di Pierangelo Colombo

venerdì 11 novembre 2022

Bucefalo

Bucefalo



di Pierangelo Colombo

 Bucefalo, m’apostrofava sadicamente mio padre. Pseudonimo di cui fece un utilizzo così profuso da indurmi a credere avesse scordato il mio vero nome. Appellativo che nulla aveva da spartire con la mitologia evocata dall'omonimo destriero, ma, bensì, intesa nel significato letterario: testa di bue.
    Principe del foro, si era laureato con lode e abbraccio accademico e trovava insostenibile l’onta di un figlio che andava a scuola con l’unico obiettivo di scaldarne il banco.
     Crebbi sentendomi inadeguato quanto una candela all’entrata dell’inferno e anonimo come un granello di sabbia nel deserto. Ingenuo, mi lasciai irretire dalla cocaina che, ammaliandomi, mi catapultò in un mondo effimero e mi rese invincibile al pari di un gigante corazzato. Forte, svelto, indomabile proprio come quel maledetto cavallo che pareva irraggiungibile. L’Olimpo era alla mia portata, il mondo calpestabile quanto una merda di cane.
     Tuttavia, ero un colosso dai piedi d’argilla: gli dèi non hanno da pagar locazione; il mio posto fra loro, invece, aveva un costo altissimo. Precipitato nella prigionia della dipendenza, fui costretto a scippi, borseggi e spaccio per mantenere il fiele mascherato da elisir.
    Imboccato un vicolo cieco, non potei che finire sulla soglia del carcere. Fu in questura che subii l’ultimo sguardo aspro di mio padre. Superbo, tentò di lanciare un salvagente per trarre in salvo il buon nome della famiglia, non certo me. Raccolsi le ultime forze e lo rinnegai, rifiutando l’assistenza del suo pupillo, il perfetto modello del figlio sognato: un giovane promettente, capace di scovare un cavillo giudiziario in un pagliaio di leggi e commi.
     Rabbia repressa, gelosia e odio mi spinsero a quella cieca decisione: rigettare una difesa brillante per una d’ufficio. Rinnegando mio padre, mi ritrovai solo: avevo osato imbrattare il blasone di famiglia, costringendo il capostipite a recidermi dall’albero genealogico come un ramo secco.
    Sapevo che non sarebbe stato semplice anche se non immaginavo affatto l’inferno che mi attendeva, il marcio che avrei dovuto estrarre dal profondo dell’anima. L’odio a cui avrei dovuto dar sfogo per ritrovare la pace verso il mondo, verso me stesso.
     Ho conosciuto le sofferenze del travaglio, sino a partorire un nuovo Io. Un dolore fisico, ma anche mentale, che mi gettava in un labirinto di fobie e allucinazioni, istigandomi a gettare la spugna. Una lotta che, sfinendomi, mi ha ridotto a un ammasso informe di fango e sudore, argilla con cui, lentamente, mi sono riplasmato.
     La comunità, con il senno di poi, è stata la madre che, dopo una gestazione di due anni, mi ha riportato a nuova vita. Una famiglia dove ho potuto urlare, sbattere la testa contro il muro, imprecare contro Dio e l’universo intero, ma anche conoscere, con il tempo, il significato di amicizia, condivisione, comprensione e aiuto reciproco. Scoprire il significato del lavoro, la fatica che trasforma il sudore in cibo, un materasso in paradiso. La pace e il tormento che un vero padre sa infondere nei propri figli; la sicurezza che si può trarre dai suoi consigli che non sono sentenze.
     In Achille ho trovato non un amico, ma il vero significato della parola padre: colui che dà pane e protezione. Un educatore che mi si è affiancato nella corsa, adeguandosi al mio ritmo: non ha indicato scorciatoie e nemmeno mi si è sostituito nel saltare gli ostacoli; ha lasciato che cadessi, ma quando ero a terra, invece di sputare accuse, mi ha insegnato a rialzarmi.
     Achille è uno che si sporca le mani di vomito e urina. Conosce il fascino e il richiamo suadente della cocaina, per questo non tappa le orecchie con della cera, ma lega i propri compagni all’albero maestro, con lui, per affrontare assieme l’attraversata guardando in faccia le sirene ammaliatrici.
     Achille non chiude a chiave le porte. Quando sono fuggito, mi ha inseguito e, una volta raggiunto, non una parola di biasimo o punizione, ma l’offerta di rinnovato aiuto.
     Un giorno stavamo in campagna per la raccolta delle melanzane; il sole picchiava duro. Era quasi l’ora di pranzo e la fame mi dava il tormento; poco lontano, c’era un melo selvatico, e fra il fogliame spiccavano i piccoli frutti arrossati dal sole, invitanti. Il languore era tale da farmene cogliere l’aroma nell’aria, immaginando di gustarne la polpa zuccherina.
     Stiracchiando la schiena, mi avvicinai e ne colsi un frutto. Appena affondati i denti, però, il sapore aspro si sprigionò facendomi arricciare la lingua. Una smorfia deve avermi deformato il viso, perché Achille, che stava guardando, scoppiò a ridere. L’orgoglio mi costrinse a ingurgitare il resto del frutto, simulando un piacere estraneo. Gettato il torsolo, Achille si avvicinò.
     «Vieni» mi disse.
     Seguendone i passi, arrivammo ai piedi di una scarpata ferroviaria, dove c’era un piccolo cespuglio di fichi d’india. I frutti erano di un arancio caldo, ma le lunghe spine li rendevano poco attraenti. Arrampicandosi, Achille si avvicinò al cespuglio e, con l’aiuto di un coltellino e dei guanti, ne colse uno. Tornato da me, con maestria e pazienza ne incise la pelle per sbucciarlo.
     «Mangia» intimò, porgendomi la polpa.
     Il succo tiepido e dolciastro si sprigionò in bocca, donandomi un brivido di piacere.
     «La vita è una strada piena di buche e bivi» disse Achille. «A ogni bivio devi compiere una scelta: ricorda che non sempre la migliore è quella più comoda; i risultati più appaganti si raggiungono con fatica, impegno e sofferenza, ma la ricompensa è mille volte meglio». Mostrandomi le mani, aggiunse: «Si fanno degli sbagli, ci si ferisce, ma è inutile recriminare; piuttosto, traine insegnamento e prosegui nel tuo cammino, sempre a testa alta, perché ognuno ha diritto al proprio posto nel mondo».
     E ora, eccomi davanti al primo bivio: da un lato, la strada breve del gettare tutto alle ortiche, lasciarsi andare biasimando la società che non mi accetta; dall’altro lato, l’indirizzo fornitomi da Achille, un lavoro che mi darà pane in cambio di sudore, sofferenze che produrranno soddisfazioni. Tutto ciò che posseggo è chiuso in uno zaino: speranze, ricordi, cicatrici e malinconia. Alle spalle lascio una madre amorevole da cui, inevitabilmente, Achille ha reciso il cordone ombelicale che mi teneva legato; la comunità mi ha rimesso al mondo, Achille mi ha rieducato e reso autonomo.
     Tremo come una foglia, non è una crisi d’astinenza, è emozione. Sono consapevole di dover affrontare la prova più difficile: camminare sulle mie gambe, sostenere il marchio indelebile dell’essere stato un tossico; reinserirmi in una società che, veloce come un treno, dovrò prendere al volo. Per la prima volta, però, sono fiero d’essere “Bucefalo” perché sarà proprio la mia cocciutaggine a spronarmi in questo cammino a piedi scalzi sulla sabbia rovente, che è il vivere.

  

 

Bucefalo, edito e vincitore del IV Premio Letterario Giotto colle Vespignano (2017)