di Pierangelo Colombo

giovedì 29 settembre 2022

La lingua delle immagini


La lingua delle immagini




   I piedi del ragazzino calpestavano il selciato in discesa, mentre il pensiero galoppava altrove, inseguendo aironi nel cielo.
   «Martino!» lo richiamò una voce, «Martino, dove stai andando?»
   «Al fiume» rispose questo, mostrando un filo alla cui estremità luccicava un amo. «Vieni anche tu?» domandò al compagno che, arrivando dai campi, lo raggiunse di corsa.
   «Il babbo m’ha detto di raccogliere la legna» rispose questo, combattuto fra l’obbedienza e il desiderio di trascorrere un pomeriggio con l’amico.
  «Mica tutto il giorno, mi fai un po’ compagnia e poi, se vuoi, ti do una mano nei boschi.»
   «Va bene» rispose il ragazzino, entusiasta di poter raccontare le sue nuove.
   «Domenica non ti ho visto alla messa» lo anticipò Martino, curioso.
   «Ero con il babbo a Firenze» esclamò entusiasta.
   «A Firenze? A fare che?» domandò sbalordito e invidioso al tempo stesso. La città, seppur a una giornata di cavallo, era così lontana dalle sue possibilità, da sembrare Gerusalemme.
   «In autunno ci trasferiamo là» rispose l’amico, «il babbo ha trovato una bottega, anch’io ci lavorerò; entreremo nell’Arte della Lana.» Diversamente dalla prima, tuttavia, il ragazzo pronunciò la seconda novità con meno enfasi.
   «E ti piace come lavoro?» domandò Martino che, assuefatto agli spazi aperti dei pascoli, provava un senso di asfissia al pensiero di rinchiudersi in una bottega.
   «Sì… non lo so, devo ancora provare» rispose titubante, per nulla convinto della strada che avrebbe intrapreso. «Però, avrò la possibilità di vedere e imparare tante novità: poco distante da casa c’è una bottega di pittori.»
   «E che ci fai?» domandò Martino, non comprendendo l’utilità di qualcosa così lontana dalle mani callose dei contadini. Un mondo tremendamente terreno il suo, fatto di fatiche nei campi, di un sole cocente in estate e un gelo che irrigidisce le ossa in inverno. Pecore da pascolare o campi da dissodare. Giornate di fatica fisica che trovava compenso la sera quando, distendendosi sul pagliericcio, la schiena, tesa come un arco, trovava sollievo. Anche la religiosità era proiettata a concetti concreti, rivolgendo suppliche di buona salute, di pane quotidiano e la protezione a temporali e grandine. Il mondo dell’arte era tutt’altro, qualcosa riservato ai nobili o alla Chiesa, vite agiate che spesso passeggiavano a braccetto. Un mondo fatto di cose belle, ma senza utilità pratica, buone ad abbellire chiese e palazzi, ma null’altro.
   «Vorrei imparare a pittare» confidò il ragazzo, con aria sognante.
   «E per far che?» ribatté Martino, mentre le dita svelte districavano il filo per la pesca.
   «Per lasciare memoria.»
   «Memoria di cosa? Che sai pittare dei muri? Dammi aiuto piuttosto: cerca dei vermi.»
   «Nonno è morto da tempo ormai, e non ricordo più il suo viso» rispose l’amico, malinconico.
   «A te Firenze non è che t’à fatto bene» ribatté Martino, «che c’entra ora il tuo nonno?»
   «Il tempo è come l’acqua che scorre» indicò la corrente del fiume, «leviga la memoria, cancella le fisionomie. A Firenze ho visto il ritratto di un uomo, il babbo disse che si trattava di un antico prelato, vissuto molti anni fa. Guardandolo ho visto il suo volto, lo sguardo, il modo di mettere le mani conserte. Grazie al dipinto la sua memoria sopravvive al tempo.»
   «E vorresti avere un ritratto di tuo nonno per non dimenticarlo?» domandò Martino perplesso.
   Il ragazzo sorrise, senza distogliere lo sguardo dalla corrente del fiume.
   «Va bene, ma a chi vuoi che interessi di tuo nonno? Io faccio il pastore come mio padre, e suo padre prima di lui e così da molte generazioni. Ogni volta che guardo il pascolo e faccio i loro stessi gesti è come se ricordassi tutti loro, nessuno escluso. Anche questo è memoria» obiettò Martino che, pratico, non concepiva l’utilità di qualsiasi cosa non avesse un ritorno materiale.
   «Ma non capisci?» ribatté l’amico, «non si tratta di lasciare memoria di nonno o del babbo o chi vuoi tu. Ma è la potenza delle immagini: una lingua che tutti possono intendere.»
   «Tu parli come il pievano, ma le vostre parole, per chi non studia, confondono, non danno possibilità di difesa» rispose Martino che, al contrario dell’amico, non aveva ricevuto alcuna educazione se non il catechismo.
  «Ti ricordi l’anno passato? Quando siamo andati alla Pieve di Sant’Agata per la fiera del bestiame?» domandò il ragazzo conscio dell’effetto di un esempio pratico. Martino assentì con il capo. «Rammenti quando siamo entrati nella pieve? Cosa raffigurava il dipinto sulla parete?»
   «Certo che lo ricordo, l’asino sembrava vero, e ricordo anche lo scappellotto del babbo quando ho allungato la mano per toccarlo quell’asino.»
   «E ricordi che storia raccontava?»
   «La storia del buon samaritano.»
   «Proprio quella; e cosa vuole insegnare questa parabola?»
   «Insegna che dobbiamo amare il prossimo.»
   «E dimmi, ricordi il sermone che il nostro pievano ha predicato quest’altra domenica?»
   Martino, che prima lo fissava incuriosito, volse lo sguardo imbarazzato del proprio silenzio.
   «Capisci la potenza delle immagini? Basta uno sguardo per entrare fisicamente nella storia, come se fosti lì e i tuoi occhi potessero vedere quello che accade. Come hai detto tu sembra che, allungando un braccio, si possa toccare i protagonisti.»
   Martino tornò a volgere a lui lo sguardo, avrebbe voluto controbattere, ma non trovando argomenti convincenti tacque.
   «Vedi quel ponte?» proseguì il ragazzo indicando la costruzione poco più a valle. «Percorrendo quel sentiero verso il fiume lasci alle spalle il cammino già fatto, mentre dall’altra parte del fiume c’è il sentiero ancora da compiere; il passato su di una sponda e il futuro sull’altra, è il ponte che unisce le due sponde, il passato al futuro. E così è l’arte: collega il passato al futuro, mostra storie antiche alle genti che verranno. La parola vola nell’aria e il vento può portarsela via, la scrittura rimane, ma è per pochi, l’arte è solida, la si vede. È un testimone che resta.»
   «Ma sono i fiorini dei signori a fare i dipinti» obbiettò Martino.
   «Il denaro è solo il mezzo che permette di creare un’opera, ma il messaggio che questa lascia nel tempo è universale; le Sacre Scritture come i Vangeli, grazie all’arte sono comprensibili a me come a te, allo scrivano come al fabbro, al mugnaio come al Capitano del popolo. I fiorini pagano i colori, gli operai, l’artista, ma è solo colui che dipinge a dar vita ai personaggi.»
   «Parli di stregonerie: quelle figure non potranno mai essere vive.»
   «È vero. Il mio sogno, però, è di poter rappresentare dei personaggi il più possibile reali, così da sbalordire gli occhi di chi guarda. Vorrei dipingere i volti della gente comune, i loro sguardi e le espressioni, di modo che chiunque si fermi a guardare non pensi di essere dinanzi a un dipinto, ma abbia la sensazione di vivere in quella scena, di esserne un testimone.»
   «Amico mio, dammi retta, hai troppi grilli per la testa. Tuo padre ha molte terre fertili, che rendono bene» indicò il colle dove viveva il ragazzino, «ma che ti vai a impicciare con delle cose così… bislacche. Resta qui, che ti vai a fare la vita da cittadino, che noi si è gente legata alla terra, alle stagioni…»
   «Ora s’è fatto tardi» lo interruppe il ragazzino, «ho ancora da raccoglier la legna.»
   «Aspetta, t’aiuto come ho promesso» disse Martino che, preoccupato per l’amico, avrebbe voluto trovare degli argomenti che lo riportassero alla vita reale, che gli togliessero dalla testa quei sogni che, seppur belli, lo avrebbero certamente condotto a una vita di stenti e delusioni.
   «Non fa nulla, stai pure a pescare» rispose il ragazzino, stringendogli la spalla con la sua mano destra. «Stammi bene Martino» lo salutò avviandosi. Avrebbe voluto instillare in lui la voglia di sognare un avvenire differente. Conosceva, tuttavia, la testardaggine di Martino e, probabilmente, sarebbe stato più felice fra le sue pecore che altrove.
   «Stammi bene tu, che in città gira brutta gente.» Ricambiò il saluto scuotendo la testa, confermando il proprio dissenso all’idea balzana dell’amico.
   Il ragazzino era ormai prossimo al sentiero quando si sentì chiamare.
   «Oh, Giotto» urlò Martino, «se un giorno diventi un grande pittore» rise, «ci torni qui a dipingere per noi?»
   «Certo» rispose Giotto sorridendo, «dipingerò una Madonna con dei santi e ci metterò sicuramente San Martino.»




Racconto inedito di Pierangelo Colombo, finalista nel IX Premio Letterario Giotto Colle Vespignano.

lunedì 19 settembre 2022

Il volo dell'aquila

 Un racconto breve dedicato alla resilienza. Buona lettura.

Il volo dell’aquila

 


  Il movimento è essenziale, l’universo stesso è un’esplosione in costante espansione; la materia, la vita è in continuo mutamento. Il calore è prodotto dalle vibrazioni delle molecole; i cadaveri sono freddi. 
  Un lungo cammino inizia da un primo piccolo passo recita l’adagio, vincere l’immobilismo è quindi il principio. Lara ne è consapevole, è abbastanza intelligente da capire che nessuno recapita a domicilio successi ed esperienze. Sa che la vita, quella vera, pullula al di fuori delle solide mura domestiche. Ogni giorno il fato getta nell’aria i semi delle opportunità; a volte granelli minuscoli, quasi impercettibili, ma se afferrati e adagiati su di un semenzaio fertile, germoglieranno radicandosi nel terreno. Saranno, tuttavia, le cure riservategli a permettere alla pianta di dare frutti.
  Lara, però, teme il mondo, anche se odia la vita che conduce; un bruco che desidera farsi farfalla, ma prova terrore al pensiero di rompere il bozzolo dove si è rifugiata. Un guscio che la ripara, ma non le permette più di respirare. Le pareti di casa sembrano stringersi come l’interno di palloncino che va sgonfiandosi. Il sofà non è più placebo, ora le rimane soltanto il letto: quell’istante in cui, spegnendo la luce, tutto svanisce lasciando la sola sensazione di lenzuola pulite e tepore. Un battito di ciglia che la riconcilia con il vivere. Più duraturo, invece, un bel bagno caldo: immergersi nel surrogato del liquido amniotico, rievocando il battito materno.  
  Immersa nell’acqua ne assorbe il calore, ascoltando il ritmico gocciolio del rubinetto. Inspira profondamente lasciandosi pervadere dal profumo di mandorla del bagnoschiuma. Lo stato d’ansia pare assopirsi, i pensieri stemperarsi nel vapore che aleggia nell’aria, smorzando la cognizione del tempo. Sgravata dal peso corporeo resta immersa finché le dita avvizziscono.
  Sedutasi sul bordo della vasca si stringe nell’accappatoio; una goccia, addensandosi, scivola verso il basso percorrendo lo specchio appannato. Non sopporta la visione opaca, l’immagine sfocata che vi si riflette. Presa una salvietta asciuga la superficie spaventandosi del proprio pallore; gli occhi rifuggono la realtà, cercando l’unico elemento del corpo accettato: i lunghi capelli ricci.
  Sfilandosi l’accappatoio si volta mettendosi di profilo, non sopporta la vista frontale; eppure, gli occhi non si staccano dal riflesso, lo sguardo scivola via dai capelli, sfiorando il collo segue la sinuosità della spalla soffermandosi sulla scapola.
  «Cos’è questa?» chiese un giorno, ancora bambina, alla madre.
 «Questa?» rispose la donna, sfiorando la lieve protuberanza che la bimba indicava contorcendo il braccio.
  È l’attaccatura per le ali» rispose la donna.
  «Ali?»
  «Sì, le ali. Se avrai coraggio e crederai in te stessa, un giorno avrai delle ali con cui volare.»
  «Perché tu non le hai? E nemmeno papà?»
  «Tutti le abbiamo, ma non sono visibili. Le mie, ad esempio, mi hanno permesso di raggiungere la vetta più alta del mondo.»
  «Sei stata sull’Everest?» chiese sbalordita.
  «Molto più su.»
  «Ma è l’Everest il monte più alto» ribadì la bimba.
  «Da dove ero io, L’Everest pareva una piccola cunetta.»
  «Mi prendi in giro» ribatté la piccola, imbronciata.
  «Quando sei nata tu» spiegò la madre, «ho raggiunto il punto più alto del cielo: il culmine della felicità. E sono state le ali, che mi sono costruita, a portarmi fin lassù. Ali tessute di sogni, ma soprattutto fatica e amore.»
  «Anch’io avrò delle ali?» chiese la bimba, perplessa.
  «Certo. Ma non basta avere delle ali, anche la gallina le ha, ma non può che fare dei piccoli balzi. Per imparare a volare occorre credere in sé stessi e non perdersi mai d’animo. Tentare e ritentare, e ogni volta che si precipita a terra rialzarsi per riprendere il volo. E se vuoi librarti in alto come l’aquila, devi farti delle ali grandi e potenti come le sue, con sacrificio e volontà, perché, l’aquila, per spiccare il volo ha bisogno di spazio e forza.»
  Lara ripensa a quella vita, così diversa e lontana nel tempo da sentirsi la protagonista di due film diametralmente opposti.
  Aveva provato a volare, ma le sue ali erano delicate e, come Icaro, avvicinatasi troppo al sole si erano bruciate: l’uomo che avrebbe dovuta proteggerla ne aveva sbiadito ogni splendore, riducendola a dolore. Una storia lunga, dal finale liberatorio, ma è difficile cancellare il passato che, se non immunizzato, diviene un vortice di depressione.
  Ora, seppur libera, prova il peso della solitudine, un senso che, come un vuoto d’aria, toglie portanza alle ali facendola precipitare. La terapeuta le ha fornito un paracadute, certo, ma questo rallenta solamente la discesa. È consapevole del compito che l’attende: saper attutire il contatto con il suolo, riprendere fiato e, spiegando le ali, riprendere il volo. Ma avere i piedi per terra la disarma: uscire da casa, lasciare il sofà per affrontare nuovamente il mondo le incute una paura folle. Come potrà ritrovare la fiducia verso l’umanità? Abbandonarsi a un altro uomo o confidarsi con delle donne che, svestiti i panni dell’amicizia, le hanno voltato le spalle? Ritrovare quel senso di protezione tradito da chi, sminuendo, non ha teso la mano a trarla dalle spire del mostro? 
  Non sopporta più, tuttavia, la solitudine; la bolla in cui si è rifugiata sa di stantio. Sente il bisogno di spazi aperti, di socialità, anche se il solo pensiero le mette i brividi. Per mesi è stata una mosca che, attratta dalla luce, batteva continuamente la testa sul vetro, quella barriera interposta fra lei e la vita. Ora è il tempo di spalancare la finestra e librarsi nell’aria.
  Trema come una foglia dinanzi all’uscio di casa, l’uscita non ha come meta il rassicurante studio della terapia, è un volo senza paracadute, senza destinazione prefissata se non tornare a vivere. Nessun attacco di panico, ma l’ansia d’incappare in un nuovo mostro, l’ennesima delusione.
  Gira la maniglia scostando di poco l’uscio, con il rumore della città entra un refolo d’aria. Inspira profondamente controllando un principio di vertigini. Il bagaglio del passato, che non potrà mai abbandonare, non le schiaccia più le spalle. Si sente vestita, protetta dagli sguardi della gente. Lei è la vittima non la colpevole, ha il diritto di pretendere nuovamente la felicità, ha le forze per ritrovare sé stessa. Vuole tornare a volare come sua madre, regale come un’aquila, ma come tale necessita di un potente slancio per decollare, di spazio e coraggio.
  Scende gli scalini senza aggrapparsi al corrimano, la fronte alta, il passo deciso. Si sofferma sul marciapiede, osserva la gente che cammina spedita verso i propri obiettivi. Inspira nuovamente e, puntando verso il proprio, spicca il volo.    


Racconto edito di Pierangelo Colombo, classificatosi terzo nel Premio Città di Verona.
Condividete pure, ma non scordatevi di citare l'autore. 😀