di Pierangelo Colombo

venerdì 23 marzo 2018

Giosuè di Betania capitolo II


 

Giosuè di Betania



cap. II


Lasciarono Sicar alle prime luci dell’alba.
Nonostante avesse dormito poco e male, Giosuè aggredì la via con passo spedito; Beniamino gli camminava al fianco, portando la propria bisaccia e una ghirba colma d’acqua. La carovana, composta per lo più da mercanti, aveva al seguito anche molti pellegrini, fra cui donne e bambini che rallentavano la marcia. Non potendo fare altrimenti, Giosuè si adeguò all’andatura, sprofondando in un silenzio in cui i pensieri rimbombavano nella testa come tuoni in una vallata.
Allontanandosi dal villaggio, si lasciò alle spalle la sagoma del monte Carmelo assorbita dalla foschia. La polvere alzata dagli animali da soma, si mescolava alla brezza che, dal mare, trasportava odore di salsedine ed erbe aromatiche.
Taciturno, Giosuè camminava sentendo sul petto tutto il peso dell’ansia, interrotta soltanto da scarne parole rivolte a Beniamino.
Con l’approssimarsi a quella ch’era stata la propria terra, sentì crescere un forte senso di disagio: pensieri simili a fantasmi ne tormentarono il sonno nei bivacchi notturni. Se ne stava disteso, pensieroso, fissando il cielo stellato. I ricordi riaffioravano nitidi: liti furibonde, accuse scagliate come pietre, riflessioni che contrastavano con il clima di festa dell’accampamento.
I giorni si susseguirono con una lentezza estenuante, e i passi divennero pesanti con l’avvicinarsi alla meta. Beniamino camminava silenzioso, rapito dal paesaggio del tutto nuovo per lui. Nei momenti di sosta sfuggiva allo sguardo del padre, andando a far gruppo con i coetanei. Finalmente vedeva tramutarsi in realtà le fantasticherie formatesi ascoltando i racconti sulla Giudea. Presto avrebbe visto Betània e visitato il Tempio di Gerusalemme; a conclusione del viaggio, sarebbero giunti alla città di Qumran, adagiata sulle sponde del Mar Morto. Una cittadella alla cui periferia sorgeva l’oasi di Zaccaria.
La carovana raggiunse finalmente Betània. Giosuè salutò i pochi con cui aveva stretto amicizia e, lasciata la comitiva ai margini della città, si addentrò fra le vie conosciute in gioventù.
Posta a poche miglia da Gerusalemme, Betània era un crocevia di carovane e mercanti: molte erano le lingue che rimbalzavano fra le case del villaggio, così come molti potevano essere gli affari, specie per un capace artigiano come lui. Giacomo gli aveva insegnato tutto ciò che sapeva sulla lavorazione dell’argilla; vedovo e con due figlie femmine, aveva desiderato che fosse proprio Giosuè a portare avanti la bottega. L’amore improvviso per Marta, però, portò lo scompiglio nella vita dei due, rimescolandone i progetti.
Percorrendo i vicoli animati della città, Giosuè rievocava, come fossero avvenuti pochi giorni prima, il susseguirsi del terremoto sentimentale che gli aveva sconvolto la vita.
Il giorno in cui aveva conosciuto Marta, ne fu subito irretito dal corpo esile e dai capelli neri come la notte senza luna, dal viso angelico e dallo sguardo caldo come può esserlo la sabbia del deserto.
Il desiderio di rivederla, di parlarle lo tormentava. Ogni istante lontano da quell’amore corrisposto era uno strazio cui non sapeva dar sollievo.
Una settimana era bastata a stravolgere una vita, creduta solida quanto le mura di una città. Sette giorni in cui entrambi si trovarono così in sintonia da non poter pensare a un possibile distacco.
Giosuè dovette affrontare sentimenti contrastanti, lacerato dalla lotta fra l’estasi nello starle accanto e il tormento nei confronti di Giacomo. Unica donna rimasta nella casa del proprio padre, infatti, Marta non poteva lasciare la Sammaria. Stava dunque a lui dover abbandonare Betània.
Rivedendo le botteghe, le fontane, le piazze, Giosuè non poteva credere fossero trascorsi anni da quei giorni. Il tempo pareva essersi fermato, conservando intatta la città; i ricordi aleggiavano nell’aria come il profumo di focaccia o lo zampillare di una fonte. Beniamino osservava stupito lo sguardo commosso del padre, gli occhi che frugavano fra la gente cercando volti noti.
«Ecco, quella laggiù è la casa di Giacomo» esclamò Giosuè a voce alta, non controllando l’emozione di rivedere l’amico amato.
«Dio benedica gli abitanti di questa casa» pronunciò dinanzi all’uscio.
Si affacciò Ester, la figlia maggiore di Giacomo. Lo squadrò e, riconoscendone le sembianze, sorrise.
«Dio benedica te, Giosuè, figlio di Zaccaria».
Lo invitò a entrare facendo gli onori di casa e subissandolo di domande, tanto che l’uomo ebbe un bel daffare a soddisfarne la curiosità.
«Sarete nostri ospiti» fu perentoria. «Mio padre non perdonerebbe l’affronto di un rifiuto».
«Accetto di buon grado, ma dov’è ora? Ho grande desiderio di parlare con lui».
«Si trova nella casa di Simone, che questa sera ha ospiti importanti alla sua mensa, così ha invitato molti uomini del villaggio per condividere la festa. Vai pure da lui è una persona cara: ti accoglierà con piacere».
Lasciatole in consegna Beniamino, stanco per il viaggio, Giosuè raggiunse l’abitazione che gli era stata indicata.
fermò un servitore. «Sto cercando Giacomo di Manasse».
Il padrone di casa, sentitolo, lo raggiunse e lo invitò a dividere la mensa. Il servitore gli porse un catino d’acqua per lavarsi le mani prima di unirsi ai commensali e gli indicò un angolo della casa. «L’uomo che cercate è seduto laggiù».
Giosuè si avvicinò al convivio. «Perdonate l’interruzione. La felicità e la brama di riabbracciare un caro amico è tale da non poter attendere oltre».
Giacomo balzò in piedi per abbracciarlo. «Giosuè, che il Signore ti benedica! I miei occhi non fidavano più di poterti rivedere. Ma ora fatti guardare» esclamò, squadrandolo con attenzione. «Dimmi, qual buon vento ti spinge in questi luoghi?»
«Sono in viaggio verso la casa di mio padre» rispose lui, accomodandosi. Gli raccontò delle condizioni del patriarca e, quindi, del desiderio di santificare assieme la festa.
«Porta a lui i miei più cari saluti e la mia benedizione» lo pregò Giacomo.
Il padrone di casa, intanto, discuteva con gli ospiti d’onore, richiamando l’attenzione di tutti i commensali.
«Chi sono quegli uomini?» chiese Giosuè.
«Galilei. Sono diretti a Gerusalemme. Vedi quello seduto vicino a Simone? I suoi seguaci lo chiamano rabbi, maestro; molti dicono sia un profeta».
Giosuè percepiva a tratti i loro discorsi; notava che Simone interrogava spesso costui, desideroso di conoscerne le opinioni sui precetti della Torah e sul futuro del popolo d’Israele. La lontananza e il vociare degli invitati impediva, però, a Giosuè di cogliere parte dei dialoghi; tuttavia, fu colpito dalla mitezza con la quale il rabbi si esprimeva: la sua voce giungeva leggera nell’aria, simile al sussurro di un vento caldo. Da ogni sillaba, ogni movimento traspariva una tranquillità contagiosa, una delicatezza disarmante.
Una donna entrò in casa dirigendosi verso l’ospite d’onore. Il mormorio dei commensali ne accompagnò i passi, mentre, stretto a sé, recava un prezioso vasetto d’alabastro.
Giosuè non le badò e approfittò dell’interruzione per riprendere a parlare con Giacomo. Dopo poco, però, la sua attenzione fu richiamata da un soave profumo che andò spandendosi nell’aria. Rivolgendo lo sguardo al gruppo di galilei, scorse la donna che, aperto il vasetto, ne versava il contenuto sul capo del rabbi.
Dalla fragranza capì doveva trattarsi di olio di Nardo genuino, un unguento assai prezioso; si domandò allora chi potesse essere costui, per ricevere un simile gesto. Fu colpito soprattutto dall’amorevolezza del suo sguardo nei confronti della donna.
Allontanandosi dall’amico, cercò d’avvicinarsi al gruppo di ospiti per poterne captare ogni gesto o parola e si rannicchiò in un angolo per non disturbare. Uno di loro rimproverò la donna per lo spreco che faceva di quell’unguento, affermando che avrebbero potuto venderlo e il ricavato offrirlo ai poveri.
Ma il rabbi la difese. «Lasciatela stare; perché le date fastidio? Ella ha compiuto verso di me un’opera buona; i poveri, infatti, li avete sempre con voi e potete beneficarli quando volete, me invece non mi avete sempre. Essa ha fatto ciò ch’era in suo potere, ungendo in anticipo il mio corpo per la sepoltura»[1].
I suoi occhi mutarono: pronunciate quelle parole, la malinconia prese il sopravvento, e il dolore e l’angoscia ne velarono lo sguardo.
I loro occhi s’incrociarono; Giosuè fu pervaso da una sensazione di calore e serenità: la stessa di un focolare domestico, della voce di una madre nel cantare una nenia. Sarebbe rimasto per ore ad ascoltarlo se non fosse stato per Giacomo che, data l’ora tarda, decise di rincasare.
Salutato e ringraziato il padrone di casa, lasciarono il banchetto. Attraversarono il villaggio affiancati, senza parlare. Il silenzio colmava le vie dove i muri delle case rilasciavano la calura accumulata durante la giornata.
«Quale pensiero turba la tua anima?» chiese Giacomo che, conoscendolo, ne leggeva i pensieri come fossero scritti su di una pergamena.
«Sono dispiaciuto per mio padre» rispose, non sapendo interpretare ancora bene i propri sentimenti. La scena della donna e le parole usate a difenderla risuonavano nella sua mente come un’eco fra le montagne: … me invece non mi avete sempre. Essa ha fatto ciò che era in suo potere, ungendo in anticipo il mio corpo per la sepoltura.
Parole che ne toccavano l’animo, mettendolo in subbuglio. Immagini che, come una finestra spalancata su di un cielo limpido, mostravano ciò che era celato dalle tenebre dell’egoismo. Esempio lampante che ben calzava raffrontato a Giuda. I gesti che Tommaso aveva riferito potevano apparire uno sperpero di denaro, ma, visti con altri occhi, non erano che omaggi nei confronti di un uomo che, dopo una vita di sacrifici, si trovava ad affrontare la via del tramonto.
Camminando fra i vicoli, Giosuè rifletteva a mente lucida; l’ansia opprimente di parlare al fratello fu soppiantata da un profondo rimorso nei confronti del padre. Da quando aveva appreso delle sue condizioni, non un solo pensiero di compassione, malinconia o rimpianto era stato rivolto nei suoi confronti.
Cosa n’era stato degli insegnamenti ricevuti da fanciullo? Da quanto tempo il suo cuore si era inaridito? Aveva anteposto le ricchezze all’affetto. Inoltre, aveva mal giudicato Giuda, accusandolo di sperperare il denaro destinato anche agli altri fratelli, invece di accusare loro di cupidigia. Anche se gli doleva ammetterlo, non si era preoccupato del benessere di Tommaso, Maria, Ismaele o Rachele; il primo impulso era stato il terrore che un giorno, caduti in disgrazia, avrebbero potuto chiedere aiuto proprio a lui.
«Amico mio» chiese Giacomo, «cosa turba tanto la tua anima?»
Giosuè ristette; i sensi di colpa erano una stretta al cuore. «L’avidità», con occhi lucidi fissò lo sguardo preoccupato di Giacomo, «l’avidità ha preso il sopravvento sui miei sentimenti, oscurando realmente ciò che, invece, v’è di più caro».
Si confidò con l’amico, raccontandogli tutta la vicenda.


Giosuè di Betania edito 2015


[1] Marco 14,6-8

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