di Pierangelo Colombo

giovedì 29 marzo 2018

Gli occhi dell'agnello


Fra qualche giorno festeggeremo la Pasqua. Pasqua è voce del verbo ebraico ‘pèsah’, passare. La vita stessa è un transito, un viaggio attraverso il tempo, conoscendo emozioni, sentimenti e sogni. Un cammino a piedi nudi sulla sabbia rovente con il desiderio di tuffarsi in mare. Un viaggio costellato da incontri ed esperienze, faticando nell’impresa di costruire qualcosa che resti di noi. Un’esperienza che conosce alba e tramonto, luce e buoi, freddo e calore. Assistiamo, a volte inermi, al susseguirsi del bene al male, della sofferenza alla gioia e troppe volte vediamo il sacrificio degli innocenti. Quello che possiamo fare forse è poco, troppo poco per cambiare questo mondo, ma se riuscissimo a unire tutti i miliardi di piccoli gesti quotidiani, forse, uno scossone a questa società malata potremmo anche darlo. Basta poco, si chiama EMPATIA, immedesimiamoci nell’altro, cerchiamo di capirne i bisogni, il dolore. L’empatia porta alla comprensione, all’inclusione e alla fraternità.

Proprio per la Pasqua vorrei dedicarvi questo mio racconto breve, augurando a tutti voi una buona festa.


 

Gli occhi dell’agnello


Sulla spianata aleggiava, sospeso nella bruma mattutina, un profondo silenzio. L’alba pareva indugiare oltre le colline brulle che disegnavano l’orizzonte. Solo un leggero chiarore stemperava il blu della notte, smorzando lo sfavillio delle stelle. La luna, infiammandosi di un riverbero rosso brace, si celava tra le fronde di un ulivo, mentre l’universo intero tratteneva il respiro.
Appollaiato sul ramo di un ulivo secolare, un giovane passero attendeva il sorgere del sole, con l’animo oppresso dalla mesta atmosfera che da giorni inquietava la natura: nemmeno un belato giungeva dai pascoli degli armenti; gli uccelli, silenti, non si alzavano in volo che per brevi tragitti. Le volpi s’erano rifugiate nelle tane, mentre nessuna farfalla spiegava le proprie ali a colorare l’aria.
L’uccellino rabbrividì; nella testa mulinavano ancora le immagini, le emozioni, le paure vissute nelle ultime ore.
Tutto ebbe inizio quando, cedendo alla curiosità, s’era avvicinato alla grande città chiamata santa; carovane di uomini, merci e animali, ne percorrevano le strade varcandone le porte. Una folla chiassosa animava le vie, assieme al belato degli agnelli che ne accompagnavano il passo.
Intrigato, aveva planato sopra le teste della gente con brevi e vigorosi battiti d’ali, sfiorandone quasi i pensieri. Poggiandosi ora su di una stuoia, ora sulle travi di un portico, s’accostava alle persone.
Un uomo, seduto sulla groppa di un asino, attirò la sua attenzione con gesti pacati, la voce calda e gli occhi dolci quanto il miele.
Il passero capì di potersi avvicinare senza alcun timore: da quell’uomo s’espandeva una forza invisibile, la stessa energia del sole. In lui erano racchiusi la potenza e il mistero del creato.
La folla iniziò a declamare inni di gioia, agitando lunghe fronde di palma e stendendo dei mantelli sul suo cammino; il giubilo fu così grande da spaventare il passero facendolo fuggire.
Tale fu la meraviglia per quell’incontro, che nei giorni successivi seguitò a cercare quel volto; una ricerca vana ma caparbia, perseguita intrufolandosi nei davanzali delle case più umili.
Una strana inquietudine, però, si sviluppò con il trascorrere delle ore: un angoscia montante come l’incessante belare degli agnelli che riecheggiava fra le vie della città. Un verso cupo, irrequieto, simile al pianto di un bimbo strappato dalle braccia della madre.
Il giovane passero vagò ansioso e turbato da quell’atmosfera lugubre, finché non s’avvicinò al grande tempio, dove la folla era più numerosa e indaffarata, e quel belare si udiva più forte.
Volò oltre il colonnato, varcando la soglia di quel luogo sino a ritrovasi dove gli agnelli, con lamenti strazianti, venivano immolati sull’altare fra volute d’incenso e mirra.
Inorridì nel veder spegnersi la fiamma della vita in quegli occhi limpidi come l’acqua. Tale fu l’orrore, che fuggì lontano: solo il desiderio di scappar via senza voltarsi, con il cuore in gola, mentre i belati parevano seguirlo, quasi volessero afferrarne le ali a trattenerlo.
Vagò per giorni oppresso, mentre lo straziante belare echeggiava nelle sue orecchie.
Un pomeriggio, volò su di una collina brulla, dove sul culmine dell’arida sassaia, spiccavano quelli che parevano tre alberi spogli e privi di vita. Esausto, si posò sul legno grezzo di uno di questi, inorridendo nel vedervi crocifisso un uomo.
Il primo impulso fu di fuggire lontano, ma qualcosa ne impedì i movimenti. Una corona di spine ne cingeva il capo. Il volto irriconoscibile: tumefatto, coperto di fango, sudore e sangue, mentre un faticoso rantolo ne suppliva il respiro.
I loro sguardi s’incrociarono e il passero riconobbe, dietro la maschera di dolore, colui che aveva tanto cercato.
Le tenebre calarono, smorzando la luce nei sui occhi, e la fiamma vitale si affievolì.
Fissandone lo sguardo limpido e innocente, il passero lo associò a quello di un agnello. Non astio, rancore o ira, ma una disarmante pietà: lui, morente, provava una profonda compassione per chi ne aveva causato le pene.
Una folata di fumo, alzatasi da un fuoco poco distante, investì il piccolo pennuto, accentuandone il senso d’asfissia, mentre nella sua mente aumentava quell’assordante belare dell’agnello sacrificale.
L’uomo chinò il capo per non rialzarlo più.
Il silenzio calò come un sudario sulla terra, azzittendo ogni creatura; nella testa del passero cessò il belare lancinante. Terrorizzato, l’uccellino volò via, rifugiandosi fra le fronde di un ulivo solitario, dove rimase ammutolito e ansioso.
Attese tutta la notte e poi il giorno dopo e la notte che ne seguì. Al sorgere del nuovo giorno, il sole stava per scacciare il senso di oppressione, quando un soffio tiepido accarezzò la terra. Un alito di vita che smosse appena le fronde dell’ulivo e infuse nel piccolo passero una sensazione di benessere.
Il canto degli uccelli esplose verso il cielo, innalzando un osanna, mentre una luce pura, intensa ma non abbacinante, si diffuse in ogni dove, un istante prima che il sole sorgesse.
Nel passero rinacque l’energia vitale, assieme alla voglia d’unirsi all’inno alla gioia che si propagava nell’aria come cerchi su di uno specchio d’acqua.
Percepì una presenza ai piedi dell’albero, un passo felpato. Incuriosito, volò sui rami più bassi. L’uomo che aveva visto morire sulla croce, camminava a piedi scalzi, dai suoi occhi era scomparsa ogni ombra di dolore, sostituita da un amore smisurato, puro e fulgente.
Il passero, però, non provò paura, ma una sensazione inspiegabile di gioia e meraviglia. Senza riflettere, intonò una melodia armoniosa in suo onore, salutandone, a suo modo, il ritorno.
Lusingato, l’uomo si fermò ad ascoltarne il canto, ricambiando il saluto con un sorriso più dolce del miglio impastato con del miele.


Edito come prologo in: Giosuè di Betania 2016

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