politicanti d’avanspettacolo, vi chiedo di tacere con un giorno d’anticipo.
Fatelo per rispetto della decenza, se proprio non vi riesce di farlo in nome
della morale.
Ho tremato,
nella mia infanzia negli anni di piombo, al pensiero di prendere un treno o
entrare in una stazione. Ho respirato la speranza con il crollo dei muri e
negli anni di tangentopoli, quando il cambiamento sembrava a portata di mano e
l’umanità pareva essersi svegliata dal torpore. Suonava così bene quel ‘seconda
repubblica’; l’utopia di una politica etica era un sogno che si stava per
realizzare. Invece, a distanza di tempo, avete trasformato la politica in un
teatrino.
Abbiate la decenza di tacere, piuttosto che
cianciare parole fasulle. Abbiate almeno il coraggio di frequentare un corso di
retorica, l’arte del persuadere, prima di prenderci per i fondelli come fossimo
emeriti imbecilli. Siete riusciti a farmi rimpiangere quelle tribune elettorali
più tediose di un sermone e comprensibili quanto l’aramaico, ma in cui c’era il
rispetto per l’uditore. Ora non fate che mostrare specchietti e collanine
sperando di irretirci. Trattandoci da amebe, giocate con il nostro futuro
burlandovi a chi rilancia alla promessa più sbalorditiva. Vi atteggiate da
grandi statisti, ma siete soltanto dei nani di fronte a chi questa repubblica
l’ha fondata.
Tacete, perché
la pazienza ha un limite. Non vi sopporto più, stantii qualunquisti, vomitatori
di stereotipi e manipolatori di illusioni. Di una cosa, però, vi posso dare
merito, quando parlate mi fate sentire più intelligente.
A chi, come me,
è stanco d’essere considerato solamente un numero nell’elenco elettorale o un
cartellino da timbrare. A chi, come me, è passato dal “sognando California” al
sognando la pensione, dedico questo racconto.
La pensione
Inserisco la
moneta nella feritoia, un gesto così abitudinario che potrei farlo ad occhi
chiusi. Cadendo, la moneta produce un clangore metallico che accompagna il mio
dito sulla pulsantiera. Premo il più usurato: caffè espresso. La porta a vetri
della saletta filtra appena il fracasso dell’officina: torni, frese, presse,
una sirena che segnala il blocco di un macchinario; rumori che si fondono alla
voce di due giovani colleghi che, accanto alla macchinetta, discutono di
calcio, mentre io osservo distratto il caffè scendere a cascata nel bicchierino
di plastica. La luce bianca al neon contrasta il grigiore della giornata che
filtra attraverso i vetri satinati delle finestrelle, mentre, inesorabile,
l’orologio sbriciola i minuti della pausa.
Prelevo il
bicchiere fumante e me lo porto alle labbra. Le dita ricoperte dai calli
percepiscono appena il calore del caffè bollente, mentre il suo aroma si
mescola all’odore di olio chimico che impregna la pelle.
Fisso le mie
mani: dita tozze da carpentiere, dove il grasso e l’olio del tornio vanno ad
annerire i solchi fra le creste della pelle. Le vibrazioni del macchinario,
assorbite sino alle ossa, sembrano rimbombare nella mano in un’infinita eco,
per poi essere rilasciate attraverso un lieve tremore. Mani che, nonostante il
lungo sfregare con sapone e detergenti vari, appaiono sempre lorde. Mani di
cui, a volte, provo vergogna: tenute a pugno stretto accompagnando mia figlia
all’altare, o di fronte alla fonte battesimale, con queste maledette dita che
parevano insudiciare la candida veste di mio nipote. Mani, però, che in quasi
trentanove anni di lavoro mi hanno sempre permesso di guadagnare il pane
onestamente, senza scorciatoie o compromessi, e di questo sono fiero, anche se
al giorno d’oggi non ci si compra certo il pane con l’orgoglio.
Sorseggio il
caffè che, oggi più che mai, è particolarmente amaro. L’ultimo caffè da
operaio. Alle quattordici in punto, infatti, timbrando l’uscita chiuderò
definitivamente con la vita lavorativa. Da domani sarò in mobilità e poi giù,
in picchiata verso la pensione. Sarei un ipocrita a dire che sembra ieri che ho
iniziato: quarant’anni sono tanti e si sentono tutti.
Il miraggio
illusorio di un’indipendenza economica mi ha spinto, poco più che sedicenne, a
preferire il lavoro allo studio dell’algebra e del latino. Lasciando i banchi
di scuola per quelli assai più ardui dell’officina, diedi inizio a lunghi anni
dove la sirena chiamava alle otto ore. Il primo giorno come l’ultimo e, nel
mezzo, una fotocopiatrice che partoriva decine e decine di anni uguali a se
stessi; di tanto in tanto, quando la direzione investiva, sostituivano le
apparecchiature ma, terminata la novità, la fotocopiatrice riprendeva a sputare
giorni simili gli uni agli altri. A variare restavano soltanto le stagioni,
passando dai lunghi pomeriggi estivi, con la canicola che rende irrespirabile
l’aria pregna di polvere e sudore, alle pungenti mattine d’inverno, con le mani
che, intorpidite, faticano a manovrare gli utensili gelati, mentre il pensiero corre svelto a quel letto caldo
lasciato prima dell’alba. Il sonno evapora lentamente sulla corriera che,
dall’entroterra, porta alla periferia di Genova. La nebbia, a volte, pare
trasformare l’autobus in un fantasma diretto verso le luci della fabbrica, dove
i dialetti si confondono soffocati dal rumore e tante storie diverse
s’incrociano in un unico destino.
Sono combattuto
fra sentimenti contrastanti: bramavo il pensionamento con la stessa ansia con
cui un soldato di leva conta i giorni mancanti al congedo. Non era così, però,
che avevo sognato quest’ultimo caffè, le ultime ore in tuta blu che ormai
indosso come una seconda pelle. Sognavo una bottiglia di prosecco con i
compagni di una vita, qualche pasterella a fine turno ribattendo a scherni e
battute di spirito. Immaginavo pacche dagli amici, vigorose strette di mano ad
accompagnare magari una leggera malinconia, capace di far luccicare lo sguardo
di tutti.
Invece eccomi
qua, solo come un cane in chiesa, in questa saletta dove il silenzio indica
l’uscita dei due colleghi di cui conosco soltanto il nome. La crisi e il
riassetto della società hanno portato lo scompiglio con la cassa integrazione,
la mobilità, il riposo compensativo. Mi trovo in un turno e un reparto che non
sono i miei. A rendere più amaro il caffè, però, è la strana sensazione che
provo pensando a questo 'prepensionamento', cui è stato aggiunto un incentivo
per 'togliere il disturbo', risolvendo il problema d’esubero del personale.
So per
esperienza che nessuno è indispensabile: troppi i colleghi visti andarsene con
l’arrogante presunzione d’essere insostituibili, rimpiazzati invece senza alcun
disagio. Credevo, però, o, meglio, speravo, d’essere qualcosa in più di un
semplice numero su un cartellino. Pago, perciò, la presunzione d’essermi illuso
per la mia meticolosità, la disponibilità nei confronti delle esigenze
dell’azienda, la docile sottomissione ad ogni richiesta. Brucia la
consapevolezza d’essere di troppo, superfluo, un peso per l’impresa; così come
brucia il pensiero di ricevere soldi per andarmene: una specie di rottamazione,
come fossi un’auto vecchia o un frigorifero scarico.
Lascio la
saletta, diretto alle ultime due ore di lavoro. Sussulto quando, in lontananza,
scorgo la figura del responsabile delle risorse umane dirigersi ambiguo verso
di me. Il beffardo sorriso che si disegna sul volto vedendomi, accende la mia
fantasia. Forse mi inviterà a salire in direzione; è già capitato ad altri
colleghi prima di me. Quindi, non si sono dimenticati; forse mi consegneranno
una lettera di ringraziamento e un orologio, oppure una penna o una medaglia.
Oh, mio Dio, cosa devo rispondere? Li ringrazio? Mi sudano già le mani.
«Belandi!»
irrompe il responsabile, spazzando ogni mia fantasia. «Allora?
Sei pronto per fare il nonno a tempo pieno.» Sfoggia un gran sorriso mentre,
con una pacca sulla spalla, mi infonde entusiasmo. Mi sento finalmente una
persona e non un numero di matricola.
«Senti un po’,
ho sentito Luca dell’amministrazione» dice serio. «Ha detto che il tesserino
puoi lasciarlo in portineria quando esci, senza salire in ufficio.»
Una doccia
gelata che mi lascia senza fiato. La delusione mi piomba addosso con la stessa
potenza di una slavina.
«Grazie»
rispondo e, senza indugi, diligente come sempre, mi avvio alla mia postazione.
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