di Pierangelo Colombo

sabato 30 giugno 2018

Buon fine settimana

“I libri erano qualcosa di speciale, qualcosa di davvero speciale. Leggevo molte pagine ad alta voce e mi piaceva il suono delle parole, il loro linguaggio.”


Bob Dylan 

venerdì 29 giugno 2018

Incontro con l'autore; Willy Piccini.


Sebbene vada dicendo in giro che la sua principale occupazione è quella di bagnante, Willy Piccini, nato il 29 luglio 1948 a Trieste, in casa, nel popoloso e popolare rione di San Giacomo, è un regista e attore dialettale triestino. La definizione che preferisce, rivolta a se stesso, è quella di “uomo di Lettere” che lui immagina lo possa far identificare non con un postino, ma con uno scrittore. 
Libri pubblicati: “Una corsa incontro al passato” (Andrea Oppure Editore, 2006) ha ottenuto e ottiene tutt’ora un buon successo a Trieste, lettera di complimenti da parte di Claudio Magris compresa. Segnalazione di merito al Premio Letterario “Massa, citta fiabesca di mare e di marmo” (2011).  
“Jacomo, un triestino anomalo” (Ilmiolibro, 2012) ampliata trasposizione su carta di tre conferenze da lui tenute sulla triestinità di James Joyce. Segnalato anche nella prestigiosa rivista di clinica e cultura psicoanalitica “LETTERa” 
“La nostra storia”. Sempre nel 2012 ha collaborato, come scrittore, con due psicoterapeute di Jonas Trieste, le dottoresse Natalia Filippelli e Francesca Perini, per un lavoro di gruppo con gli adolescenti del Villaggio del Fanciullo di Opčine-Opicina (TS) conclusosi con la stesura del libro pubblicato nel 2013 dalla tipografia del Villaggio. 
I suoi racconti, pubblicati a tutto gennaio 2018 in oltre 30 antologie, svariano dalla favola al giallo, al memoir, al sociomemoir e hanno ottenuto vari riconoscimenti in Concorsi Letterari. Finalista al Concorso Internazionale “Mario Soldati” (Torino 2014) con una raccolta di racconti e tra i dieci finalisti a Perugia (2013) con “Tra perdite e stelle” (nono posto), a Ponsacco (2014) con “Un topino per amico…” (sesto posto), a Malnisio (in antologia - 2017) con “Una lunga nottata”, a Imola (2017) con “Mamme indimenticabili”, a Genova con “We wish you a Merry Christmas” (in antologia – 2017) a Roseto (Te) “Chi trova un amico” (sesto posto, in antologia - 2018) può vantare:
Segnalazione speciale:
“Un frisbee avanti lettera” (Grottammare [AP] 2015) 
“Un giovedì a Plaza de Mayo” (Ruda [UD] 2016)
Menzione d’onore: 
“Sei amici per la pelle” (Trieste 2007) 
“I giorni dell’addio” (Torino 2013) 
“Un uomo, niente di più” (Roma 2014) 
“A Baires, un giovedì” (Torino 2014 e Abano Terme 2014) 
“Un dolce amaro salato mare” (Roma 2015)
“Se scompare un cittadino” (Sesto Fiorentino [FI] 2015)
“Quattro case. Della felicità e delle pene” (Città di Cologna Spiaggia-Giulianova [TE] 2015)
“Il sole sorgerà ancora” Portovenere [SP] 2017)
“Polvere di stelle” [Roma 2017]
Quarto posto: 
“L’invenzione del codice fiscale” (Grottammare [AP] 2014)
“Corrispondenze” (Vasanello [VT] 2017)
Terzo posto:
“Un triste distacco” (Trieste 2005), 
“Colpa di Joyce” (Trieste 2009), 
“Il primo dente non si scorda mai” (Città della Pieve [PG] 2011), 
“Cinque in un baccello” (Grottammare [AP] 2013), 
“Il mare ed io” (Città della Pieve 2014),
“Schegge di Natale” (Erice [TP] 2016),
"El primer diente no se olvida jamás" (Varese 2017)
“Di giovedì per sempre” (La Spezia 2017)
Secondo posto: 
“Il generoso Dento da Dentiland” (Mellana di Boves [CN] 2006), 
“Le più gettonate” (Trieste 2008), 
“La memoria come attesa” (Sant’Angelo Lodigiano [LO] 2012), 
“Un pomeriggio particolare” (Ortucchio [AQ] 2017)
Primo posto:
“Festa di compleanno” (Trieste 2005), 
“Settimo: non rubare” (Grottammare [AP] 2012), 
“Frammenti a Trieste” (Malnisio [PN] 2013). 
“Tramonto sul mare anni ‘60” (Trieste 2014)
“Alice non lo sa” (Città di Cologna Spiaggia-Giulianova [TE] 2016)
Da sempre collabora a varie riviste. Ha tenuto e tiene tuttora conferenze su James Joyce, Claudio Magris, sul libro “Danubio”, dello stesso Magris e sui “maledetti”, incrocio tra poesia e pittura. Anche se ne esiste già uno ufficiale, ha reinventato un giro joyciano per le vie di Trieste, creandone uno a sua misura, presumibilmente meno serioso e giudicato piuttosto divertente, in occasione di un colloquio franco-italiano su “Joyce e l’arte. Supplenza, sublimazione, sinthomo” Il positivo esito ha incrementato le vendite del suo libro sull’autore irlandese e lo ha indotto a ripetere il giro più volte per Enti ed Associazioni Culturali varie, tra cui il prestigioso Circolo dei Lettori di Torino. Ha redatto alcuni scritti in lingua spagnola traducendo anche alcuni dei suoi racconti premiati, considerevolmente aiutato da sua moglie Maria Teresa Rodriguez, argentina, psicoanalista e psicoterapeuta di Jonas, membro analista di ALIpsi e docente dell’IRPA di Milano e di Grottammare. Ha portato uno di questi lavori, accompagnato da aneddoti e curiosità, nelle varie classi che studiano la lingua spagnola alla Scuola Media Divisione Julia (TS), grazie all’interessamento della professoressa Giovanna Aldini. Impegnato con incontri di vario genere presso le Università della Terza Età e delle Liberetà dove tiene anche un laboratorio di Scrittura (ri)creat(t)iva. Negli ultimi anni di laboratorio ha curato la pubblicazione di tre libri con i lavori degli allievi (“Quelli che… amano la scrittura” pagg 214, “Quelli che… amano ancora la scrittura” pagg 284, “Quelli che… non si stancheranno mai di amare la scrittura” pagg 172, editi da Ilmiolibro 2015, 2016, 2017). Nel 2016 membro di giuria del Conc. Letter. Naz. Città di Grottammare (AP) sotto la presidenza di Massimo Fini, giornalista, scrittore, drammaturgo. Confermato nel 2017 e 2018 con la presidenza di Franco Loi, massimo Poeta dialettale vivente. Nel 2017 membro di giuria al Conc. Letter. di Cologna Spiaggia (TE), confermato nel 2018. Ampie informazioni su Willy Piccini si possono trovare (meno del dovuto, in effetti, da anni non aggiornato, gli ultimi anni di più su facebook) sul suo sito www.willypiccini.it 



Quest’oggi abbiamo il privilegio di ospitare sul nostro blog l’autore Willy Piccini, poliedrico artista capace di combinare una verve irrefrenabile con del sano umorismo. Un vero portento della natura, che iniziamo con il ringraziare per la cortese disponibilità.

-Scrittore, sceneggiatore, attore e regista di teatro dialettale, relatore in conferenze su Joyce e Magris, gestisci un laboratorio di scrittura creativa, giornalista, opinionista e polemista, giurato in concorsi letterari a livello nazionale. Sei inarrestabile, ma dove trovi le energie?
-Mah, non ho risposte precise. Diciamo che ho sempre avuto l’argento vivo addosso, se ci fosse stato, da bambino, mi avrebbero riempito di “Ritalin”. Sono stato uno dei più grandi conoscitori dei corridoi scolastici della provincia di Trieste: una vita fuori dalla porta! Costantemente beccato soprattutto per le risate, in ogni caso, non per cattiverie. Facevo ridere e, più pericoloso, mi facevano ridere. Non riuscivo a trattenermi e mai servirono, a evitare l’allontanamento, le mie giustificazioni che la colpa era di questo o quell’altro sciagurato compagno. C’è il fatto poi che non dormo mai, e qui mia moglie, che per praticità d’ora in poi chiameremo MT, vi direbbe che non è vero, ma mente! Se dormo, dormo pochissimo e male anche se non è che ne gioisca troppo perché, a causa di ciò, mi sono accorto che i miei neuroni se ne stanno andando a peripatetiche, ma tant’è, meno dormi e più guadagni prezioso tempo da dedicare ad altre attività. Quel che è certo è che non m’infastidisce affatto, non lo considero insonnia e non ho ancora mai pronunciato, in settant’anni di vita, “ho sonno” o “sono stanco”. D’altro canto non c’è niente che mi disturbi particolarmente, né il caldo né il freddo, sole o pioggia, né mi molesta qualsivoglia rumore. Uso dire “noi di Kripton siamo imperturbabili”, anche se proprio per questo la mia kriptonite c’è, e si tratta del giro d’aria, l’unica cosa che temo perché, se esposto, rischio malattie da raffreddamento che magari sono spiacevoli per tutti, ma per me si tratta di un dramma perché si scatenano catastrofiche cefalee da cui non ho difese. Cefalea che risale a metà maggio del 1955, ricordo perfettamente il primo attacco, immagino un tentativo da parte della Natura di bloccarmi in qualche modo. Dal ’90 hanno trovato la molecola che mi salva quasi sempre, ma in concomitanza col raffreddore, ripeto, è il disastro (per giorni e giorni). 

 -Quando hai iniziato a scrivere?
 -Beh, qui bisognerebbe partire da lontano. È stato Umberto Eco a dire che chi non legge non può scrivere, mentre è conseguenza inevitabile, per chi legge molto, pensare di scrivere. Il mio primo libro arrivò agli inizi della scuola elementare, 1954, per San Nicolò (6 dicembre, il Babbo Natale triestino, e già qui fa capolino la nostra diversità), seguito da tutti i libri di fiabe e man mano da quelli per ragazzi. Verne assolutamente in testa, sempre entusiasmante, ma sicuramente non posso dimenticare Stevenson, Melville, Twain, solo per citarne alcuni, e tutti i loro meravigliosi personaggi. Non ho mai apprezzato “Cuore”, che mi fu in ogni caso regalato, ma non era di certo il mio genere. Io sognavo la Vladivostok di Michele Strogoff, Tom Sawyer, l’Ishmael di Moby Dick, Long John Silver, le isole del Sud, non ragazzini retorici e moraleggianti. Ci fu un momento di transizione, la dura adolescenza, quando non si è né carne né pesce, in cui il mio interesse per la lettura andò decisamente scemando. Mia mamma vedeva ombre in qualsiasi mio atteggiamento e mi trascinava continuamente a visite mediche di controllo. A una di queste, vedendomi particolarmente apatico, il medico disse: “Ma el ga qualche interesse ‘sto ragazo?” “Solo balon (calcio ndr)” disse mia mamma. “Tropo poco!” rispose il dottore. A parte che non era vero perché seguivo moltissimo anche il ciclismo, ero e sono tuttora tifoso di Rik Van Looy (85 anni il 20 dicembre), ma stavo per infilare una svolta determinante divenendo preda assoluta del demone della lettura. Un tardo pomeriggio, terminate le lezioni, accompagnai Piero T, mio compagno in prima superiore, poi divenuto caporedattore del Piccolo, il quotidiano della nostra città, alla Biblioteca del Popolo dove davano i libri a prestito. Già all’ingresso fui inebriato dall’odore di tutti quei libri e dalla sacralità del luogo. Presi, diviso in tre volumetti, “Vent’anni dopo” di Dumas e ne rimasi affascinato. Riconsegnatili, presi tre volumoni con le opere complete di Daniel Defoe, scoprendo senza volerlo, ma con piacere, l’erotismo di Moll Flanders. Guai se mia mamma, il cui mito era Maria Goretti, lo avesse saputo, ma io la rassicuravo che erano tutti racconti alla Robinson Crusoe. Rilessi, integrali, i racconti che avevo già letto condensati per ragazzi di Swift, Melville e Stevenson assieme ad altre loro opere. Scoprii Poe, Goethe e tanti altri. Con i primi guadagni cominciai a comperarmeli i libri e, scoprendo anche la saggistica, acquistai tutti gli scritti di Sir Bertrand Russell che m’influenzò fortemente e concorse alla mia formazione. Poi ho continuato incessantemente con la lettura, diventando un topo di biblioteca, o qualcosa di simile, mi sono scavato una tana nelle cose che ho letto e nessuno potrà mai tirarmi fuori, nemmeno con la forza. Penso di possedere circa 5000 libri, con quelli di MT dovremmo avvicinarci ai 6000. Monaldo Leopardi, non ci fai paura!
Si diceva che non è difficile, per chi ha letto tanto, accarezzare l’idea di mettersi a scrivere. Diciamo che a scuola i miei temi hanno sempre ottenuto il massimo dei voti e anche all’esame di maturità si disse in giro che il mio era stato il migliore, quindi la predisposizione c’era. Strappato, non riesco ancora a capacitarmi perché, alla vita civile per 15 lunghi e tediosi mesi a cui mai riuscii ad abituarmi, mi restavano due sole consolazioni: perdermi baudelairianamente nell’oblio e scrivere, continuamente, a tutti. Mi è sempre piaciuto farlo, e ogni momento di pausa, anche pochi minuti, era buono per prendere appunti su agendine che tenevo in tasca o su striscioline di carta strappate dalla parte alta di qualche quotidiano. Sembravano quelle striscioline sulle quali un tempo arrivavano i messaggi telegrafici. Scrivevo con caratteri microscopici su foglietti talmente piccoli che una sera in cui non riuscivo a ritrovarne uno, il mio amico Francesco, mi disse che, così minuscolo, l’avevo sicuramente inspirato. Poi, a fine giornata, riportavo tutto, ampliato, sulle numerosissime lettere che spedivo a casa, ai parenti d’Australia, alle amiche più care, una più cara delle altre, ma la storia sarebbe lunghissima, e agli amici.
Tutto nacque da lì. Scrissi qualche raccontino di poco conto e cominciai a collaborare a varie riviste, anche sportive. Oltre a offrire ripetizioni, mi chiamarono da tutte le parti come correttore di bozze per amici, conoscenti, riviste di cui nemmeno condividevo le idee o gl’interessi. Un giorno di fine millennio la mia collega d’ufficio mi propose di stampare, da e per noi, un libriccino con alcuni dei miei racconti. Fu bravissima nel sistemare, a tentativi, ma alla fine perfettamente, la disposizione delle pagine che assemblammo nei momenti di pausa pranzo con una bella copertina ricavata da fogli gialli di cartoncino bristol formato A4, il tutto piegato a metà e pinzato al centro a formare un volumetto 14,5x21. Ne stampammo 120 esemplari esauriti in breve tempo, fogli e bristol, a esser sincero, a spese dell’azienda, naturalmente a sua insaputa (son cose che si sentono anche oggi). Spero non leggano il blog, anche se mi auguro che in quattro lustri il reato sia andato in prescrizione. Che poi, vallo a sapere, magari Marx sarebbe contento di quel che ho fatto, in barba al “padronato” che sfrutta... Non so specificare se Karl o Groucho, però.
In seguito tutto continuò, continua e, con l’assistenza degli dei della Letteratura, continuerà. Ho scritto un paio di libri, ho collaborato per un semestre, come scrittore, con due psicoterapeute di Jonas Trieste, colleghe di mia moglie MT, per un lavoro di gruppo con gli adolescenti della Comunità Educativa il “Villaggio del Fanciullo” di Opčine-Opicina (TS) conclusosi con la stesura del libro “La nostra storia” pubblicato dalla tipografia del Villaggio stesso.
Ho avuto buoni piazzamenti, diversi primi posti compresi, in Concorsi Letterari un po’ in tutta Italia, Nord, Centro e Sud. Trovo ospitalità con spunti, diciamo così, di cultura generale su riviste marchigiane e abruzzesi. La scrittura mi dà un piacere totale, fisico e mentale, uno sperdimento che dà un senso speciale alla vita. Magari comincio, in senso metaforico, rovesciando cassetti, aprendo armadi, spolverando stanze, stupendomi di tante cose che m’ero scordato di avere. Se all’improvviso arriva un buon incipit, si vola, poi, sulle ali dell'immaginazione e della creatività e le parole scorrono sul foglio come se fossero dettate da una musa ispiratrice senza pause o tentennamenti, e la storia sembra quasi scriversi da sé. Almeno a me succede così. Altre volte può succedere di essere addirittura a letto, e ti tocca correre almeno ad annotare qualche appunto. Poi la matita di legno, perché io scrivo unicamente con quella, parte velocemente, quasi da sola. Ho decine e decine di matite sempre ben appuntite sparse per la casa e, nonostante la quantità, spesso non riesco a trovarne una. Ho scoperto che anche Elias Canetti faceva così e mi ha fatto piacere. È un altro dei miei scrittori, grande rappresentante della Mitteleuropa. Quando sono stato a Fluntern, un cimitero di Zurigo, tra il verde, il giallo e il rosso di stupendi alberi, per rendere omaggio alla tomba dov’è sepolto James Joyce a cui ho dedicato un libro, a un paio di metri di distanza ho trovato proprio la tomba di… Elias Canetti, Premio Nobel per la Letteratura 1981.
Tornando agli scritti in matita, è facile in seguito trasporre il tutto su computer dove, alle infinite cancellazioni e correzioni ne aggiungo altre, perché il segreto che non mi stanco di ripetere ai colleghi del laboratorio di Scrittura, è rileggere, rileggere e rileggere. E si trova sempre qualcosa che è possibile migliorare.



  -Quali sono i tuoi autori di riferimento?
 -Ho già accennato al Maestro Bertrand Russell, ma non posso evitare di menzionare un altro episodio importantissimo successo sempre in quei 15 mesi in cui, a vent’anni (!) mi sottrassero proditoriamente due estati complete che non si potranno mai più recuperare (e, in nessun caso, mai perdonerò!). Una grossa delusione amorosa con annesso, gratuito tradimento degli amici che ritenevo più cari, sommato alla completa sfiducia nella Sistema mi vedevano più nero dei due coraggiosi atleti che stavano alzando il pugno guantato sul podio olimpico di Ciudad de México, quando Francesco, il mio già citato vicino di branda, un bravo ragazzo di un paesino del Friuli, con il quale avevo stretto una forte amicizia, mi fece vedere un libro dalla copertina verde, dono della sua fidanzata (o in procinto di diventarlo). Erano i Fiori del Male di Charles Baudelaire. Sfogliai le prime pagine e lessi: “Quando per volontà di potenze supreme,/il Poeta appare in questo mondo annoiato,/sua madre impaurita e colma di bestemmie/stringe i pugni verso Dio che ne prova pietà:/– “Ah! Avessi partorito un groviglio di vipere,/piuttosto che nutrire questa derisione!/Maledetta la notte dai piaceri effimeri/in cui il mio ventre ha concepito la mia espiazione!/… Mamma mia, se non era incazzato questo. Più di me! Fu il coup de foudre che dura tuttora. In poco tempo provvidi a impossessarmi, e ci ritorno su spesso e volentieri, dell’intera opera del Poeta, e giocoforza arrivai a conoscere e molto amare tutti i “maudits”, suoi figli spirituali, con Arthur Rimbaud in testa. Ho fatto un ciclo d’incontri sia all’Università della Terza Età che a quella delle Liberetà che, ripartito in tre annate, è durato undici ore coinvolgendo anche la pittura francese dell’ottocento, l’avanguardia pittorica austriaca e la Beat Generation (questi Poeti ebbi la fortuna di conoscerli quarant’anni fa quando mi mandarono a intervistare Nanda Pivano per conto di una radio privata: esperienza impagabile!).
Poi c’è stato il lungo coinvolgimento col ‘700, mio secolo d’elezione. Innanzitutto sono un mozartiano convintissimo (usavo dire di esser stato almeno una cinquantina di volte a Salzburg, ma saranno anche sessanta, ormai. Tante volte ci son passato due volte l’anno, qualche anno fa tre, e praticamente non manco mai di passare sulla tomba del vecchio Wolfy a Vienna, e intendo la “sua tomba” anche se non aggiungo altro, ché non vorrei trovare degli intrusi). E poi c’è l’Illuminismo! Ah, Rousseau, e soprattutto Voltaire, altro mio illuminato (e non potrebbe essere altrimenti) Maestro. Né posso assolutamente tralasciare l’arguto Jonathan Swift e l’ineffabile Dr Johnson. Se vogliamo continuare coi miei autori di riferimento, sul podio troneggia la Divinità ancora vivente, nella persona del Maestro Claudio Magris seguito a ruota dal Nostro Re Xavier I (al secolo Javier Marías che ho voluto andare a omaggiare di persona, giuro) sovrano del regno di Redonda dove l’eccelso Claudio Magris è stato nominato Duque (duca) de Segunda Mano, titolo nobiliare condiviso con il purtroppo non più tra noi Umberto Eco, Duque de la Isla del Día de Antes (isola del giorno prima) e con altre insigni personalità, fior di Nobel per la Letteratura compresi. Tra gli autori di riferimento non può mancare un altro dei miei eroi, Joseph Roth, cantore dell’amatissima Mitteleuropa. E due libri che credo abbiano coinvolto tantissimi, per cui finisco nella massa, ma non posso non citarli: “Il piccolo principe” e “Il gabbiano Jonathan Livingston” (voli quando lo leggi, e anche dopo averlo riposto). 


 -Hai scritto diverse opere per il teatro, tutte in dialetto, perché questa scelta? Quale sarebbe la reale perdita nella scomparsa delle lingue dialettali?
 -Oddio, non esageriamo, ho scritto soprattutto varie scenette destinate a molteplici usi e situazioni, alcune in effetti adattate poi a commediole, una commedia a quattro mani, mentre per la mia ultima regia ho rielaborato in dialetto un testo di altri che mi avevano consegnato in italiano. Un rifacimento che vuol anche dire farlo willyanamente, cioè a mia immagine e somiglianza, stravolgendolo ben bene e soprattutto cambiando finali insipidi, cose fatte anche solo da regista su testo già pronto. E non significa assolutamente, come mi è capitato di vedere, togliere l’ultima vocale alle parole pensando che quello sia dialetto triestin. Mi reputo un suo cultore e sono molto puntiglioso, quindi uso termini anche piuttosto desueti che praticamente solo io, mio papà (che purtroppo non c’è più) e pochi altri usiamo. A parte che io continuo a chiamare tram e filovie gli attuali autobus a seconda del numero che avevano quand’erano, appunto, tram e filovie scomparsi una cinquantina d’anni fa. E persevero chiamando azienda telefonica, dei trasporti, di acqua luce e gas sempre con i nomi di quel periodo. Chiamo la maggior parte delle vie con i nomi che avevano prima della prima guerra mondiale e do appuntamenti presso cinema che non esistono più da oltre mezzo secolo. Mia moglie MT, che è di Buenos Aires, e mio figlio, nato quando niente di tutto questo esisteva più, poverini, e rendo loro merito, si sono rassegnati.
Quale sia la reale perdita nella scomparsa dei dialetti è una domanda da porre più ai glottologi che a me, ma di certo ora (un po’ più di ora) la televisione ha appiattito tutto tendendo ad annullare le differenze linguistiche, modificandole e semplificandole. Privandole così della coloritura e singolarità dell’identità, di quel lessico familiare (famigliare direbbe la Ginzburg, ma ai miei tempi era considerato errore) che rappresenta(va) un arricchimento per il territorio. Cosa per me non buona e ingiusta, ma nella mia città, così particolarmente diversa, sono certo che anche se ampiamente annacquato, per molto tempo ancora resisterà il triestin, plasmatosi con la variopinta varietà di mercanti e avventurieri tedeschi, inglesi, francesi, ebrei, boemi, cechi, magiari, greci, armeni, levantini che, ben accolti da un’oculata politica d’integrazione in questa cosmopolita città in tumultuosa crescita economica, seppero donare ognuno qualcosa di proprio al nostro spiritoso dialetto. Se posso fare solo un paio di esempi per avere una minima idea della sua eterogeneità riporterei qualche termine. Si può notare che dallo sloveno deriva: vado del peck (fornaio); me go bevù un slonz (pentola) de cafelate; el ghe gà molà una zauca (gli ha mollato uno schiaffone/pugno, dallo sloveno za uha, letteralmente dietro l’orecchio, ma ti dam enu za uha significa, appunto, ti do uno schiaffo). Dal tedesco: le sine (Schinen, cioè rotaie) del tram; el cucer (Kutscher, cioè cocchiere); el cucherle (lo spioncino della porta dal Gugkhürle, una piccola finestra sul tetto). Dal francese: el stà visavì (vis a vis, di fronte) de casa mia; el plafon (plafond, cioè il soffitto). Curiosissima sembrerebbe l’etimologia di remitur. Durante l’occupazione napoleonica i triestini osservavano le marce dei soldati nella caserma grande. Nello sfilare, quando veniva dato l’ordine “demitour”, mezzo giro, l’imperizia di molti causava un gran trambusto, chi girava di qua e chi di là, e per il popolino, la storpiatura “remitur” divenne sinonimo di confusione, disordine.


 -Da insegnante di scrittura creativa, qual è l’errore più ricorrente fra i giovani esordienti?
 -A dir la verità non so quali siano gli errori tra i giovani perché i miei allievi sono senior. Uno dei proponimenti dell’Università delle Liberetà è quello di non rivolgersi soltanto ad anziani e difatti, per una discreta parte, si iscrivono persone che, pur lavorando, terminano abbastanza presto nel pomeriggio, ma quelli realmente under “basse cifre” sono piuttosto rari. Ho da poco terminato il quarto anno di docenza e ci sono buone possibilità che io mi fermi qui anche se è stata un’ottima esperienza. Si è formato uno zoccolo duro, tutte donne (le malelingue si astengano, per cortesia) che frequentano da 3 o 4 anni, a cui non c’è più niente da insegnare, anche se il laboratorio potrebbe continuare con riflessioni e confronti sempre molto utili. Vedremo. Sono sempre meno, invece, i nuovi iscritti (in generale, in tutta la Liberetà) e, se sono maschi, son dolori. Avrei tanto da dire sulla maggior parte di quest’ultimi, a dir poco indisciplinati, ma per rispetto nei loro confronti, meglio astenersi. In ogni caso, uno degli errori più ricorrenti agli inizi, non di tutte/i s’intende, è quello di perdersi in minuziose, inutili e noiose descrizioni per cui l’invito è a un approccio al proprio scritto distinguendolo tra classico e impressionistico. Ritenendo oggigiorno sorpassato il primo in cui abbondano descrizioni troppo ricche di particolari con poca rilevanza per la vicenda, ho cercato d’indirizzare la preferenza dei corsisti allo stile impressionistico dove non è più necessario essere analitici, è sufficiente dare un flash generale dell’oggetto, proprio come i pittori impressionisti che non aspiravano a ricreare “la realtà”, ma a darne semplicemente un’impressione visiva. Ho cercato di limitare se non eliminare completamente, anche perché quelli che si presentano devono essere racconti brevi, interi paragrafi dedicati a descrivere in modo dettagliato, minuzioso (e noioso) il personaggio (aspetto fisico e abbigliamento), l’ambiente, anche solo la via sulla quale sta(va) camminando l’autore stesso o il suo protagonista. Ho chiesto di essere essenziali, lasciando le ovvietà all’immaginazione del lettore, scartando lunghe descrizioni o ampie divagazioni morali e psicologiche relative al personaggio. Proseguendo, poi, quello che ho cercato di far evitare, perché diversi continuano a caderci sin troppo frequentemente, sono stati i racconti unicamente autobiografici che, pur accettati spesso e volentieri, non possono essere l’unica cifra se si vuole fare il salto di qualità. L’invito è stato quello di tramutare le storie personali, per lo meno in terza persona per trasformarle pian piano in qualcosa di universale, rielaborandole. Non mi posso sicuramente dilungare su quello che facciamo al laboratorio, diciamo che è stata più volte ripercorsa l’intera struttura di un racconto attraverso la complessità delle trame, dall’incipit al climax, fino al finale, non tralasciando, ovviamente, i personaggi e i dialoghi ed ho cercato, ricevendo ottime risposte, di ottenere da ognuno degli iscritti un’evoluzione della propria espressione scritta puntando, oltre che sulla tecnica, sulla pretesa di dar dimostrazione di professionalità presentando testi dove la grammatica fosse corretta così come la punteggiatura e l’ortografia. Testi che sono stati di volta in volta proiettati, in modo da poterne discutere insieme, evidenziando sviste di battitura, refusi, errori grammaticali, di sintassi e di quant’altro è possibile perfezionare per rendere il testo più pulito possibile, seguiti dai consigli sperabilmente appropriati, accettati in ogni caso di buon grado. Ogni anno pubblichiamo un bel libro discretamente corposo che raccoglie gli ottimi lavori dei corsisti, che considero in ogni caso colleghi. Fondamentali per la stesura di questi libri, adattamento copertina, impaginazione, indici, sono stati i consigli e la collaborazione di mia moglie Maria Teresa Rodriguez, amica e complice, sempre pronta a sostenermi e a suggerirmi il giusto percorso tanto nella vita quanto in questa esperienza dove, pur da allieva, mi ha fiancheggiato con un preziosissimo lavoro di segretaria. Era stata sua anche l’idea di proiettare i racconti mentre li leggo perché tutti possano seguire al meglio. Eventualmente, in seguito, discutendone.



 -Nel 2006 hai pubblicato il tuo primo libro Una corsa incontro al passato, ce ne parleresti?
 -Ho sempre amato molto lo sport, il calcio in primis, anche se non si può negare che se il pallone avesse amato me come io ho amato e amo lui (il pallone intendo), oggi avrei ampiamente battuto il record del mitico Sir Stanley Matthews il calciatore più longevo di tutti i tempi che giocò in Serie A fino a cinquant’anni suonati. Ma il bastardo (sempre il pallone intendo) difficilmente prendeva la traiettoria che io avrei desiderato e non poche volte sgusciava beffardamente in out se cercavo d’involarmi sulla linea del fallo laterale. Se in cortile si tirava a sorte per avere, a pari e dispari, la precedenza nell’opzionare i migliori, non fui mai una prima scelta nonostante il mio grande entusiasmo. In ogni caso ho giocato sino ai 55 anni in tornei aziendali e amichevoli. In porta, soprattutto, con discreto rendimento anche, un ruolo che mi piace e un po’ mi si addice visto che i portieri sono considerati tutti un po’ matti. E in famiglia anch’io sono stato considerato un po’ matto e un po’ stravagante. Non eccessivamente: 50% di uno e 50% dell’altro. Magari è anche per questo che mi sono buttato sulla scrittura. Dicono che i peggiori briganti sono attratti dalla politica, i più sconvolti sono portati per l’arte, i malati di mente passano il tempo a scrivere libri. Beh, potrebbe esser vero. In ogni caso tutti abbiamo una nostra forma privata di pazzia. Se è d’intralcio a troppa gente ti qualificano matto. Proseguendo con gli sport, ho giocato molto a tennis, portando a casa alcune coppe in piccoli tornei, e corso molto in bici “da corsa”, sempre alla ricerca di impegnative salite, scalando col mio carissimo amico Ezio le Dolomiti in più parti e sconfinando anche in Austria. Ho corso, a piedi, per molti anni nelle categorie degli amatori ed ho partecipato alla prima Maratona di Trieste nel 2000. Da qui è nata l’idea di questo libro. Lavoravo moltissimo in quel periodo e avevo poco tempo per allenarmi per cui non riuscii a completare la preparazione, svolta anche di sera molto tardi, che voleva si arrivasse, in allenamento, a toccare i 42 chilometri per poi scalare. Non riuscii ad andare oltre i 35 chilometri, e il giorno della gara fu proprio a quel punto, che i corridori “bravi” indicano come il vero inizio della Maratona, che iniziò per me, che avevo terminato la benzina, il vero Calvario. Mi superarono a grappoli e, la mia previsione di chiudere vicino alle 4 ore fu ampiamente smentita, visto che arrivai oltre mezz’ora dopo quel che mi ero prefissato. Però ci arrivai, intendiamoci e, anche se momentaneamente ridotto al lumicino, 5’-10’ dopo avrei avuto voglia di farne un’altra. Durante queste 4 ore e mezza cosa fai, oltre a far girare le gambe? A parte l’incredibile sorpresa d’incontrare all’inizio della Costiera, in bici da corsa (ora non le lasciano più passare durante la corsa) Diego, il mio compagno di banco delle elementari che mi accompagnò per diversi chilometri e col quale (ero ancora fresco e, se riesci a parlare, significa che la frequenza cardiaca è sotto controllo) mi distrassi chiacchierando un po’, per il resto pensi solo ai fatti tuoi e fai volare i pensieri. Quell’anno, prima di percorrere, andata e ritorno, la Costiera, si faceva un lungo giro attraverso la città e rividi molti luoghi della mia infanzia e altri, legati all’adolescenza, e qualcosa di più, degli anni ’60. Fu così che, a bocce ferme, decisi di affidare a un libro le emozioni di quel giorno, riannodando un po’ i fili di tutta la mia vita, librandomi anche negli anni successivi, dando spazio ai miei luoghi dell’anima, alle dimore e alle persone con cui ho condiviso gioie e dolori lungo le strade della mia esistenza. Il libro è diventato una specie di long seller, visto che si vende ancora oggi a dodici anni dall’uscita. Una bella recensione a lui dedicata ha definito “la maratona come metafora della vita: nei percorsi semplici, e in quelli accidentati, quando credi di non farcela e trovi in te stesso la scintilla per andare avanti che ti sprona a non mollare mai, per giungere alla meta con un bagaglio di esperienze, immagini, voci e incontri”. È andata così, nel giorno della corsa e nella vita intera. Assolutamente inaspettata ed emozionante è stata una lettera del mio eroe Claudio Magris le cui parole avevo estrapolato dal suo “Danubio” per chiudere il mio racconto. Si dice fiero, appunto, per quella citazione, giudica il libro fresco e sciolto e mi ringrazia per averlo scritto! La lettera, ovviamente, è incorniciata qui di fronte a me, mentre scrivo.


 -Nel 2012 è uscito Jacomo, un triestino anomalo, tre incontri sulla triestinità di James Joyce, di che si tratta?
 -Partiamo dal fatto che mia moglie MT è una psicoanalista che, oltre a lavorare da libera professionista, insegna a Milano e a Grottammare all’Istituto Irpa (Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata) di cui è socia fondatrice con Massimo Recalcati ed è colà componente del Comitato Scientifico. Fa anche parte della sede triestina di Jonas, centro di clinica psicoanalitica per i nuovi sintomi, e di ALIPSI, Associazione Lacaniana Italiana di psicoanalisi. Avendo quest’ultima organizzato a Trieste nella primavera del 2012, un convegno su Joyce e l’arte: supplenza, sublimazione, sinthomo in collaborazione con  l’Association de psychanalyse Jacques Lacan ed Espace Analityque, mi arrivò una proposta, essendo io in ottimo rapporto di amiciizia con i membri di queste associazioni che ben conoscevano il mio sterminato amore per tutto ciò che riguarda Trieste, e di conseguenza il mio interesse per quello che considero un mio concittadino, d’adozione od onorario, fate un po’ voi. Accettai così, ben volentieri, di preparare due incontri per fornire quelle che ritenevo buone informazioni su questa triestinità. Il mio studio è stato apprezzato e di tale gradimento è venuta a conoscenza l’Università delle Liberetà, una di quelle associazioni che s’impegnano a promuovere ed alimentare interessi culturali fra persone di età matura. Mi è stato chiesto di ricavare tre conferenze, ampliando quello che avevo già esposto con altri ragguagli sulla vita dello scrittore. Così ho fatto, aggiungendo 115 immagini di difficile reperibilità da proiettare su uno schermo. Foto di Joyce, dei suoi familiari e conoscenti, dei suoi luoghi, con qualcosa scattato da me, per esempio, sulle sue abitazioni triestine com’erano una volta e come sono visibili oggigiorno. Quello che definirei il mio pubblico è stato molto generoso nei giudizi, si è anche divertito in certi momenti, e mi ha spinto a lasciare una traccia cartacea. A dispetto del libro, ormai stampato, ho ampliato le conferenze stesse (e la raccolta delle foto) ripetute un po’ qui e un po’ là fino a raggiungere i quattro incontri da 50’ l’uno. Drammatico è stato alcuni giorni fa, il 14 giugno, quando mi sono accorto che i 200’ che avevo a disposizione significavano 3 ore e 20’, mentre il Circolo degli Amici del Dialetto mi chiedeva un intervento alla prestigiosa Biblioteca Statale di un’ora e un quarto. Me ne sono accorto qualche tempo prima, per fortuna, ma è stato veramente impegnativo ridurre tanto. Mi son preso un quartino d’ora in più (volevo ben vedere!) ed è andata realmente bene: pubblico numeroso, divertito e applaudente. Nel libro si parla della particolarità di questo stravagante scrittore, genio e sregolatezza, partendo dalla presentazione dei due interpreti della storia: Nora e James: Due giovani irlandesi legati più che altro da una forte attrazione sessuale che basterà però a mantenerli uniti per la vita. Spericolati e spavaldi, lasciano il paese natio inseguendo il miraggio di un lavoro promesso a lui da una sconosciuta truffatrice. Gli errori, le confusioni e i fraintendimenti tra loro e il mondo iniziano subito, e i due arrivano a Trieste per puro caso parecchi giorni dopo, attraversando nel frattempo innumerevoli e divertenti peripezie. Lui, scrittore di scarso successo, farà il professore, il traduttore, l’impiegato; lei si arrangerà con qualche servizio nelle stesse case patrizie dove il compagno insegna l’inglese. Lui si ubriaca, ha gusti sessuali particolari, frequenta i postriboli; lei non si occupa della casa e si rifiuta di cucinare. Eppure vivono da grandi signori, pranzano e cenano fuori e frequentano cinema e teatri. Nel contempo devono spesso cambiare casa perché continuamente sfrattati per morosità e, pur con la nascita di due figli, tirano avanti tra prestiti non restituiti e sfratti riuscendo a sopravvivere grazie al fratello di lui, richiamato anch’egli a Trieste, che pazientemente, generosamente, provvede a sostenerli e a tenerli per quanto possibile fuori dai guai. Se la storia della coppietta fosse un’invenzione letteraria sembrerebbe esagerata e invece il libro riflette quanto effettivamente accaduto nello strampalato periodo triestino di Nora e di James Joyce, Jacomo, come lui stesso amava presentarsi traducendo il proprio nome in dialetto, vero mulo triestin, che potrebbe benissimo essere un nostro vicino di casa. Nella divertente storia s’incontrano tra l’altro Italo Svevo e le giovani figlie della borghesia triestina, possibili amori del loro professore d’inglese. Le sue difficoltà nel cercare di pubblicare le proprie opere letterarie, l’addio alla città con lo stabilirsi a Parigi dove arriverà la fama, i problemi con i figli e la morte in quel di Zurigo dov’è sepolto. Troppo poco lo spazio, di cui ho più che abbondantemente approfittato fino a questo momento, per dire di più. No, rubo ancora un attimo, invece, per dire che ho cercato di ridare pieno onore alla tenace Nora vittima di un ingiusto giudizio da parte del mondo letterario che, nella sua parte più bacchettona la vide come una concubina sposata dopo molti anni, una grande peccatrice, insomma, un peso morto che non aveva contribuito all’opera di Joyce a cui aveva dato, invece, la sua fedeltà, la sua forza e il suo spirito. Questa donna che accettò di partire da Dublino con quello che molti anni dopo si sarebbe rivelato un genio, simpatico, allegro, ma al momento solo uno spiantato che le garantiva che non l’avrebbe mai sposata, consapevole che se lui l’avesse abbandonata non avrebbe avuto alcuna possibilità di mantenersi all’estero, non è la figuretta scialba di cui si è favoleggiato a lungo, una contadinotta della brughiera. È una ragazza di città sveglia e disinvolta, dal carattere simpatico e spiritoso che frequentò la scuola fino ai 12 anni, praticamente il massimo, all’epoca. Joyce non vide in lei una ragione per spingerla a esplorare i labirintici misteri dell’avanguardia letteraria, ma non se ne preoccupò molto, vista la profonda sensualità che lei riusciva a emanare: bella, alta, coi capelli rosso-castani e il passo sicuro e fiero. Non gl’interessava una donna al proprio livello culturale, mirava a una che gli volesse bene e accettasse le sue bizzarrie, che gli stesse vicino condividendo la propria avventura. E anche se ci fu soprattutto attrazione carnale, ci fu sempre una salda intesa fondata sulla stima reciproca. Lei fu disponibile a scrivere sotto dettatura, mandare lettere a editori e mecenati, a leggergli ad alta voce libri noiosi nei lunghi periodi in cui lui ebbe gravi problemi alla vista. A Trieste imparò sia a vestirsi con eleganza sia uno stile di vita diverso, frequentando i caffè, l’opera e i cinema. Negli anni parigini era lei, in ogni caso, ad accoglierlo con le consuete ramanzine, sgridando addirittura lo sciagurato Hemingway quando se lo riportava a casa sulle spalle dopo una notte passata a sbronzarsi. Ed io non posso non immaginare i due, ubriachi fradici, a Parigi, a cantare a squarciagola “El tran de Opcina” una delle nostre canzoni più popolari, magari in “american”: molto, molto triestino! Forse Nora non comprese subito l’importanza del suo compagno come scrittore, ma alla fine ne divenne smisuratamente orgogliosa. Rimasta vedova, a chi le chiese un parere su André Gide, Premio Nobel per la Letterature 1947, rispose: “Quando si è stati sposati con il più grande scrittore del mondo è difficile ricordare i nomi di tutti questi minori”.



 -Trieste ha avuto sempre un’importanza culturale di livello non solo nazionale ma europeo e internazionale, una città unica, dove tre diverse culture europee convergono. Fra gli autori che vi hanno vissuto ricordiamo Umberto Saba, Italo Svevo e James Joyce per citare i più noti. Qual è la situazione culturale a Trieste oggi?
 -Spezzerei una lancia anche a favore di altri importantissimi autori del secolo scorso come Carolus Cergoly (1908-1987), per esempio, uno dei più importanti figli di Trieste e di lei sfrenatamente innamorato. Tra le sue poesie, i versi di “Hohò Trieste / del sì del da del ja” confermano la multietnicità della città che anche tu citi. La fama gli giunse in tarda età con lo splendido “Il complesso dell’Imperatore” che bene inquadra una certa anima di Trieste, quella che i vecchi sussidiari di quinta elementare volevano vessata da uno stato occupante e oppressore per antonomasia dal quale la città avrebbe dovuto essere assolutamente liberata, dopo più di 5 secoli di spontanea dedizione a quell’Austria, che le aveva regalato il grande porto franco della monarchia e il porto stesso che contendeva il primo posto nel Mediterraneo, e il secondo in Europa, a Marsiglia con 250.000 (schiavi oppressi?) che vantavano il tenore di vita più alto dell’impero. Mah, chi ci assicura che non sia il più disinvolto stravolgimento della realtà mai spacciato agli scolari italiani? Non possiamo neanche demandare ai posteri l’ardua sentenza, son trascorsi cent’anni esatti e mi sa che la sentenza non ci sarà mai. Non vorrei tralasciare Srečko Kosovel (1904-1926) grande poeta e critico letterario carsolino (l’immediato periferico contado triestino, a maggioranza slovena) purtroppo, e non il solo, misconosciuto in città. Né posso scordarmi di Fulvio Tomizza (1935-1999) che, triestino d’adozione, così bene si adattò al nostro ambiente e che identificherei come vero scrittore di frontiera, talvolta mal visto da una parte di jugoslavi perché ritenuto filoitaliano, altre volte da una parte di italiani perché ritenuto filoslavo. Mentre si è sempre mosso con dostoevskiana empatia nei confronti degli “umili e offesi” accostandosi, dopo i contadini o i braccianti, agli emarginati e rinnegati a causa della loro lingua o etnia: gli ebrei, i croati, gli sloveni, tanto da essere da una ben determinata parte politica messo alla gogna come amico dei “barbari” o degli “s’ciavi”, gentile epiteto con cui vengono definiti gli sloveni, o slavi in generale.
Per quanto riguarda la situazione culturale attuale, dirò che, indifferente la parte politica, c’è stato un momento di altissimo impegno sotto l’illuminata guida di Riccardo Illy, sindaco per due mandati con il vulcanico, purtroppo scomparso, vice sindaco Roberto Damiani, poi la situazione, in ogni caso accettabile, è parecchio scaduta. Con la cultura non si mangia, dicono…
Trieste vanta tre importanti teatri e, mi sembra, ma non vorrei esagerare, che possiamo vantare il più alto numero di abbonati in Italia, o qualcosa di simile, e ci sono ancora un teatro lirico molto prestigioso, un importante ed elegante Teatro Sloveno, due teatri dialettali, tantissimi teatrini in città e una miriade sparsi nella microscopica provincia.
Tra gli scrittori, oltre all’inarrivabile Maestro Claudio Magris, c’è l’ottimo Pino Roveredo, ex vite storta che ha trovato il coraggio per raddrizzarsi, cantore anch’egli degli ultimi e da cui sono stato premiato e festeggiato quando ho vinto un ben remunerato Concorso Letterario a Malnisio (PN), l’instancabile giornalista/viaggiator/scrittore Paolo Rumiz che con “Come cavalli che dormono in piedi” ha squarciato per bene un velo che copriva scomode verità nascoste. A pagina 171 sono citato pure io, non come scrittore, ci mancherebbe, per una foto di mio nonno durante la prima guerra (i “nostri” erano quegli altri, intendiamoci!). Sicuramente tralascio molti, ma non si può dimenticare la ben nota Susanna Tamaro, anche se vive altrove mentre tutti gli altri restano (giustamente, dico io!) in loco, Willy Piccini, una giovane promessa mitteleuropea, e Mauro Covacich. Un discorso a parte merita Boris Pahor, triestino della minoranza slovena che scrive in quella lingua e per questo boicottato e senza traduzioni a Trieste fino a non molti anni fa (è una lotta, eh, con queste tre anime…), mentre i suoi testi venivano tradotti in francese, inglese, tedesco, spagnolo, finlandese e persino in esperanto. Sconosciuto alla maggior parte qui da noi mentre in Francia veniva nominato Officier de l’ordre des Arts et des Lettres, decorato con la Legion d’onore e segnalato all’Accademia di Svezia (come più e più volte l’eroico Claudio Magris) per il Nobel per la Letteratura. Ha vinto anche il premio Prešeren, massima onorificenza slovena nel campo artistico. Da alcuni lustri (sta per compiere 105 anni!) è stato rivalutato anche qui e si stanno traducendo tutti i suoi libri. “Necropoli”, che racconta gli orrori dei campi di concentramento dove fu internato, tra gli altri, a Dachau e Bergen-Belsen, ha ricevuto numerosi premi ed è stato libro dell’anno nella trasmissione letteraria Fahrenheit (a questo proposito invito chi già non lo fa, quando possibile, ad ascoltare questa meravigliosa, interessantissima trasmissione di Letteratura, Cultura e varia umanità, ogni giorno, dal lunedì al venerdì, tutte le festività comprese, dalle 15 alle 18).



 -A proposito di Joyce, da estimatore ed esperto hai reinventato un giro joyciano per le vie di Trieste, ce ne vuoi parlare?
 -Sì, mi sembra una cosa simpatica. Nei giorni del convegno psicoanalitico franco italiano del 2012 a cui ho già accennato, mi era stata data l’opportunità di organizzare un giro joyciano. Consapevole che ne esiste già uno, mi sono permesso di allestire un’alternativa informale e spero divertente, sicuramente non seriosa. Scopo che sembrerebbe esser stato raggiunto, poiché gli intervenuti si sono dimostrati piuttosto soddisfatti, il giro è stato ripetuto il giorno seguente. Man mano ne sono venuti altri per l’Università delle Liberetà, altri convegni di psicoanalisi e associazioni varie. Molto importante il giro per il prestigioso “Circolo dei Lettori di Torino”, allorché mi son trovato davanti una cinquantina di persone e mi sono sentito una specie di professionista quando mi hanno infilato un microfonino al bavero collegato alle cuffie di tutti i presenti (di solito mi servo della mia voce, indubbiamente stentorea, in ogni caso). Abbiamo armonizzato piacevolmente allungando il giro, già lungo di suo, di tre quarti d’ora, transitando (era praticamente di strada, però) anche davanti alla casa di nascita di Aron Hector Schmitz (Italo Svevo, alla prova dei fatti) prima di terminare il percorso al Caffè San Marco dove chi mi aveva, diciamo così, ingaggiato, ci ha offerto qualcosa per dissetarci meritatamente in questo storico, importante caffè, con annessi assaggini dei nostri dolci tipici: pinza, putizza e presnitz (il più apprezzato da questi signori, ma anche da Joyce, lo assicuro). Il giro dura normalmente due ore e un quarto, due ore e mezza, partendo dal monumento all’Imperatrice Sissi davanti alla Südbahnof (ora Stazione Centrale) da dove, il 20 ottobre 1904, sbucò la simpatica coppia dei nostri due giovani irlandesi. S’incontrano la maggior parte delle loro abitazioni e luoghi legati in un modo o nell’altro allo scrittore, s’incontrano Saba e Svevo e si divaga, anche, incrociando qualcuna delle chiese (nella tollerante Trieste c’è sempre stato posto per tutte le religioni), mentre prendo spunto dai vari edifici neoclassici per accennare alla triste fine del grande Johann Winckelmann storico padre di quest’arte, qui assassinato, e al suo cenotafio che mi rimanda sempre all’amato Mozart (da me, non so da Winckelmann, ché Wolfy era ancora piccolino anche se aveva già suonato, a Vienna, davanti all’Imperatrice Maria Teresa, Nostra benemerita, riconosciuta Madre spirituale) che non può mancare mai.




 -“La mia anima è a Trieste” James Joyce (Lettera a Nora 27 ottobre 1909). Cosa ha lasciato e cosa ha attinto l’autore irlandese dalla città del golfo?
 -Ah, moltissimo, basti pensare, e ci metto in mezzo anche la mia conferenza rivolta al Circolo Amici del dialetto del 14 giugno, che a Trieste ci sono ogni anno sempre più manifestazioni legate al Bloomsday, il 16 giugno, giornata in cui è ambientato l’Ulysses. Quest’anno il museo joyciano ha organizzato manifestazioni, anche teatrali, di tutti i tipi, dal 14 al 17 giugno. Il mio libro, l’hai nominato poco fa, si chiama Jacomo (come ho detto, James amava triestinizzare il suo nome), un triestino anomalo, e questo io lo considero, un mio bizzarro concittadino che viene colpito da Trieste, arrivando in treno, già dal suo primo apparire in fondo al golfo che gli ricorda quello della sua città d’origine. Sebbene nel Finnegans Wake Joyce scriva: “And trieste, ah trieste ate I my liver!”, a volte, ma con lui non si è mai sicuri, interpretata come “mi mangiai il fegato”, Trieste rimase per sempre nel cuore della coppia d’irlandesi che qui si stabilì, adattandosi al suo clima e ammirandone l’eccezionale natura. In una lettera indirizzata a Nora poco prima di rientrare da una fallimentare impresa a Dublino, James scrisse: “La nostra bella Trieste. Vorrei vedere la riva quando il treno passa Miramar. In fondo, Nora, è la città che ci ha dato rifugio anche dopo la follia romana. Ritorno alla civiltà, oh che felicità suprema! I figlioli, il fuoco, una buona mangiata: vorrei risi in brodo, capuzzi garbi (cavoli cappucci acidi, molto usati, all’austriaca, come contorno di piatti a base di maiale o bollito, ndr), torrone, presnitz (tipico, buonissimo dolce triestino, ndr)…”. Per tutta la vita il 2 novembre la famiglia festeggiò San Giusto il nostro patrono. Joyce visse qui da spiantato e povero nei quartieri dei poveri, assiduo frequentatore delle bettole dei proletari rioni di San Giacomo e di Città vecchia che esercitarono un fascino molto profondo e duraturo sul suo animo e dove il fratello Stanislaus, come ho già detto trasferitosi anche lui a Trieste, andava a raccoglierlo sempre più spesso ubriaco fradicio mentre discuteva di socialismo con i facchini o cantava sgangheratamente le canzoni triestine. S’impadronì del tutto del nostro dialetto e lo fece parlare a moglie e figli con cui discorse in triestin fino alla morte. Fu sempre vicino al popolo che amò e di cui interpretò l’anima, anche se dette lezioni private d’inglese a baroni e conti. Loro lo chiamavano professor Zois, ma per tutta la sua permanenza in città, lo ripeto, lui si presentò: “Mi son Jacomo”.
Rimasto quasi undici anni a Trieste, se ne allontanò non molto dopo l’entrata in guerra dell’Italia quando, con la famiglia, preferì trasferirsi a Zurigo, nella neutrale Svizzera. Rientrato nel ’19, rimase qui da noi meno di un anno. La situazione abitativa, con fratello, sorella, familiari vari, era insopportabile, undici in un appartamento. La sensazione della perdita di vitalità della città che soltanto sedici anni prima era apparsa come rigoglioso porto di un impero, si faceva sempre più concreta. Non c’erano più soldi nelle grandi banche triestine, tutti i depositi erano stati trasferiti a Vienna fin dall’inizio della guerra. L’attività commerciale, e di riflesso lo spirito cosmopolita, erano scemati del tutto, privilegiando l’instaurarsi di una mentalità provinciale e periferica. La città non rappresentava un interesse vitale per gli italiani come invece lo era stato per la monarchia asburgica: Venezia, Napoli e Genova erano porti ben sviluppati, più vicini ai centri dei traffici e delle produzioni nazionali. Trieste, a causa della frantumazione di quel mondo al quale era appartenuta da secoli, aveva perso il suo Hinterland danubian/balcanico che le aveva dato prosperità e grandezza.
La spinta culturale cosmopolita, a quel punto, si sposta inesorabilmente sull’asse Parigi-Londra. La città giuliana, destinata a una fatale marginalizzazione non potrà più essere una capitale della creatività artistica. James abbandona l’Istituto Commerciale dove insegnava, ma lascia il proprio posto a Stanislaus che vi rimarrà quasi 35 anni, e a Trieste morirà e sarà sepolto. Carica la famiglia sul treno alla volta di Parigi dove si stabilirà e non tornerà mai più a Trieste, quella che era stata la sua seconda patria e che aveva conosciuto una rovinosa sconfitta. Non era più la città godereccia e nevrotica dove il porto, l’amore, le lingue e i suicidi si mescolavano. Rimanevano forse i suicidi, sicuramente la nevrosi. Anni dopo, agli amici di Parigi dirà: “Mi è impossibile descrivervi l’atmosfera del vecchio impero asburgico. Era un po’ sgangherato, ma affascinante e gaio”.
Aveva completato qui Dubliners (Gente di Dublino), pubblicato la raccolta poetica Chamber Music, riscritto completamente Stephen Hero terminandolo col nome di Portrait of the Artist as a Young Man (Dedalus), scritto e completato la piece teatrale Exiles (Esuli), iniziato in via Bramante, ultima residenza prima della guerra, l’Ulysses con in testa già l’impianto generale che gli darà la fama, e ultimati i primi 2 capitoli Telemaco e Nestore e probabilmente Proteo da cui ripartì a Zurigo. Al breve ritorno, alloggiando in via Sanità, scrisse gli episodi Nausicaa e Le mandrie del sole iniziando Circe.



 -E qual è il rapporto di Willy Piccini con Trieste?
 -Secondo me si è già capito: irrimediabilmente innamorato di questa particolare città che si dibatte non tra due, ma tra tre fuochi, tre culture, austro/tedesca, slovena, italiana, tre Stati, tre mondi diversi per niente affiatati, tre atteggiamenti di fronte alla vita. Una città dove, tranne per qualche scalmanato, l’idea di nazionalità è del tutto estranea, dove si è convinti della propria diversità soprattutto grazie alle persone arrivate tanto tempo fa dai paesi più disparati, per cui questo rimane ancora un luogo unico. “Son de pura razza bastarda” usiamo dire, a sottolineare la mescolanza, per altro ben amalgamata, dei nostri avi. Un non luogo certamente, che la scrittrice gallese Jan Morris in uno splendido libro definisce una città del mondo che rende omaggio a un principio delle sue terre, per cui anche la triestinità, intesa come richiamo alle proprie tradizioni e alle proprie peculiarità storiche, è “un magnanimo spirito d’amore per la civiltà, la tradizione e per gli aspetti migliori dell’umanità”. Una città, direi, a misura d’uomo, dove, se a una tua richiesta ti rispondono “volentieri”, significa che non te la soddisferanno, qualsivoglia sia il motivo, dove c’è una dozzina di modi diversi per chiedere un caffè, dove c’è l’unico stabilimento balneare in Italia, altrove non so, dove, con serietà e rigore asburgici, un muro divide gli uomini dalle donne, cosa rimarcata ad ogni estate dai telegiornali, come fosse una novità, mentre lo ripetono da almeno sessant’anni. Dove tutte le parole, nomi e cognomi compresi, sono sdrucciole, se non bisdrucciole, con l’accento sulla vocale della prima sillaba. In conclusione, Willy Piccini è un cittadino del mondo che rifiuta con orrore una qualsivoglia identità nazionale. Le uniche bandiere a cui guarda con affetto sono quella rossa con bianca alabarda al centro, amato simbolo di Trieste, e quella arcobaleno della pace. Se, faziosamente, è disposto a difendere i propri ideali, non combatterà mai a fianco di nessun esercito regolare e, se una bandiera dovesse difendere, sarebbe soltanto quella delle Belle Lettere.



 -A cosa stai lavorando attualmente?
 -Sto rispondendo a questa intervista dopodiché preparo le valigie e vado a Salzburg e Wien (anche dintorni, e sulla tomba di Mozart, ovviamente).



 -Progetti per il futuro?
 -Due anni fa ho vinto un Concorso Letterario a Cologna Spiaggia (TE) e fra i vari, graditi premi, oltre a una certa cifra, mi spettava la pubblicazione gratuita di 80 copie di un mio libro. Non avendo molto tempo a disposizione pensavo di mettere insieme alcuni dei miei racconti uniti però da un fil rouge che facesse da collante. Ne ho parecchi (racconti, non fil rouge), ho un buon curriculum di salite sui podi nei vari Concorsi Letterari. Ebbene, non sono riuscito ancora a farcela a causa dei troppi impegni: il teatro da compositore, regista e attore, le conferenze, il laboratorio di Scrittura, sommati alle incombenze personali che ognuno ha, e nemmeno la salute mi ha dato una mano, anzi, la mia e quella di persone care. Dal 31 marzo ho deciso, alla soglia dei settant’anni, di mettermi in quiescenza dal teatro, scelta che mi costerà molto non tanto ora, ma ad inizio della prossima stagione. Paradossalmente, negli stessi giorni ho ricevuto un’offerta per una parte da protagonista in una commedia che credo piuttosto importante, in italiano stavolta (mi sembra che si andasse anche parecchio in giro per l’Italia con le repliche). Ma dopo una brevissima incertezza ho declinato, se ho deciso di smettere devo smettere senza se e senza ma. Devo decidere ancora se fermarmi anche con il laboratorio. Ora, dopo un paio di viaggetti in Austria, innanzitutto andrò al bagno, occupazione preferita, oltre a mangiare, bere e cantare, del buon triestino (sono uno di loro, penso si sia capito) che così definisce l’andare al mare anche se non abbiamo spiaggia, ma alcuni chilometri di marciapiede su quale ci stendiamo felici di rosolarci al sole. Io nei pressi del cosiddetto “Bivio” così chiamato perché trattasi proprio di bivio con la stradina che porta al nostro superbo castello di Miramar e al nostro (tra clamorose proteste) ultimamente non ben tenuto parco di cui sono proprietario per 1/duecentomillesimo (ma questa è un’altra storia). Per concludere, ché sarebbe forse l’ora, cercherò di ultimare (o è meglio dire iniziare?) la stesura del libro a cui ho accennato, con la speranza di aver ancora diritto a esser pubblicato (con due anni di ritardo!). Potrei mettere mano al mio sito che non tocco da oltre un lustro, anche se in questi anni metto alcune cose su facebook. Ho intenzione, quanto prima, come avevo fatto per il libro su Joyce, di trarne uno dalle conferenze che ho tenuto su “Danubio” di Magris, il più bel libro del mondo (secondo me, s’intende), assieme a “Il nome della rosa”, “Il gabbiano Jonathan Livingston” e “Domani nella battaglia pensa a me” del Re Xavier I (Javier Marías, ricordo). Ma ne avrei molte centinaia da indicare. Sicuramente accrescerò di molto il materiale che ho a disposizione, mettendo in rilievo parti relative alla Letteratura e alla pittura con non poche note personali visto che, anche se non proprio sino alla foce, ma dalla sorgente a Budapest l’ho visitato e vissuto palmo a palmo e ci ho fatto anche il bagno “An der schönen blauen Donau” che nemmeno traduco, va’.
Riprenderò, con calma, a scrivere racconti. Per il momento mi arriveranno da leggere quelli del Concorso di Cologna Spiaggia, dove sono in giuria (lo sono, da anni, anche al Concorso di Grottammare, di cui chiedo, sempre da anni, la cittadinanza onoraria vista la continua presenza da partecipante, giurato e accompagnatore di mia moglie MT che colà insegna).
Idea di conferenza per il prossimo anno: “Ti conosco Mozart! Viaggi, curiosità e vita quotidiana di un genio.” Il non poco disagevole girovagare di Mozart per mezza Europa. L’infaticabile, miracoloso sfornare musica sublime a getto continuo direttamente in bella copia, quasi guidato da mano divina. Un’analisi (non pedante) delle sue più importanti composizioni. Gli aneddoti. Le lettere. Tre, forse quattro incontri di un’ora, sia per la Terza età che per le Liberetà. Non ho la men che pallida idea da dove comincerò e cosa dirò… 












giovedì 28 giugno 2018

Mille passi cominciano sempre da uno


  La fiducia in se stessi è fondamentale  nell’intraprendere strade nuove, affrontare le nostre paure per superarle. A volte capita di incontrare persone semplici, che quasi sfuggono alla nostra attenzione, ma che, se conosciute da vicino, svelano tesori straordinari. Per non farci sfuggire questi incontri, però, dobbiamo saper far cadere quegli stereotipi che ci impediscono di guardare oltre l’apparenza.

Mille passi cominciano sempre da uno



«Manca molto?» domanda Huso, affiancandosi a Bundi, il giovane guerriero che guida la comitiva. Huso non è stanco: lui è un Turkana, pastori creati nomadi per un territorio arido, dove l’acqua è un tesoro da guadagnarsi tutti i giorni. La sua è piuttosto impazienza, brama di vedere il grande lago, che gli anziani del villaggio descrivono come un mare di giada.
«Manca il tempo necessario» replica Bundi, che, muovendo stizzito la lancia, intima al ragazzino di tornare nel gruppo.
«Non rispondi perché ti sei perso» ribatte Huso. «Ti credi un condottiero, ma sapresti perdere un gruppo di capre cieche, legate fra loro e coperte di sonagli».
Bundi ne afferra il braccio con una mossa fulminea, costringendolo a inginocchiarsi e, fissandolo nelle pupille, lo sommerge di disprezzo. «Conserva l’arroganza per il dottore, quando il coraggio ti lascerà solo, davanti ai suoi ferri».
«Non ho paura del dottore!» sbotta Huso, stizzito. «Un giorno sarò un guerriero».
A sedare la diatriba interviene Numa, una delle madri che accompagna il gruppo di ragazzini verso la missione della Consolata. «Prima di farti guerriero» irride il ragazzino, «vedi d’uscire vivo da questa situazione». Voltandosi, poi, verso Bundi, lo redarguisce con sguardo torvo.
«Da quando gli hanno dato una lancia, si è montato la testa. È una termite che si crede uno scorpione» sbotta Huso. Sbruffando, rientra fra i compagni scortato da Numa.
Vista da lontano, la comitiva sembra fluttuare nella calura che, rimbalzando sul terreno, forma il miraggio di una superficie liquida. Camminano compatti e disciplinati, diretti a Loiyangalani sulla riva sud-occidentale del lago Turkana. A guidarli due guerrieri, mentre in coda alcune madri portano i propri piccoli nel fagotto legato alla schiena. Alla missione li attende il presidio medico per le visite e le vaccinazioni.
Nell’ora più calda sostano un una piccola oasi. Il sole arroventa i ciottoli sparsi sul terreno riarso; una calura che penetra sino alle ossa e scalda i polmoni attraverso l’aria che sa di polvere. Iniziando dai più piccoli, ognuno beve la propria razione d’acqua, attento a non sprecarne.
«Dietro quella collina c’è il lago» dice Numa, rivolgendosi a Huso. Il ragazzo ha l’impulso di sollevarsi e correre per raggiungere per primo il culmine del promontorio. Un desiderio represso, però, dalla consapevolezza del castigo che avrebbe meritato.
Il sole è di poco sopra l’orizzonte quando, scollinando, Huso scorge il lago rimanendone sbalordito. Uno specchio d’acqua che, riverberando il celeste del cielo, esalta il paesaggio lunare circostante. Appena increspata, la superficie splende mandando una miriade di scintille. Una quantità d’acqua mai immaginata; il colore ha qualcosa di magico, irreale: un turchese così limpido da far credere che un pezzo di cielo sia precipitato nella vallata. Uno spettacolo per chi non ha visto che pozze fangose. Huso ne è talmente assorto da non accorgersi nemmeno del sopraggiungere di Numa. 
«Layeni» dice la donna, indicando un gruppo di capanne adagiate sulla riva. «Il villaggio degli El Molo. Passeremo la notte lì».
  «Il sole non è ancora tramontato, possiamo proseguire» ribatte Huso, stizzito. Il pensiero d’accamparsi presso un villaggio di pescatori, infatti, lo irrita quanto una manciata di formiche rosse lungo la schiena. Lui fa parte di un popolo fiero: guerrieri che nulla hanno da spartire con degli omuncoli che, anziché cacciare, mangiano pesce. Meglio dormire all’addiaccio, che condividerne il bivacco.
Discendendo l’altura, Huso osserva il villaggio alla stregua di una carogna d’animale. Sparse a manciate, le capanne a cupola sembrano spuntare direttamente dal terreno, come fossero funghi. Un nugolo di uccelli vola caoticamente sfiorandone i tetti. Giunta nei pressi dell’insediamento, la comitiva è accolta da una torma vociante di ragazzini che, ravvisando nei coetanei un’opportunità di gioco, non s’attardano in convenevoli. Un baccano che infastidisce Huso. Irritato dallo schiamazzo che si mescola alle strida degli uccelli, palesa il proprio risentimento lanciando occhiate sdegnose verso gli ospiti, mentre i compagni si mescolano a loro, rendendo indistinguibili le due etnie.
Schifato da una simile promiscuità, s’allontana dirigendosi verso il lago. Il cielo è acceso dagli ultimi raggi del sole, mentre il vento rinforza increspandone le acque. Una brezza che stempera la calura del giorno, spingendo delle piccole onde a smorzarsi sulla rena.
Fermandosi a pochi passi dalla riva, scruta intimorito il confine mobile fra terra e lago. Prova la sensazione di trovarsi sull’orlo di un dirupo; contrariamente all’aria, però, l’acqua cela il vuoto. Il fondale si stempera nelle acque scure, come gli spiriti nelle tenebre. Un pensiero che gli procura un brivido, lo stesso panico provato quando, spostando un masso, aveva sentito il sibilo di un mamba nero; a salvarlo era stata la prontezza di spirito e una corsa a perdifiato.
Inconsciamente, arretra di un passo, come se il lago possa inghiottirlo in un sol boccone. Ha paura, e ciò che più lo atterrisce è il non sapere affrontare la situazione; suo padre gli ha insegnato a fronteggiare il terrore con il coraggio: un guerriero Turkana non teme nulla. Ora, invece, trema come una femminuccia davanti all’acqua.
«Come ti chiami?» domanda una vocina, che giungendogli alle spalle lo fa trasalire. Voltatosi, vede una ragazzina dagli occhi grandi ed espressivi; i capelli raccolti in fini trecce, una fossetta a dividere le sopracciglia. Le labbra carnose disegnano un sorriso grazioso. «Io sono Maluum» si presenta.
«Huso» risponde lui, asciutto.
«Vuoi sentire Aban raccontare della caccia allo yee
Huso non è dell’umore giusto per ascoltare delle storie, specie su fantomatiche cacce all’ippopotamo; ma non vuole restare solo. Alza quindi le spalle, dissimulando ogni interesse.
«Domani è il secondo giorno dopo la luna nuova» spiega Maluum. «Gli uomini del villaggio partiranno verso nord, per la caccia allo yee».
Remissivo, Huso segue la ragazza attraversando il villaggio. Alcune donne stanno preparando il materiale per la spedizione: tabacco, pelli conciate, una coperta di lana, carne e pesce secco, il tutto legato in un fagotto. Gli uomini, invece, predispongono corde, coltelli e lance munite di arpioni. Gesti che affascinano Huso, alleggerendone la tensione. Non ha mai visto un ippopotamo, ma ne ha sentito parlare: quando uno yee entra in acqua, il coccodrillo si allontana; eppure, persino il leone teme il coccodrillo.
«Quella è la capanna di Aban» spiega Maluum, indicando il bivacco dove sono radunati altri ragazzi. «É stato un grande cacciatore».
Seduti a semicerchio, i ragazzini reggono una ciotola da cui pescano la cena, nell’attesa che l’uomo inizi il racconto. Huso, unendosi a loro, mette subito a fuoco la figura esile del narratore: un vecchio ricurvo, dalla pelle e gli occhi bruciati dal vento e dal sole. Stenta a credere, però, che quell’omino possa aver cacciato un animale più grande di una suricata.
«Ero ragazzino, quando ho partecipato al mio primo Tuul» esordisce il vecchio. Le mani degli uditori si fermano a mezz’aria, le bocche semiaperte. «Tuul è la caccia sacra: solo all’uomo più coraggioso è dato di uccidere lo yee. Quel giorno, mio padre era fra i cacciatori che marciavano lungo la riva, mentre io, ancora giovane, ero d’aiuto sulla Kadish, la grande zattera».
Huso è rapito dal racconto, nemmeno s’accorge che Maluum gli porge una ciotola di pesce stufato. La fantasia è proiettata nell’immaginarsi fra i cacciatori, durante la marcia, nella preparazione degli arpioni serrati alla lancia.
«Il secondo giorno avvistammo il branco, un gruppo numeroso che riposava vicino riva. Con la zattera ci fermammo a distanza, osservando la scena. I cacciatori si mossero lentamente; scivolando nel lago, lasciarono solo la testa fuori dall’acqua. Uno dopo l’altro, si avvicinarono alla preda formando un semicerchio per bloccarne la fuga. Quando gli furono abbastanza vicini, iniziarono a gridare: “Too! Too!”» urla, facendo trasalire i ragazzini. «L’animale, enorme, attaccò i cacciatori per aprirsi un varco. Mio padre gli era davanti e io avevo paura, imploravo i nostri avi che gli facessero salva la vita. Lo yee spalancò la bocca per azzannarlo. I compagni cercarono di colpirlo, ma mio padre non si mosse, aspettò la distanza giusta e, con tutta la sua forza, gli conficcò l’arpione nel collo». Mima la scena. «Il primo che riesce ad arpionare la preda ha diritto di ucciderla. Così, mentre i compagni lo colpivano per sfinirlo, mio padre si tuffò in acqua per trafiggerlo raggiungendogli il cuore. Doveva stare attento, però; la bocca dello yee è molto pericolosa. Mio padre era immerso, mentre lo yee si dibatteva; l’acqua ribolliva tingendosi di sangue. I compagni tesero le corde, per costringere l’animale verso riva. Io strinsi così forte la fune della zattera da far sanguinare i palmi delle mani. Il tempo passava e mio padre non riemergeva; i compagni invocavano gli spiriti: Apaa, Swaa e Swoi, finché, chiudendo le fauci con uno schianto, l’animale non s’immobilizzò. Trattenni il respiro, sino a quando non vidi mio padre riemergere con le braccia alzate lanciando un urlo per liberare la gola dall’acqua».
Huso fissa il vecchio con occhi trasognati; è sbalordito, mai avrebbe immaginato tanto valore in semplici pescatori. Una riflessione che attizza un moto d’orgoglio: come può lui, un Turkana, mostrare meno coraggio di un El Molo? Come può aver paura dell’acqua?
Terminato il racconto, i ragazzi lasciano il bivacco. Huso affronta pensieroso le tenebre appena stemperate da uno spicchio di luna. Maluum, che lo segue, sembra coglierne il tormento.
«Sei triste?» domanda, posandogli la mano sulla spalla.
«No, perché?» dissimula Huso, inorridendo al pensiero di confidarsi con una femmina. Il silenzio che segue, però, non fa che esasperarne l’ansia. «Sei mai entrata nel lago?» domanda, rompendo gli indugio.
«Sì. Ogni volta che aiuto mio padre a tirare le reti».   
«Non hai mai paura?» replica titubante.
«Perché dovrei?» risponde lei, sorpresa. «Tu hai paura?» Intuisce il problema.
«Io? Figurati, non ho paura di nulla, io» replica Huso, stizzito. Maluum non insiste, ma afferrando la mano del ragazzo lo accompagna sino alla riva. La notte cela il lago assorbendone la forma; un lieve sciabordio sulla rena segnala la presenza dell’acqua. Il vulcano Nabuyaton, “stomaco d’elefante”, staglia la propria figura sull’orizzonte segnato dalle stelle.
Tenendo la mano di Huso, la ragazza immerge il piede nell’acqua; lui vorrebbe divincolarsi e fuggire, ma perderebbe ogni dignità. Maluum fa un altro passo, tirandoselo a sé. Trattenendo il fiato, Huso immerge il piede sentendone scaturire un brivido.
«Anche mio fratello aveva paura del lago. Non c’è nulla di male» sussurra Maluum. «Fidati di me, gli ho insegnato io a nuotare in una notte come questa. Meglio al buio, perché se una cosa non la vedi, vuol dire che non c’è. E se non c’è, non devi averne paura».
Huso non comprende il discorso, ma la sua voce tranquilla lo conforta. I denti battono forte: non è soltanto l’angoscia d’essere risucchiato nel buio; i brividi di freddo si fanno violenti. Maluum gli afferra l’altra mano, trascinandolo al largo.
Huso cammina lentamente, sentendo le pietre lisce sotto i piedi; il livello dell’acqua sale ad ogni passo. Lambisce prima le ginocchia, l’inguine, la vita; quando arriva al torace, sentendo mancare il respiro, il ragazzo oppone resistenza. Maluum lo tira con forza, portandolo sino ad avere l’acqua alla gola.
Fermandosi, Huso avverte un tepore piacevole, mentre una forza invisibile lo spinge verso l’alto. Sensazioni contrastanti fra paura e quiete. Per un istante, l’ansia ha il sopravvento; la sensazione che l’acqua si stia infiltrando nel proprio corpo fa scaturire un pensiero: quello d’essere un grumo di terra che, gettato in acqua, vi si stempera dissolvendosi.
Un brivido lo scuote. Maluum lo percepisce, e gli stringe forte la mano. «Lasciati andare, come per dormire» sussurra. Huso è teso, l’idea di lasciare la presa lo terrorizza. «Fidati! Ci sono io. Un passo alla volta» lo incoraggia.
Combattuto fra paura e orgoglio, Uso si costringe a sollevare le gambe, ma è rigido e la testa finisce sotto. Beve una sorsata d’acqua sapida di minerali e, annaspando, riemerge mordendo l’aria.
«Prova adesso» sussurra Maluum, facendogli leva sui lombi. «Tranquillo, respira piano e lasciati andare». Sempre sussurrando, intona un canto che parla di uccelli, di stelle e una nuvola che volle farsi pioggia. La voce è così dolce da smorzare ogni pensiero nella testa di Huso, come una fiammella che scaccia le tenebre.
Rilassatosi, si ritrova a galleggiare, mentre l’aria fresca gli solletica la pancia. Egli stesso è il confine fra lago e cielo. “È come volare” pensa; nessun contatto con il terreno, fluttua come una piuma. Il pelo dell’acqua gli accarezza le guance, sussurrandogli nell’orecchio lo sciabordio. Non ha più paura; anzi, è sbalordito, leggero anche se impacciato. Ascolta il proprio respiro, il battito regolare del cuore ora mansueto, senza le crisi sempre più ricorrenti dove, senza ragione, esplode in una corsa zoppa, come fosse la fuga di una gazzella con la zampa ferita. Un cuore malato che lo vorrebbe guerriero ma, nello stesso tempo, gli impedisce di correre o di fare grandi sforzi senza cadere svenuto.
Maluum toglie la mano da sotto la schiena; Huso si sente mancare. Lei lo rassicura: «Sst! Respira lentamente. Guarda le stelle e non pensare a nulla».
Huso le stringe la mano, che sente liscia e calda. Poi, la percepisce galleggiare a pelo dell’acqua, con la stessa delicatezza di una foglia. Per un istante, sente un desiderio far breccia nell’animo: trattenere quel momento il più a lungo possibile. Non desidera più farsi grande il prima possibile, andare a caccia e diventare un guerriero rispettato e onorato dalla propria gente. Quello che il suo cuore desidera è stare lì, immobile, a mirare il creato. Vorrebbe non lasciare mai la mano di Maluum, mano calda come una focaccia cotta al sole, e ascoltarne la voce cantare altre canzoni.
«A cosa stai pensando?» chiede lei, con un filo di voce.
«Non penso a nulla» s’affretta a rispondere, vergognandosi dei propri pensieri.
Trattenendo ogni altra parola, i ragazzi guardano le stelle, gli animali, gli eroi che ricordano nel firmamento.

«Sveglia dormiglione!»
La voce di Numa s’intrufola nel sogno di Huso, sbriciolandone ogni possibile memoria. Ridestandosi, fluttua nel sottile confine fra sogno e realtà. I ricordi riaffiorano come bolle nell’acqua. Avverte qualcosa stretto nella mano; aprendo il palmo, scopre una conchiglia: un dono di Maluum. Stenta a credere di provare malinconia all’idea di lasciare il villaggio, così come gli è difficile ammettere che Bundi ha ragione: il pensiero d’affrontare il dottore lo atterrisce più del lago.
«Maluum!» esclama, balzando in piedi. Corre verso il centro del villaggio. Chiamandone il nome, cerca la ragazza. Vorrebbe salutarla, prima di lasciare il villaggio; dirle quel grazie che, seppur occultato dall’oscurità, l’orgoglio aveva trattenuto in gola.
«Buona giornata». La voce di Maluum lo coglie nuovamente alle spalle, facendolo trasalire. Seduta per terra, macina del grano fra due pietre. Il sorriso le illumina il volto. Huso dimentica le parole che avrebbe voluto dirle. La guarda afono, ritto come una canna seccata al sole.
«Partite?» domanda lei, rompendo il silenzio. «Al ritorno passerete ancora per il nostro villaggio?»
«Certo!» risponde Huso; non ne è sicuro, ma la speranza di rivederla è tale da spingerlo a farle una promessa. «Torneremo, anche perché devo ancora conoscere tuo fratello». Si trae d’impaccio temendo d’essersi compromesso.
Maluum sorride, maliziosa. «Io non ho fratelli, ma due sorelle. Gli anziani, però, dicono che lo straniero è come un fratello che non hai mai incontrato».
Huso la guarda torvo; per un istante si sente raggirato. Si china, immerge l’indice nella farina che porta alla bocca e ribatte con un altro detto: «Le donne sono le trappole del diavolo».
«Mille passi cominciano sempre da uno» risponde lei.


di Pierangelo Colombo, edito nella raccolta: Prospettive (2017)