Giosuè di Betania
cap. II
Lasciarono
Sicar alle prime luci dell’alba.
Nonostante
avesse dormito poco e male, Giosuè aggredì la via con passo spedito; Beniamino
gli camminava al fianco, portando la propria bisaccia e una ghirba colma d’acqua.
La carovana, composta per lo più da mercanti, aveva al seguito anche molti
pellegrini, fra cui donne e bambini che rallentavano la marcia. Non potendo
fare altrimenti, Giosuè si adeguò all’andatura, sprofondando in un silenzio in
cui i pensieri rimbombavano nella testa come tuoni in una vallata.
Allontanandosi
dal villaggio, si lasciò alle spalle la sagoma del monte Carmelo assorbita dalla foschia. La polvere alzata dagli
animali da soma, si mescolava alla brezza che, dal mare, trasportava odore di
salsedine ed erbe aromatiche.
Taciturno, Giosuè camminava sentendo sul petto tutto il peso
dell’ansia, interrotta soltanto da scarne parole rivolte a Beniamino.
Con l’approssimarsi
a quella ch’era stata la propria terra, sentì crescere un forte senso di
disagio: pensieri simili a fantasmi ne tormentarono il sonno nei bivacchi
notturni. Se ne stava disteso, pensieroso, fissando il cielo stellato. I
ricordi riaffioravano nitidi: liti furibonde, accuse scagliate come pietre,
riflessioni che contrastavano con il clima di festa dell’accampamento.
I giorni si
susseguirono con una lentezza estenuante, e i passi divennero pesanti con l’avvicinarsi
alla meta. Beniamino camminava silenzioso, rapito dal paesaggio del tutto nuovo
per lui. Nei momenti di sosta sfuggiva allo sguardo del padre, andando a far
gruppo con i coetanei. Finalmente vedeva tramutarsi in realtà le fantasticherie
formatesi ascoltando i racconti sulla Giudea.
Presto avrebbe visto Betània e visitato il Tempio di Gerusalemme; a conclusione
del viaggio, sarebbero giunti alla città di Qumran, adagiata sulle
sponde del Mar Morto. Una cittadella alla
cui periferia sorgeva l’oasi di Zaccaria.
La carovana
raggiunse finalmente Betània. Giosuè salutò i pochi con cui aveva stretto amicizia e, lasciata
la comitiva ai margini della città, si addentrò
fra le vie conosciute in gioventù.
Posta a poche
miglia da Gerusalemme, Betània era un crocevia di carovane e mercanti: molte erano le lingue che rimbalzavano fra le case del
villaggio, così come molti potevano essere gli affari, specie per un capace
artigiano come lui. Giacomo gli aveva insegnato tutto ciò che sapeva sulla lavorazione
dell’argilla; vedovo e con due figlie femmine, aveva desiderato che fosse
proprio Giosuè a portare avanti la bottega. L’amore improvviso per Marta, però,
portò lo scompiglio nella vita dei due, rimescolandone i progetti.
Percorrendo i
vicoli animati della città, Giosuè rievocava, come fossero avvenuti pochi
giorni prima, il susseguirsi del terremoto sentimentale che gli aveva sconvolto
la vita.
Il giorno in
cui aveva conosciuto Marta, ne fu subito irretito dal
corpo esile e dai capelli neri come la notte senza luna, dal viso angelico e
dallo sguardo caldo come può esserlo la sabbia del deserto.
Il desiderio
di rivederla, di parlarle lo tormentava. Ogni
istante lontano da quell’amore corrisposto era uno
strazio cui non sapeva dar sollievo.
Una settimana
era bastata a stravolgere una vita, creduta solida quanto le mura di una città.
Sette giorni in cui entrambi si trovarono così in sintonia da non poter pensare
a un possibile distacco.
Giosuè dovette
affrontare sentimenti contrastanti, lacerato dalla lotta fra l’estasi nello
starle accanto e il tormento nei confronti di Giacomo. Unica donna rimasta
nella casa del proprio padre, infatti, Marta non poteva lasciare la Sammaria.
Stava dunque a lui dover abbandonare Betània.
Rivedendo le
botteghe, le fontane, le piazze, Giosuè non poteva credere fossero trascorsi
anni da quei giorni. Il tempo pareva essersi fermato, conservando intatta la
città; i ricordi aleggiavano nell’aria come il profumo di focaccia o lo
zampillare di una fonte. Beniamino osservava stupito lo
sguardo commosso del padre, gli occhi che
frugavano fra la gente cercando volti noti.
«Ecco, quella
laggiù è la casa di Giacomo» esclamò Giosuè a
voce alta, non controllando l’emozione di rivedere l’amico amato.
«Dio benedica
gli abitanti di questa casa» pronunciò dinanzi all’uscio.
Si affacciò
Ester, la figlia maggiore di Giacomo. Lo squadrò
e, riconoscendone le sembianze, sorrise.
«Dio benedica
te, Giosuè, figlio di Zaccaria».
Lo invitò a
entrare facendo gli onori di casa e subissandolo di domande, tanto che l’uomo
ebbe un bel daffare a soddisfarne la curiosità.
«Sarete nostri
ospiti» fu perentoria. «Mio padre non perdonerebbe l’affronto di un rifiuto».
«Accetto di
buon grado, ma dov’è ora? Ho grande desiderio di parlare con lui».
«Si trova nella
casa di Simone, che questa sera ha ospiti
importanti alla sua mensa, così ha invitato molti uomini del villaggio per
condividere la festa. Vai pure da lui è una
persona cara: ti accoglierà con piacere».
Lasciatole in
consegna Beniamino, stanco per il viaggio, Giosuè raggiunse l’abitazione che gli era stata
indicata.
Lì fermò un servitore. «Sto cercando Giacomo di Manasse».
Il padrone di
casa, sentitolo, lo raggiunse e lo invitò a dividere la mensa. Il servitore gli
porse un catino d’acqua per lavarsi le mani prima di unirsi ai commensali e gli indicò un angolo della casa. «L’uomo che cercate è
seduto laggiù».
Giosuè si
avvicinò al convivio. «Perdonate l’interruzione. La felicità e la brama di
riabbracciare un caro amico è tale da non poter attendere oltre».
Giacomo balzò
in piedi per abbracciarlo. «Giosuè, che il Signore ti benedica! I miei occhi
non fidavano più di poterti rivedere. Ma ora fatti guardare» esclamò,
squadrandolo con attenzione. «Dimmi, qual buon
vento ti spinge in questi luoghi?»
«Sono in
viaggio verso la casa di mio padre» rispose lui, accomodandosi. Gli raccontò delle condizioni del patriarca e,
quindi, del desiderio di santificare assieme la
festa.
«Porta a lui i
miei più cari saluti e la mia benedizione» lo
pregò Giacomo.
Il padrone di
casa, intanto, discuteva con gli ospiti d’onore, richiamando l’attenzione di
tutti i commensali.
«Chi sono
quegli uomini?» chiese Giosuè.
«Galilei. Sono
diretti a Gerusalemme. Vedi quello seduto vicino a Simone? I suoi seguaci lo
chiamano rabbi, maestro; molti dicono sia un profeta».
Giosuè
percepiva a tratti i loro discorsi; notava che Simone interrogava spesso
costui, desideroso di conoscerne le opinioni sui precetti della Torah e
sul futuro del popolo d’Israele. La lontananza e il vociare degli invitati
impediva, però, a Giosuè di cogliere parte dei dialoghi; tuttavia, fu colpito
dalla mitezza con la quale il rabbi si esprimeva: la sua voce giungeva
leggera nell’aria, simile al sussurro di un vento caldo. Da ogni sillaba, ogni
movimento traspariva una tranquillità contagiosa, una delicatezza disarmante.
Una donna entrò
in casa dirigendosi verso l’ospite d’onore. Il mormorio dei commensali ne
accompagnò i passi, mentre, stretto a sé, recava un prezioso vasetto d’alabastro.
Giosuè non le
badò e approfittò dell’interruzione per riprendere a parlare con Giacomo. Dopo
poco, però, la sua attenzione fu richiamata da un soave profumo che andò
spandendosi nell’aria. Rivolgendo lo sguardo al gruppo di galilei, scorse la
donna che, aperto il vasetto, ne versava il contenuto sul capo del rabbi.
Dalla
fragranza capì doveva trattarsi di olio di Nardo genuino, un unguento assai
prezioso; si domandò allora chi potesse essere costui, per ricevere un simile
gesto. Fu colpito soprattutto dall’amorevolezza del suo sguardo nei confronti
della donna.
Allontanandosi
dall’amico, cercò d’avvicinarsi al gruppo di ospiti per poterne captare ogni
gesto o parola e si rannicchiò in un angolo per
non disturbare. Uno di loro rimproverò la donna
per lo spreco che faceva di quell’unguento, affermando che avrebbero potuto
venderlo e il ricavato offrirlo ai poveri.
Ma il rabbi la difese. «Lasciatela stare; perché le date
fastidio? Ella ha compiuto verso di me un’opera buona; i poveri, infatti, li
avete sempre con voi e potete beneficarli quando volete, me invece non mi avete
sempre. Essa ha fatto ciò ch’era in suo potere, ungendo in anticipo il mio
corpo per la sepoltura»[1].
I suoi occhi mutarono: pronunciate quelle parole, la
malinconia prese il sopravvento, e il dolore e l’angoscia ne velarono lo
sguardo.
I loro occhi s’incrociarono;
Giosuè fu pervaso da una sensazione di calore e serenità: la stessa di un
focolare domestico, della voce di una madre nel cantare una nenia. Sarebbe
rimasto per ore ad ascoltarlo se non fosse stato per Giacomo che, data l’ora
tarda, decise di rincasare.
Salutato e
ringraziato il padrone di casa, lasciarono il banchetto. Attraversarono il
villaggio affiancati, senza parlare. Il silenzio colmava le vie dove i muri
delle case rilasciavano la calura accumulata durante la giornata.
«Quale
pensiero turba la tua anima?» chiese Giacomo che, conoscendolo, ne leggeva i
pensieri come fossero scritti su di una pergamena.
«Sono
dispiaciuto per mio padre» rispose, non sapendo
interpretare ancora bene i propri sentimenti. La scena della donna e le parole
usate a difenderla risuonavano nella sua mente come un’eco
fra le montagne: … me invece non mi avete sempre. Essa ha fatto ciò che era
in suo potere, ungendo in anticipo il mio corpo per la sepoltura.
Parole che ne
toccavano l’animo, mettendolo in subbuglio. Immagini che, come una finestra
spalancata su di un cielo limpido, mostravano ciò che era celato dalle tenebre
dell’egoismo. Esempio lampante che ben calzava raffrontato a Giuda. I gesti che Tommaso aveva riferito potevano apparire
uno sperpero di denaro, ma, visti con altri occhi, non erano che omaggi nei
confronti di un uomo che, dopo una vita di sacrifici, si trovava ad affrontare
la via del tramonto.
Camminando fra
i vicoli, Giosuè rifletteva a mente lucida; l’ansia opprimente di parlare al
fratello fu soppiantata da un profondo rimorso nei confronti del padre. Da
quando aveva appreso delle sue condizioni, non un solo pensiero di compassione,
malinconia o rimpianto era stato rivolto nei
suoi confronti.
Cosa n’era stato degli insegnamenti ricevuti da fanciullo?
Da quanto tempo il suo cuore si era inaridito? Aveva anteposto
le ricchezze all’affetto. Inoltre, aveva mal giudicato Giuda, accusandolo di sperperare il denaro destinato anche
agli altri fratelli, invece di accusare loro di cupidigia. Anche se gli doleva
ammetterlo, non si era preoccupato del benessere
di Tommaso, Maria, Ismaele o Rachele; il primo impulso era
stato il terrore che un giorno, caduti in disgrazia, avrebbero potuto chiedere aiuto proprio a lui.
«Amico mio»
chiese Giacomo, «cosa turba tanto la tua anima?»
Giosuè
ristette; i sensi di colpa erano una stretta al cuore. «L’avidità», con occhi
lucidi fissò lo sguardo preoccupato di Giacomo, «l’avidità ha preso il
sopravvento sui miei sentimenti, oscurando realmente ciò che, invece, v’è di più
caro».
Si confidò con l’amico, raccontandogli tutta la vicenda.
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