di Pierangelo Colombo

giovedì 7 giugno 2018

L'urlo

Un filo sottile ci lega al passato remoto. Un racconto breve che dedico agli amici della affascinante e maestosa Volterra.
Buona lettura.




 L'urlo


La voce roca del professore satura l’aria; parole che, come mosche, scaccio con il pensiero. Rimugino sulla malsana idea d’essermi iscritta a giurisprudenza, quesito che distrae l’attenzione sino al congedo del docente. Abbandonata l’austerità dell’aula, percorro con indolenza il corridoio.
«Cri… Cri, aspetta!» strilla Federica, arpionandomi. «Ti prego, non uccidermi» implora. «Questa sera…» Sospende la frase, nella speranza che, presagendo le sue parole, la sollevi dall’impaccio.
«Fede, non scherzare! Non mi dai buca, vero?»
«Ti prego… Stefano mi ha chiesto d’uscire, è una vita che aspetto».
«Cazzo, Fede. E l’addio al nubilato di Conni?»
«Sono una stronza, lo ammetto, ma ti prego».
«Lascia perdere!» ribatto piccata.
«Dille che non mi sento bene o che…»
«Vuoi dire che, oltre ad andarci sola, dovrei pure pararti il culo?»
«Evita paternali, per favore» ribatte. «Sono mesi che aspetto d’uscire con lui».
«Va bene. Divertiti allora» sbotto, andandomene. Troppa la rabbia per sostenere oltre la discussione. Sono così indispettita che, senza alcuna cognizione, mi ritrovo in auto. Lascio l’università in fretta e furia. Percorrendo il ponte della Cittadella scorgo le acque dell’Arno di un colore marrone bilioso, specchio del mio stato d’animo. Allontanandomi da Pisa, vorrei mandare al diavolo tutto, fottermene di Conni, della festa, degli ormoni di Fede e, imboccando la statale in direzione del mare, andarmene a sbronzarmi con sole e musica. Una frustrazione che si dilegua, sbollita dall’aria del finestrino.
Entro a Volterra mentre le campane battono la mezza; ho un lungo pomeriggio da impiegare: la festa è in serata. Passeggio per il centro senza meta; cammino distratta. Mi soffermo di fronte al museo archeologico; decido di entrarvi.
Nelle sale il tempo pare sospeso, come il pulviscolo nell’aria. Il bisbiglio dei pochi visitatori è sovrastato dallo schiamazzo dei turisti che, simili a formiche, pattugliano le vie del borgo, in cerca di cibo e botteghe d’alabastro. Un vociare che scivola lungo le pareti dell’edificio, irrompendovi attraverso una finestra spalancata.
Depositato ogni cruccio al guardaroba, vago fra i reperti con la sensazione di risvegliare memorie remote. Osservo rapita, attraverso il cristallo di una teca, la superba granulazione dei gioielli etruschi, mentre, impressa nella mente, riecheggia l’affascinante figura esile e poetica dell’Ombra della sera.
Un sussurro leggero, simile al frusciare di una vestaglia, mi ridesta. Alzando di poco lo sguardo, scorgo, riflesso nel cristallo, il mio viso e, di poco scostato, quello di un giovane. I nostri sguardi si incrociano; mi perdo nei suoi occhi neri, folgoranti, dal taglio simile a piccole foglie d’alloro. Avvampo, irretita dalla bellezza dei contorni sottili. I lunghi capelli lisci ricadono fluidi sulle spalle, mentre la barba, ben curata, ne sfiora gli zigomi lambendo le labbra carnose. Non riesco a distoglierne lo sguardo, mentre cresce la sensazione di riconoscerne l’identità che, però, sfugge come una fotografia che riaffiora fra i ricordi senza, tuttavia, trovare un’associazione o una collocazione temporale.
Gli occhi mi bruciano: sono spalancati in un’estasi mistica. D’improvviso, in un battito di ciglia, il riflesso si dissolve nell’aria. Mi manca il respiro, il cuore ha un tonfo. Mi volto di scatto trovando la sala vuota. Il turbamento si fa panico. Affacciandomi alla sala attigua, la trovo deserta; l’intero museo sembra privo di vita.
I fari dell’auto dissolvono l’oscurità, illuminando la striscia d’asfalto che, serpeggiando, lascia la cittadina. Nella testa sciama l’eco della musica, permettendo ai pensieri di ritrovare voce. Il trambusto della festa ha soltanto accantonato il turbamento per l’allucinazione nel museo. Con la logica smantello le ipotesi abbozzate: debolezza da fame, riflesso di luce. Non mi riesce di cancellare quel volto misterioso. Sfoglio i ricordi cercandone i tratti vagamente familiari senza trovarne traccia.
Una spia si accende sul cruscotto e il motore si arresta, facendo sussultare l’auto. Si spegne ogni luce. Impreco, giro più volte la chiave, ma l’inerzia del motore non fa che amplificare il rumore dell’unghia che si spezza.
Prendo a pugni il volante, sfogando la rabbia nei confronti di Federica.
«Quella stronza! Spero che il preservativo sia bucato!»
La luna rischiara la campagna tratteggiandone i lineamenti, contorni che si fanno lugubri. Mi ricordo del cellulare. Rovisto fra le cianfrusaglie nella borsetta. Lo estraggo e premo il display che, illuminandosi, mi rincuora.
«Cazzo, non è possibile!» inveisco, leggendo dell’assenza di rete.
Il silenzio si fa solido, l’aria irrespirabile. Non trattengo alcune lacrime. Respiro profondamente. Scendo dall’auto per cercare una casa o un segnale sufficiente per il cellulare. Cammino sulla linea di mezzeria; la boscaglia mi inquieta, ne sbucano crepitii e versi tetri di animali.
Non sono lucida: percepisco dei passi. Dovrei fermarmi per accertarmi che sia solo suggestione, ma vorrei correre, fuggire. Serro al petto i lembi dello scialle. Ho freddo; i brividi irrigidiscono i muscoli, mi fanno male. Fisso il display, sperando di trovarvi le tacche della rete.
Uno stramaledetto animale fugge da un cespuglio e il cuore ha un collasso. L’aria è gelida. Giurerei di non essere sola. Affretto il passo; l’affanno del respiro copre i rumori. La tensione mi sta uccidendo.
All’improvviso, la salvezza: un acciottolato bianco che s’inerpica su di una collina. Un cartello indica: ‘Vendita Vini’.
«Grazie, Dio. Esisti e ora ne sono certa».
Imbocco il sentiero, confidando nella comprensione dei residenti. Un sollievo effimero, però, liquidato da un senso di sopraffazione: una mano invisibile preme sul petto, respiro a fatica, le ginocchia sono molli. Al limite di una crisi isterica, incespico in alcune radici. Mi fermo, percepisco un sussurro nella brezza, una vibrazione da cui capto un suono: “Vel”. L’istinto lo collega al viso del museo.
Riprendo il passo, allungandolo. La testa mi scoppia, sto impazzendo. Inciampo, apro istintivamente le mani lasciando cadere il cellulare. Scoppio a piangere come una bambina. Sento le cosce tiepide e bagnate: me la sono fatta addosso.
Smaltisco lo choc. Mi inginocchio. Tasto il terreno, cercando il cellulare. La campagna tace: non un grillo, un suono qualsiasi. La paura diventa ansia, soffocante sensazione d’essere in ritardo, mentre torna quel suono: “Vel”.
Alzando lo sguardo, il sangue mi si raggela nelle vene: a una trentina di metri, il fascio luminoso di una torcia elettrica. Odo un colpo metallico, voci mormorate. Di nuovo il panico. Riprendo la ricerca del cellulare, nella testa riecheggia: “Vel…Vel…Vel…”
Trovato! Pigio lo schermo, accendendo il display. Digito il 112, porto l’apparecchio all’orecchio, ma qualcosa si spacca in me. Risponde un operatore; la sua voce, però, si fa lontana, mentre percepisco la mia rispondere. Ascolto la telefonata dall’esterno. Persino la lingua mi sembra incomprensibile.
Sto per esplodere di rabbia; una forza che non controllo, esterna, prende il sopravvento. Getto il cellulare. Rabbrividisco. Distinguo gli uomini intenti a profanare un sepolcro, un’immagine si forma vivida nella mente: il volto misterioso è ora implorante, tormentato. Esplodo in un urlo che non trattengo più, una voce che non è la mia, ma che sgorga dell’anima. Un ruggito, che percorre la campagna come un’onda d’urto. Vel, il nome arcano, lanciato come una pietra contro quegli uomini. Grido sostenuto sino all’ultimo filo d’aria dei polmoni.
Sfinita e svuotata, come se le ossa stesse si siano volatilizzate assieme all’urlo, mi accascio piombando nel buio e nel silenzio.

«Sono lieto abbia accettato l’invito» dichiara il sovrintendente agli scavi archeologici. «Grazie a lei, possiamo mostrare al pubblico questo importante ritrovamento» prosegue, invitandomi a entrare nel museo.
Appese alle pareti, le locandine annunciano l’esposizione dei reperti rinvenuti nella tomba etrusca. Mi stringo al braccio di Conni. Sono trascorsi quasi diciotto mesi da quella notte. Giorni trascorsi, minuto dopo minuto, a ricercare una stabilità psichica. Mesi segnati dai ricordi che vanno sfocandosi fino a dissolversi all’imboccatura del sentiero acciottolato, per riprendere, con un balzo temporale, dal volto di un carabiniere chino su di me, i lampeggianti della volante, l’ambulanza, i medici, gli infermieri.
«Prego, si avvicini pure» mi invita il sovrintendente. «Sono oggetti di pregevole fattura. Si trattava di una coppia nobile».
Ascolto senza interesse, auspicando finisca presto.
«Qui, invece, sono esposti i gioielli» prosegue.
Getto un’occhiata ai preziosi adagiati su del velluto rosso.
«È un corredo nuziale!» esclama, pomposo. «La tomba apparteneva a una coppia di sposi. Gli affreschi, fra l’altro ben conservati, rappresentano il bacchetto di nozze».
«L’avevo detto che non dovevo venire» bisbiglio a Conni.
«Prima o poi devi affrontare questa situazione» ribatte.
«Parli come il mio analista, però, sono io che sto per avere una crisi».
«Prego, da questa parte» ci invita il direttore. «Nella prossima sala potrete vedere i cinerari. I “tombaroli” sono fuggiti frettolosamente, sorpresi mentre svuotavano le ceneri dello sposo».
 Rabbrividisco al pensiero.
«Nella prossima sala, è esposto il coperchio dell’urna che conteneva i due cinerari. Un vero gioiello scultoreo».
«Si conoscono i nomi degli sposi?» domanda Conni.
«La sposa si chiamava Elinai e lo sposo Vel».
Sussulto, attraversata da una scossa elettrica.
«Nomi incisi sul basamento dell’urna, mentre il coperchio ritrae la coppia su di un triclinio» precisa il direttore.
Varcando la soglia dell’ultima sala, il cuore trasale in una sincope. Chiusi nella teca, i due sposi sembrano attendere l’arrivo dei visitatori. L’uomo abbraccia la moglie di spalle, accarezzandole i lunghi capelli. Nulla, nel complesso scultoreo, intacca la fluidità delle figure. La tinta calda della terracotta sembra infondere vita agli sposi. Avvicinandomi, saggio con lo sguardo ogni particolare. Intimidita, con lo sguardo risalgo la lunga chioma dello sposo sino al volto delicato. Trasalisco, attraversata da un brivido. La sala si svuota dell’ossigeno lasciandomi senza respiro. Davanti a me, perfettamente riprodotto, c’è il giovane del museo.
«Stupefacente la somiglianza!» esclama il sovrintendente; parole che mi giungono come una sferzata. Voltandomi, ne colgo lo sguardo sgomento che si alterna fra me e i due sposi.
Vorrei urlare, fuggire lontana da questo museo maledetto. Mi manca il respiro, ho le vertigini; mi aggrappo a Conni chiedendo sostegno, ma anche lei, sgomenta, sta fissando la scultura. Seguendone lo sguardo, porto il mio sul volto della sposa, restando basita. Dinanzi a me, plasmato in un’era lontanissima, vedo il mio viso come fosse riflesso su di uno specchio.


Di Pierangelo Colombo, edito nella raccolta :Prospettive  (2017).
    

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