di Pierangelo Colombo

venerdì 30 ottobre 2020

I RIBELLI DELLA MONTAGNA



‘È finita!’ 
Il verdetto deflagra nella testa di Sandro quando perde l’equilibrio. A fermarne la corsa è una radice affiorante dal suolo, mentre le mani, protese ad attutire la caduta, infilandosi fra dei rovi scoccano una frustata di dolore che saetta dritta al cervello. Una scossa che ne accelera i movimenti; trovandosi a carponi, estrae le mani dal cespuglio e, aggrappandosi a un arbusto, si risolleva macchiandone la corteccia con il sangue. Il ginocchio destro gli duole: attraverso lo squarcio dei pantaloni, scorge l’abrasione. Non ha tempo, però: il latrato dei cani che gli danno la caccia lo forzano a riprendere la fuga senza recuperare il fiato, senza poter decidere la direzione da prendere; deve solo correre il più veloce possibile in linea retta, risalendo il crinale della montagna. Respira sbranando l’aria come se stesse per finire; l’affanno zittisce la foresta, lasciando solo l’eco dei latrati.
Il cuore sta per esplodere, incapace di sostenere ancora la corsa; l’aria gelida non basta a smorzare l’incendio che divampa nella gola arida. Lo sconforto ha il sopravvento sull’istinto di sopravvivenza; se dovesse primeggiare, imporrebbe a Sandro di abbattersi su uno dei nevai che maculano la foresta, in una resa agli aguzzini. 
Sospende la fuga poggiandosi di spalle a un leccio; ingoia saliva che spreme dalla lingua ridotta a una spugna secca. Cerca inutilmente di sospendere il respiro per captare se, fra l’abbaiare dei cani, si odano anche le urla dei tedeschi, segnale di un eventuale avvicinamento. I polmoni, però, rifiutando ogni ordine, continuano a ingoiare aria spingendo il cuore verso la gola.
La caparbietà della vita sprona il ragazzo a riprendere la fuga; sfila sgraziato fra i tronchi coperti di muschio, con una falcata zoppa che non rende onore al suo nomignolo, Vento, reminiscenza dei giochi littoriali da matricola universitaria. Un appellativo promosso a nome di battaglia dai compagni di resistenza.
La foresta si fa fitta, la luce fioca di un sole dicembrino filtra a stento tra le fronde dei lecci. Oltrepassata una china, Vento perde il contatto sonoro dei cani; le ginocchia cedono all’improvviso gettandolo a terra. Tenta di rialzarsi, ma delle convulsioni allo stomaco lo piegano facendogli rimettere bile.
Il silenzio degli inseguitori lo disorienta: potrebbero essere lontani, oppure sul punto di afferrarlo. Percorso da brividi, riprende il passo e cammina claudicante, ubriaco di sfinimento; fa per superare un cespuglio quando gli frana la terra da sotto i piedi. In un istante si ritrova a scivolare lungo un ghiaione, guidando una piccola frana. Discesa che termina in un torrente; l’acqua gelata spazza via ogni torpore dai muscoli che, dando fondo alle ultime energie, lo trascinano sulla sponda sgusciando al riparo di un arbusto.
Sentendosi al sicuro, si rannicchia per non dissipare calore, quasi a trattenere la vita. I pensieri prendono il sopravvento sull’adrenalina. Una certezza più che una considerazione: qualcuno ha tradito.
Il pensiero logico si riordina, mettendo in fila gli avvenimenti. I volti dei compagni escono dalla bruma dell’affanno, tornando nitidi: Nibbio, Pablo, Lampo e il Grigio seduti in cerchio nella riunione a organizzare l’azione, in quella che sarà la loro ultima notte. Qualcuno è stato falciato dalla prima sventagliata di mitra. Li ha visti cadere faccia in avanti; di spalle, non è riuscito a riconoscerli. Nella concitazione captava solo la voce di Nibbio, il caposquadra, che ordinava la ritirata. Ma i tedeschi sparavano come forsennati, una potenza di fuoco che riduceva i colpi dei loro Mab 38 a delle mosche che volano in senso contrario a uno sciame di calabroni.
“Via, Via!” urlava Nibbio, un ordine che rimbalzava in un passaparola coperto dalle deflagrazioni e il sibilo dei proiettili. Vento è stato fra i fortunati. Il suo compito, nell’azione, avrebbe dovuto essere quello di copertura alla fuga del commando a raid ultimato. Anche se, dalla postazione riparata, ha potuto ben poco contro i mitragliatori nemici che falcidiavano i compagni.
Qualcuno ha tradito. L’obiettivo era sabotare la piccola centrale idroelettrica, presidiata da un esiguo manipolo di tedeschi; nell’ultimo sopralluogo non erano state avvistate mitragliatrici. Il commando si era equipaggiato con armi leggere, inefficaci in quella che si è rivelata un’imboscata.
I caricatori di Vento si sono svuotati rapidamente, annullando ogni piano di ritirata. Disperato, contava gli ultimi colpi, prendendo tempo, cercando una via d’uscita. Poi, l’esplosione: Nibbio, l’unico ad avere delle granate, si è sacrificato dando un’ultima possibilità di fuga ai compagni.
“Via! Nel bosco, via!” ha urlato, lanciando una seconda bomba.
Gettato il fucile, Vento si è dato alla fuga. Quasi subito è cessata la buriana di colpi e il silenzio è calato sulla sua corsa; un silenzio che rivelava un massacro, un silenzio spazzato dai cani, lanciati all’inseguimento dei pochi superstiti.
In un giorno così assurdo, in una guerra così dissennata, persino il tempo ha perso ogni misura; stretto a sé, Vento non coglie lo scorrere dei minuti e delle ore. Vorrebbe fermare la vita nel tepore di sicurezza sotto l’arbusto. Il suo mondo è crollato nel giro di pochi minuti, gli amici passati a un’eternità immutabile.
Il crepuscolo tinge di un rosa slavato il cielo grigio; gli abiti bagnati amplificano il gelo, percuotendo il ragazzo con delle convulsioni. Vento sa che deve rimettersi in cammino, ma la volontà è debole: sarebbe più semplice arrendersi a un sonno consolatore. Lasciarsi avvolgere da una notte senza luci, dove il futuro è ostaggio del male che lo riduce a incubo. Una notte priva di speranza nell’alba.
Si solleva con fatica e gli occhi si colmano di lacrime, spillate dal dolore fisico, ma anche dalla consapevolezza d’essere sopravvissuto. Vita che irrompe prepotente reclamando i bisogni accantonati: le fauci secche chiedono acqua; Vento le soddisfa, affogandole nella corrente gelida del torrente. Beve con avidità, sentendo il liquido scivolare nello stomaco.
L’oscurità scende repentina sulla foresta, assorbendo ogni forma; il ragazzo deve orientarsi con l’udito, seguire il corso d’acqua che lo porterà sicuramente a valle. Procede a tentoni, piccoli passi per non inciampare. Percorre un tratto che non saprebbe quantificare: potrebbe essere la lunghezza di un campetto di calcio o l’intera via Emilia; ogni percezione spaziotemporale si è dissolta nella notte. Anche la ragione, gravata dalla stanchezza, inizia a vacillare: s’insinua l’idea d’essere morto nell’imboscata e ora, fantasma, vaga nel limbo del tempo.
A scuoterlo è l’odore di fumo captato dalle narici; forse un focolare, dato che vi distingue l’aroma di zuppa, probabilmente di cavoli. Usando l’olfatto come una bussola, si lascia il corso d’acqua alle spalle per addentrarsi nella boscaglia. Non cammina molto prima di sbucare in una radura. Gli occhi riprendono il predominio dei sensi scorgendo, a un centinaio di passi, una luce, una finestrella. Una malga.
Avvicinatosi di soppiatto, si acquatta sotto la finestra illuminata, e origlia, captando una litania che non afferra. Si solleva, guardando attraverso il vetro, e scorge le figure di due anziani seduti dinanzi al camino acceso, mentre una terza, una ragazza visibilmente gravida, è seduta in disparte e, tenendolo nella mano destra, sgrana un rosario conducendone la preghiera.
Vento non vorrebbe disturbare, mettere in pericolo della povera gente chiedendo aiuto. Il tepore del fuoco, però, è invitante, così come il profumo della zuppa. I visi dei due vecchi gli ricordano i nonni materni, due persone straordinarie, che mai vorrebbe vedere in pericolo. Desiste, così, dal chiedere asilo. Percorre il perimetro della casa e, sul versante opposto, trova una stalla. Apre piano l’uscio per non spaventare le bestie. Dall’odore riconosce subito la presenza di capre. Qualche timido belato sembra salutarlo mentre, a tentoni, attraversa il piccolo gregge cercando un angolo dove appartarsi. Trovato un mucchio di paglia pulita, vi sprofonda; il tepore ha gioco facile nel vincere stanchezza e fame, ed è subito sonno.
A risvegliarlo uno strattone. Vento apre gli occhi che, accecati dalla luce del giorno, intravedono la figura di un uomo. Stropicciandosi gli occhi, mette a fuoco l’immagine: dinanzi a lui c’è il vecchio della malga che gli punta addosso una forca di legno. Dietro di lui, appena fuori l’uscio spalancato dell’ovile, c’è la vecchia che, spaventata, tiene la mano a coprirsi la bocca.
Il vecchio squadra i vestiti logori, il ginocchio ferito e il viso sporco di fango del ragazzo; risoluto, gli fa cenno, con la forca, di sollevarsi.
«Mi chiamo Sandro. Mi sono perso» lo rassicura Vento.
«Sei un bandito?» chiede il vecchio, senza astio.
«Sì».
Vento non vuole mentire.
Il vecchio abbassa la forca, forse spiazzato dalla sincerità.
«Qua dietro c’è una fontana». Indica l’uscita. «Portagli del sapone e dei vestiti di Marco» dice alla moglie. «Adesso ti lavi» ordina al ragazzo, «ti cambi e te ne vai. Portati via i tuoi stracci e gettali il più lontano possibile da qui».
«Grazie» risponde Vento, consapevole del rischio che affronta il vecchio aiutandolo.
Zoppicando lascia l’ovile, mentre il vecchio rientra nella baita. Raggiunta la fontana, si sciacqua il viso. L’acqua gelata è un tonico che scuote i sensi. La vecchia lo raggiunge, gli porge un pezzo di sapone e, posati i panni, rincasa. Il ragazzo si lava velocemente: non vuole creare problemi, intende allontanarsi il prima possibile.
L’aria che scende dalla vetta è gelida, il cielo promette neve da un momento all’altro. Vento si riveste in fretta, raccoglie gli stracci facendone un fagotto e si volta verso la casa; vorrebbe salutare, ma non scorgendo nessuno s’incammina.
«Aspetta!» La voce lo raggiunge di spalle. Voltatosi, vede la vecchia sull’uscio che gli fa cenno di avvicinarsi.
«Buon Natale!» gli augura la donna, porgendogli un pezzo di pane nero. Vento aveva dimenticato il Natale, eclissato dalla guerra.
«Nostro figlio Marco è disperso in Russia» spiega lei. Vento, conoscendo l’economia di parole della gente di montagna, intuisce in quel dono la preghiera di una madre affinché il proprio gesto sia ricompensato, dalla provvidenza, nei confronti del figlio.
I due si fissano negli occhi; Vento vorrebbe abbracciarla, ma sa che sarebbe straziante per lei, così, chinato il capo, la ringrazia: «Che Dio vi benedica».
Da quanto tempo non evocava la divinità in senso positivo, per benedire e non per bestemmiare la sorte. Dio, che lui stesso aveva maledetto abiurando ogni credo. Dio, di cui ora ne implora l’esistenza per ricompensare quelle persone.
«Anna?» La voce del vecchio è una scure che trancia il legame fra i due. «Anna, corri!» ordina perentorio. Il viso della donna si fa serio, l’ansia scansa la malinconia nei suoi occhi. Senza salutare rincasa, lasciando l’uscio socchiuso. Vento è perplesso, incerto se attribuire al vecchio la volontà di allontanarlo oppure, udendo il tono concitato della voce, pensare a una emergenza. Il pensiero corre alla ragazza gravida.
Avvicinandosi all’uscio socchiuso, sbircia all’interno della casa: il vecchio avverte la donna che alla nipote sono iniziate le doglie. La vecchia attraversa la stanza, afferra una pigna di pezze dirigendosi nell’altra stanza. Vento bussa sull’uscio e, senza attendere, s’intrufola nella casa.
«Se serve aiuto, ho studiato medicina» dice, anticipando ogni reazione del vecchio. «A Modena» precisa. In realtà, aveva studiato veterinaria; faceva praticantato prima di fuggire in montagna dopo l’8 settembre. Non aveva mai aiutato a nascere nessuna creatura, tantomeno bambini.
«È nostra nipote, sfollata da Carpi» spiega il vecchio. «Ha perso tutto» aggiunge, come monito di riguardo.
Vento si toglie la giacca e, rimboccatosi le maniche, si fa versare dell’acqua calda insaponandosi le mani. Il vecchio lo aiuta e, dopo avergli passato un canovaccio pulito, lo invita a entrare nella camera da letto.
Entrando, Vento sente richiudersi l’uscio dietro di sé; il vecchio resta fuori, rispettando il proprio ruolo. Vento rabbrividisce vedendola riversa sul letto, madida di sudore e bianca quanto un cencio; si rende conto che non può tornare indietro: ha fatto il passo più lungo della gamba e ora teme di cadere. La vecchia lo guarda, stupita, ma senza fare domande: è chiaro che si fida del marito.
Il travaglio dura l’intera giornata; le contrazioni si alternano fra picchi ravvicinati e momenti di riposo. Durante la calma, il ragazzo ripesca nella memoria la teoria appresa sui libri di testo; durante le crisi, invece, recita mentalmente il padrenostro in latino, imitando la vecchia.
E già notte fonda quando, sfinita, la ragazza inizia il parto. Il primo sospiro di sollievo arriva nel vedere spuntare la testa del bambino: non è podalico. La nonna aiuta la nipote incitandola a spingere e detergendole il sudore. Vento vede prima il viso del neonato, poi le braccia assieme al busto e, infine, le gambe. Lo sorregge con mani tremule, temendo di fargli del male.
«È una femminuccia» informa le donne. «È uno scricciolo, ma è sana». Stato di salute convalidato dal sonoro vagito in risposta alla sculacciata. Tagliato il cordone ombelicale, consegna la neonata alla madre che, stremata e raggiante, la stringe a sé.
Lasciando la camera alle tre donne, Vento va a rassicurare il vecchio.
«Resti con noi, oggi» lo invita l’uomo.
«Meglio di no, per il bene di tutti» risponde, porgendo la mano per commiato. Dalla finestra s’intravede il lucore dell’alba.
«Aspetti!» lo ferma il vecchio e, direttosi alla credenza, prende del formaggio.
«No, grazie» lo anticipa il ragazzo, «servirà più a loro». Indica la camera da letto. «Mi avete già dato tanto: la fiducia nel futuro, la certezza che al termine di ogni notte, anche la più buia, c’è sempre un’alba radiosa».
Il vecchio gli si avvicina e gli stringe la spalla con una mano.
«Che nome le darete?» chiede Vento, prima di uscire.
«Oggi è santo Stefano: la chiameremo Stefania».
«Stefania» ripete, soppesandone il suono. «È un bel nome».
Seguendo il sentiero si allontana, zoppicando verso la valle. Radi fiocchi di neve cadono aggrappandosi alla sua giacca. Non sa cosa lo aspetti in futuro, ma sa che non può arrendersi, così come non si arrende la vita. Deve lottare anche per Stefania, perché tutti meritano un futuro migliore. E, ripensando ai compagni, intona un canto: «Siamo i ribelli della montagna, viviam di stenti e di patimenti, ma quella fede che ci accompagna sarà la legge dell’avvenir…»


Leggete e divulgate liberamente, non dimenticate, però, di menzionare l'autore. 😉