di Pierangelo Colombo

venerdì 30 marzo 2018

Venerdì Santo

  


Venerdì Santo
di Fausto Maria Martini

Nulla, credi, è più dolce per i nostri
occhi di questo giorno senza sole,
con i monti velati di viole
perché la primavera non si mostri...

Venerdì Santo! E ieri sera tu
ti rimendavi quest'abito, tutto
grigio, un abito come a mezzo lutto
per la morte del povero Gesù...

Traevi dalla tua cassa di noce
qualche grigio merletto secolare:
così vestita, accoglierà l'altare
la buona amante con le mani in croce...

Prega per me, prega per te, pel nostro amore,
per nostra cristiana tenerezza,
per la casa malata di tristezza,
e per il grigio Venerdì che muore:

Venerdì Santo, entrato in agonia,
non ha la sua campana che lo pianga...
come un mendico, cui nulla rimanga,
rassegnato si muore sulla via...

Prega, e ricorda nella tua preghiera
tutte le cose che ci lasceranno:
anche il ramo d'olivo che l'altr'anno
ci donò, per la Pasqua, Primavera.

Quante volte l'olivo benedetto
vide noi moribondi nel piacere,
e vide le nostre due anime, in nere
vesti, per noi pregare a capo al letto!

E pregavamo, come se morisse
qualcuno: un poco, sempre, morivamo:
Ma sempre sull'aurora nuova, il ramo
d'olivo i liei amanti benedisse!

Ora col nuovo tu lo cambierai:
anche devi pregare per gli specchi
velati, per i libri, per i vecchi
abiti che tu più non vestirai...

E' sera: un riso labile si perde
sulle tue labbra, mentre t'inginocchi:
io guardo, dietro la veletta, gli occhi...
due perle nere in una rete verde.





 Fausto Maria Martini
Poeta, drammaturgo e critico letterario, Fausto Maria Martini è nato a Roma nel 1866 e morto a Roma nel 1931. Appartiene alla scuola crepuscolare di ROma, che si è formata nei primi decenni del Novecento, il cui esponente principale era Sergio Corazzini. Dopo la morte di Corazzini, si è recato negli Stati Uniti, dove è rimasto un paio di anni. Tornato in Italia, ha lavorato come critico teatrale alla rivista La Tribuna e al Giornale d'Italia. Ha partecipato alla Prima Guerra Mondiale, dove è stato ferito gravemente ed è rimasto mutilato.

giovedì 29 marzo 2018

Gli occhi dell'agnello


Fra qualche giorno festeggeremo la Pasqua. Pasqua è voce del verbo ebraico ‘pèsah’, passare. La vita stessa è un transito, un viaggio attraverso il tempo, conoscendo emozioni, sentimenti e sogni. Un cammino a piedi nudi sulla sabbia rovente con il desiderio di tuffarsi in mare. Un viaggio costellato da incontri ed esperienze, faticando nell’impresa di costruire qualcosa che resti di noi. Un’esperienza che conosce alba e tramonto, luce e buoi, freddo e calore. Assistiamo, a volte inermi, al susseguirsi del bene al male, della sofferenza alla gioia e troppe volte vediamo il sacrificio degli innocenti. Quello che possiamo fare forse è poco, troppo poco per cambiare questo mondo, ma se riuscissimo a unire tutti i miliardi di piccoli gesti quotidiani, forse, uno scossone a questa società malata potremmo anche darlo. Basta poco, si chiama EMPATIA, immedesimiamoci nell’altro, cerchiamo di capirne i bisogni, il dolore. L’empatia porta alla comprensione, all’inclusione e alla fraternità.

Proprio per la Pasqua vorrei dedicarvi questo mio racconto breve, augurando a tutti voi una buona festa.


 

Gli occhi dell’agnello


Sulla spianata aleggiava, sospeso nella bruma mattutina, un profondo silenzio. L’alba pareva indugiare oltre le colline brulle che disegnavano l’orizzonte. Solo un leggero chiarore stemperava il blu della notte, smorzando lo sfavillio delle stelle. La luna, infiammandosi di un riverbero rosso brace, si celava tra le fronde di un ulivo, mentre l’universo intero tratteneva il respiro.
Appollaiato sul ramo di un ulivo secolare, un giovane passero attendeva il sorgere del sole, con l’animo oppresso dalla mesta atmosfera che da giorni inquietava la natura: nemmeno un belato giungeva dai pascoli degli armenti; gli uccelli, silenti, non si alzavano in volo che per brevi tragitti. Le volpi s’erano rifugiate nelle tane, mentre nessuna farfalla spiegava le proprie ali a colorare l’aria.
L’uccellino rabbrividì; nella testa mulinavano ancora le immagini, le emozioni, le paure vissute nelle ultime ore.
Tutto ebbe inizio quando, cedendo alla curiosità, s’era avvicinato alla grande città chiamata santa; carovane di uomini, merci e animali, ne percorrevano le strade varcandone le porte. Una folla chiassosa animava le vie, assieme al belato degli agnelli che ne accompagnavano il passo.
Intrigato, aveva planato sopra le teste della gente con brevi e vigorosi battiti d’ali, sfiorandone quasi i pensieri. Poggiandosi ora su di una stuoia, ora sulle travi di un portico, s’accostava alle persone.
Un uomo, seduto sulla groppa di un asino, attirò la sua attenzione con gesti pacati, la voce calda e gli occhi dolci quanto il miele.
Il passero capì di potersi avvicinare senza alcun timore: da quell’uomo s’espandeva una forza invisibile, la stessa energia del sole. In lui erano racchiusi la potenza e il mistero del creato.
La folla iniziò a declamare inni di gioia, agitando lunghe fronde di palma e stendendo dei mantelli sul suo cammino; il giubilo fu così grande da spaventare il passero facendolo fuggire.
Tale fu la meraviglia per quell’incontro, che nei giorni successivi seguitò a cercare quel volto; una ricerca vana ma caparbia, perseguita intrufolandosi nei davanzali delle case più umili.
Una strana inquietudine, però, si sviluppò con il trascorrere delle ore: un angoscia montante come l’incessante belare degli agnelli che riecheggiava fra le vie della città. Un verso cupo, irrequieto, simile al pianto di un bimbo strappato dalle braccia della madre.
Il giovane passero vagò ansioso e turbato da quell’atmosfera lugubre, finché non s’avvicinò al grande tempio, dove la folla era più numerosa e indaffarata, e quel belare si udiva più forte.
Volò oltre il colonnato, varcando la soglia di quel luogo sino a ritrovasi dove gli agnelli, con lamenti strazianti, venivano immolati sull’altare fra volute d’incenso e mirra.
Inorridì nel veder spegnersi la fiamma della vita in quegli occhi limpidi come l’acqua. Tale fu l’orrore, che fuggì lontano: solo il desiderio di scappar via senza voltarsi, con il cuore in gola, mentre i belati parevano seguirlo, quasi volessero afferrarne le ali a trattenerlo.
Vagò per giorni oppresso, mentre lo straziante belare echeggiava nelle sue orecchie.
Un pomeriggio, volò su di una collina brulla, dove sul culmine dell’arida sassaia, spiccavano quelli che parevano tre alberi spogli e privi di vita. Esausto, si posò sul legno grezzo di uno di questi, inorridendo nel vedervi crocifisso un uomo.
Il primo impulso fu di fuggire lontano, ma qualcosa ne impedì i movimenti. Una corona di spine ne cingeva il capo. Il volto irriconoscibile: tumefatto, coperto di fango, sudore e sangue, mentre un faticoso rantolo ne suppliva il respiro.
I loro sguardi s’incrociarono e il passero riconobbe, dietro la maschera di dolore, colui che aveva tanto cercato.
Le tenebre calarono, smorzando la luce nei sui occhi, e la fiamma vitale si affievolì.
Fissandone lo sguardo limpido e innocente, il passero lo associò a quello di un agnello. Non astio, rancore o ira, ma una disarmante pietà: lui, morente, provava una profonda compassione per chi ne aveva causato le pene.
Una folata di fumo, alzatasi da un fuoco poco distante, investì il piccolo pennuto, accentuandone il senso d’asfissia, mentre nella sua mente aumentava quell’assordante belare dell’agnello sacrificale.
L’uomo chinò il capo per non rialzarlo più.
Il silenzio calò come un sudario sulla terra, azzittendo ogni creatura; nella testa del passero cessò il belare lancinante. Terrorizzato, l’uccellino volò via, rifugiandosi fra le fronde di un ulivo solitario, dove rimase ammutolito e ansioso.
Attese tutta la notte e poi il giorno dopo e la notte che ne seguì. Al sorgere del nuovo giorno, il sole stava per scacciare il senso di oppressione, quando un soffio tiepido accarezzò la terra. Un alito di vita che smosse appena le fronde dell’ulivo e infuse nel piccolo passero una sensazione di benessere.
Il canto degli uccelli esplose verso il cielo, innalzando un osanna, mentre una luce pura, intensa ma non abbacinante, si diffuse in ogni dove, un istante prima che il sole sorgesse.
Nel passero rinacque l’energia vitale, assieme alla voglia d’unirsi all’inno alla gioia che si propagava nell’aria come cerchi su di uno specchio d’acqua.
Percepì una presenza ai piedi dell’albero, un passo felpato. Incuriosito, volò sui rami più bassi. L’uomo che aveva visto morire sulla croce, camminava a piedi scalzi, dai suoi occhi era scomparsa ogni ombra di dolore, sostituita da un amore smisurato, puro e fulgente.
Il passero, però, non provò paura, ma una sensazione inspiegabile di gioia e meraviglia. Senza riflettere, intonò una melodia armoniosa in suo onore, salutandone, a suo modo, il ritorno.
Lusingato, l’uomo si fermò ad ascoltarne il canto, ricambiando il saluto con un sorriso più dolce del miglio impastato con del miele.


Edito come prologo in: Giosuè di Betania 2016

mercoledì 28 marzo 2018

Proposte di lettura, Mi vivi dentro


Mi vivi dentro è la storia di due vite che diventano una sola, impegnandosi in una battaglia contro il destino. Alessandro e Francesca è la storia di due persone affini che si incontrano e che si innamorano decidendo di costruire una vita assieme. L’imprevedibilità della vita, però, decide diversamente, mettendo a dura prova i loro sentimenti, ma anche nel momento più difficile il loro amore è più forte della paura, più forte del dolore. Insieme trovano la forza per combattere un nemico che non si può sconfiggere, ma al quale vogliono impedire di rubare loro tempo prezioso. 

 

Una storia piena di speranza, di amore, di attaccamento alla vita. Un inno alla resilienza.
Tutto comincia alle sei di mattina, in radio, dove due giornalisti assonnati si danno il turno. Lui sta cercando di svegliarsi con un caffè, lei sta correndo a casa dopo aver lavorato tutta la notte. E succede che nella fretta i due scambiano per errore i loro cellulari. Si rivedono qualche ora più tardi e da un dialogo quasi surreale nasce un invito al cinema, poi a una mostra, un aperitivo, una gita in montagna.
Francesca è bassina, impertinente, ha i capelli biondi arruffati e due occhioni blu che illuminano il mondo. È una forza della natura, sempre in movimento, sempre allegra: per questo la chiamano Wondy, da Wonder Woman. Alessandro è scherzoso e un po’ goffo, si lascia travolgere da Francesca e dall’amore che presto li lega. Con lei, giorno dopo giorno impara a vivere pienamente ogni emozione, a non arretrare di fronte alle difficoltà. E così, insieme, con una forza di volontà che somiglia a un superpotere, si troveranno a combattere la più terribile delle battaglie, quella che non si può vincere. Ma anche dopo la morte sono tante le cose che restano: due figli, un gatto, un bonsai, tanti amici e, soprattutto, una straordinaria capacità di assorbire gli urti senza rompersi mai. Anzi, guardando sempre avanti, col sorriso sulle labbra.
                     
Alessandro Milan
Alessandro Milan (Sesto San Giovanni, 1970) lavora come giornalista da quasi venti anni a Radio24, dove conduce programmi di approfondimento. È presidente dell’associazione “Wondy Sono Io” wondysonoio.org, impegnata nella diffusione della cultura della resilienza.













martedì 27 marzo 2018

Intervista all'autrice, Sara Rattaro



Sara Rattaro è nata a Genova. Laureata in Biologia e in Scienze della Comunicazione, ha lavorato come informatore farmaceutico prima di dedicarsi completamente alla scrittura. È autrice di diversi romanzi: Sulla sedia sbagliata, Un uso qualunque di te, Non volare via (Premio Città di Rieti 2014), Niente è come te (Premio Bancarella 2015), Splendi più che puoi (Premio Rapallo Carige 2016), L'amore addosso, Uomini che restano e Il cacciatore di sogni, il suo primo libro per ragazzi. È docente di Scrittura creativa presso l'Università degli studi di Genova.
Nel 2018 ha pubblicato il nuovo romanzo, Uomini che restano, edito da Sperling & Kupfer.


È un vero onore ospitare l’autrice Sara Rattaro in questo blog. Ringraziandola per la gentile disponibilità, con grande piacere le rivolgiamo alcune domande
-Iniziamo con il conoscerla meglio; qual è il suo rapporto con la scrittura?
-È un rapporto viscerale. La scrittura mi fa stare bene.

-C’è un’autrice o un libro che ha inciso in qualche modo nella sua formazione?
-Ce ne sono tanti. Ho avuto la fortuna di leggere tanti libri di narrativa anche durante gli anni della scuola. Una fra questi è stato “notte a Lisbona” di Remarque.

-Quanto influisce nel suo lavoro l’esperienza del vissuto?
-Io racconto storie che riguardano soprattutto la mia generazione. Per questo farne parte è molto utile.

-Uno dei protagonisti principali nei suoi libri è l’amore. Gli antichi Greci avevano individuato quattro forme primarie di amore: familiare, storge, l'amicizia philia, il desiderio erotico, ma anche romantico, eros e l'amore spirituale, agape; secondo la sua esperienza, possono convivere questi sentimenti senza entrare in conflitto? 
 -Se ci riuscissero saremmo tutte persone più serene. Credo che tutti possediamo l’illusione di poterli far convivere ma nella pratica siamo sempre meno performanti.

-Come docente di scrittura, quale consiglio vorrebbe dare ai tanti autori desiderosi di pubblicare un proprio libro?
-Di stare molto attenti all’autobiografia. Riuscire a prendere le distanze dalla propria storia e dai propri punti di vista è difficile e richiede molta esperienza e anche un pizzico di tecnica.

-L’autunno scorso ha pubblicato Il cacciatore di sogni, la vita di Albert Bruce Sabin, ricercatore che trovò il vaccino contro la poliomielite. Com’è nata l’idea di raccontarne la storia? È un libro pensato per giovani lettori, ha trovato difficoltà a scrivere per ragazzi?
 -L’idea è arrivata in modo naturale nel momento in cui ho pensato a cosa aveva emozionato me quando ero una ragazzina. La storia di Sabin ha accompagnato la mia infanzia e forse mi ha resa migliore. Raccontarla ai ragazzi è stato un grande privilegio.

-In L’amore addosso, parla di verità segreta e, soprattutto, di perdono. Quanto, in un rapporto è importante la sincerità?
-È importantissima ma non dobbiamo dimenticare che spesso è la cosa più dolorosa che incontriamo.




-Passiamo ora al suo ultimo romanzo: Uomini che restano; da quale idea è nato? Vuole descrivercelo?
-È nato dall’unione di due storie che a loro volta ne contengono molte altre. Ascoltare gli altri è la radice vera di questo mestiere. Fosca e Valeria sono due donne abbandonate per motivi diversi dai loro mariti. Ho immaginato di farle incontrare davanti a uno dei panorami più belli del mondo, quello della mia città, Genova. Nascerà una solidarietà tra loro, un sentimento veloce e intenso di cui spesso abbiamo profondamente bisogno e non per questo deve arrivare per forza da qualcuno che ci conosce come le sue tasche.

-Sembra che il mare le sia fonte d’ispirazione, come mai ha atteso tanto per ambientare un romanzo a Genova, la sua città?
-Ne ho sentito l’esigenza soprattutto in questo romanzo. Genova, oltre a essere una voce narrante,  è soprattutto un grande abbraccio per le sue figlie spettinate, un ritorno a casa. La mia città, in questo, è imbattibile.

-Il tradimento svelato richiama vendetta, desiderio di restituire il dolore ricevuto, sentimento tanto comune quanto eterogeneo nelle reazioni, come si comportano i personaggi nel suo romanzo?
Ognuno a modo suo. Non esiste un manuale di istruzioni valido per tutto. Subire un tradimento è una delle cose più dolorose che possa accadere e per questo ogni reazione umana è plausibile. Fosca fugge, Valeria assorbe in silenzio. C’è chi vuole spiegare e chi fa finta di non capire. Ci sono le persone, i loro limiti e i loro slanci.

-La moglie abbandonata dal marito che prende coscienza della propria omosessualità; oltre a sentirsi ingannata, quali altri sentimenti subentrano nella donna? Perché è ancor più difficile che sentirsi tradita per un’altra donna?
Non so se sia più difficile in assoluto. Quello che accade, almeno alle donne della mia generazione è il sentirsi completamente impreparate. Siamo pronte a tutto ma non a questo, perché non siamo cresciute pensando che sarebbe stato possibile. Molte di noi, la maggior parte, ha vissuto la giovinezza in un mondo dove di omosessualità non si parlava mai, se non per schernire. Era un tabù e per molti lo è ancora, purtroppo.

-I suoi personaggi sono sempre ben costruiti, rendendo un io ben distinto. Anche in Uomini che restano, ha reso bene i vari punti di vista e, nello specifico, ottenuto un ottimo risultato nei confronti dell’omosessualità; ha dovuto lavorare molto per non cadere in facili stereotipi? Chi, fra la moglie di Lorenzo e i suoi genitori, l’ha impegnata di più?
-Ho solo cercato di fare quello che faccio sempre quando creo un personaggio. Lo ascolto. Lascio che mi racconti tutto il suo mondo, anche quello di cui si vergogna di più. Il segreto è nel sollevare ogni forma di giudizio. Fare la scrittrice, non il giudice.

-Con quale delle due protagoniste, Valeria e Fosca, prova più empatia?
Entrambe. Potrei essere loro se mi trovassi in quella situazione. Le ho comprese benissimo, soprattutto nei loro lati oscuri.

-Tre aggettivi per descrivere Uomini che restano.
-Sincero, attuale e spero coinvolgente.


di Pierangelo Colombo

lunedì 26 marzo 2018

La Grande Guerra; Emilio Lussu



Emilio Lussu è nato il 4 dicembre 1890 ad Armungia, un piccolo paese in provincia di Cagliari. Laureato in giurisprudenza, è favorevole all’entrata in guerra contro l’Austria. La consapevolezza politica, dopo l’interventismo che ne ha caratterizzato il periodo studentesco, si forma sui fronti della Prima Guerra Mondiale, alla quale partecipa come capitano di fanteria della Brigata "Sassari". Vicenda da cui una intera generazione di contadini e pastori sardi, hanno formato la consapevolezza sulla propria condizione sociale. La Sardegna post-bellica è gravemente impoverita dal conflitto e 1921 fonda, assieme a Bellieni ed altri ex combattenti, il Partito Sardo d'Azione facendosi portatore delle istanze delle classi proletarie in un quadro di recupero della questione nazionale sarda. Lussu è eletto deputato nelle elezioni del 1921 e del 1923, durante l’ascesa del fascismo non valuta a pieno il pericolo di un dialogo con Mussolini. Tuttavia la posizione successiva è netta: antifascismo intransigente. Dopo il delitto Matteotti, partecipa alla «secessione aventiniana». Nel ’26 è dichiarato decaduto dal mandato parlamentare e viene perseguitato dai fascisti; aggredito in casa da squadristi è costretto ad uccidere uno degli assalitori. Assolto per legittima difesa viene, tuttavia, confinato a Lipari. Sull’isola conoscerà Carlo Rosselli. I due, assieme a Fausto Nitti, e grazie all'aiuto di Gioacchino Dolci e Paolo Fabbri, riescono ad evadere in motoscafo nel luglio del '29. Raggiunta Parigi si mettono in contatto con i fuorisciti guidati da Salvemini: nasce il movimento Giustizia e Libertà.
Dopo l'assassinio di Carlo Rosselli nel '37, eredita la guida del Movimento iniziando il periodo della "diplomazia clandestina", con l'aiuto dalla moglie Joyce. Nell'agosto del '43 rientra in Italia e fa confluire il movimento nel neonato Partito d’Azione e, assieme a Ugo La Malfa, regge il partito sino alla conclusione della guerra.
Lussu è deputato alla Costituente e senatore di diritto, oltre ad assumere l’incarico  di ministro nei governi Parri e De Gasperi. Il Partito d’Azione, però, si divide fra la corrente dei filosocialisti (riuniti intorno a Lussu) e la corrente filocentristi (guidati da La Malfa), Lussu abbandona per formare un gruppo che poi aderirà al PSI. Il 1964 segna la rottura con il PSI: la decisione di Nenni di entrare nel governo di centrosinistra a guida democristiana provoca la scissione che porta alla fondazione del PSIUP, una formazione che avrà vita breve, infatti, dopo la sconfitta elettorale aderirà al PCI, ma Lussu, coerentemente con la sua storia, rifiuta di confluire.
Muore a Roma nel 1975.

Fra le sue pubblicazioni: La catena, Baldini&Castoldi; Marcia su Roma e dintorni, Einaudi; Un anno sull'altipiano, Einaudi; La teoria dell'insurrezione, Jaka Book; Per l'Italia dall'esilio, Edizioni della Torre; Sul Partito d'azione e gli altri, Mursia; Il cinghiale del diavolo, Einaudi.



«Tra i libri sulla Prima guerra mondiale 
Un anno sull'Altipiano di Emilio Lussu è,
 per me, il piú bello».
Mario Rigoni Stern


"Un anno sull'Altipiano"  è stato scritto da Lussu (dietro consiglio dello storico Gaetano Salvemini) mentre era in convalescenza, in Svizzera, in seguito ad una malattia.
E' il 1936, la Prima Guerra Mondiale è lontana di quasi venti anni ma il mondo non ha imparato la lezione, visto che è sull'orlo della seconda, altrettanto tragica e dolorosa.

 Descrizione

L'Altipiano è quello di Asiago, l'anno dal giugno 1916 al luglio 1917. Un anno di continui assalti a trincee inespugnabili, di battaglie assurde volute da comandanti imbevuti di retorica patriottica e di vanità, di episodi spesso tragici e talvolta grotteschi, attraverso i quali la guerra viene rivelata nella sua dura realtà di "ozio e sangue", di "fango e cognac". Con uno stile asciutto e a tratti ironico Lussu mette in scena una spietata requisitoria contro l'orrore della guerra senza toni polemici, descrivendo con forza e autenticità i sentimenti dei soldati, i loro drammi, gli errori e le disumanità che avrebbero portato alla disfatta di Caporetto.


In Un anno sull’altipiano è ben descritta l‘atroce quotidianità della guerra di trincea, tra il 1916 e il 1917. L’autore non chiede giudizi sulla guerra, ma rende una testimonianza attraverso cui comprendere l’entità dei dolorosi eventi di questa sciagura, vissuta in prima persona. Lussu, infatti, ha combattuto la prima guerra mondiale sull’altipiano di Asiago. Nel romanzo è molto ben descritto lo stato psicologico dei soldati, la paura che li perseguita, la loro angoscia nelle ore prima di un assalto. Un diario scritto con un linguaggio scorrevole, che racconta, nei più vividi dettagli, un anno di guerra. Con uno stile asciutto, intavola una richiesta di condanna morale contro le sevizie della guerra.



sabato 24 marzo 2018

Giosuè di Betania capitolo III



 Giosuè di Betania



cap. III


Ancor prima che il sole sorgesse, Giosuè svegliò Beniamino e, dopo una frugale colazione, salutò e ringraziò Giacomo ed Ester per riprendere il viaggio.
Camminarono spediti; Giosuè era impaziente di riabbracciare Giuda, che s’era rivelato assai più degno nel meritarsi la benedizione di Zaccaria. Desiderava, più di ogni cosa, precipitarsi al capezzale del padre, stringergli la mano chiedendo perdono per la lunga assenza.
Si rese conto di tenere un passo troppo veloce per il giovane Beniamino, che lo seguiva taciturno. Il sole era alto nel cielo e la brezza rendeva piacevole il viaggio. Si fermò, guardandolo con tenerezza negli occhi. Beniamino ne approfittò per togliersi la sabbia dai sandali. Giosuè l’abbracciò e gli arruffò i capelli sorridendo. Era fiero dei propri figli.
«Sediamoci a riposare» disse, indicando l’ombra alla base di alcune palme. Beniamino obbedì sedendosi a terra e appoggiando la schiena a una di esse.
«Non manca molto». Indicò un massiccio roccioso. «Oltre quelle colline, c’è il villaggio di mio padre. Non puoi ricordarti di lui, eri ancora in fasce quando io e tua madre ti ci abbiamo portato. Tuo nonno sarà felice di vedere come ti sei fatto grande».
Gli descrisse con dovizia i posti legati alla propria infanzia, raccontando aneddoti che stuzzicarono l’ilarità del giovane, mentre un gruppo di pastori attraversava l’orizzonte guidando i propri armenti.
I due rimasero a godersi l’ombra, mentre il sole arroventava le pietre. Si rimisero in cammino dopo aver mangiato delle focacce preparate da Ester. Ripresero con passo meno spedito, osservando i lineamenti dolci dei monti e il verde di alcuni gruppi di alberi che, come barba incolta, punteggiavano qua e là un paesaggio altrimenti brullo.
Giunsero al villaggio nel tardo pomeriggio. Giosuè riconobbe subito quella che fu la sua casa, il pozzo poco distante e, sullo sfondo, l’oasi che abbracciava il piccolo borgo. Il cinguettare di alcuni uccelli celebravano il senso di pace, mentre il profumo di salsedine aleggiava nell’aria.
Un’ondata di ricordi ed emozioni lo travolse, facendolo barcollare; trattenne a stento lacrime di gioia.
Trasalì nel vedere uscire dall’uscio la figura di un uomo robusto, alto, dal portamento fiero. Era Giuda: l’avrebbe riconosciuto ovunque. Non seppe resistere all’impulso di chiamarlo e, lasciando cadere la propria bisaccia, gli corse incontro.
Giuda, sorpreso e felice, allargò le braccia in segno di benvenuto. S’abbracciarono come mai era loro successo di fare.
«Che tu sia benvenuto fratello caro» disse il primogenito.
«Che il Signore ti sia sempre benevolo, essendo il più meritevole dei miei fratelli».
I due si strinsero nuovamente, sciogliendo in quel calore anni d’incomprensioni e parole taciute.
«Nostro padre ti attende» disse Giuda, indicando la casa. Giosuè sentì il cuore balzargli in gola; assentì e, con passi leggeri, si diresse verso la porta.
Appena varcata la soglia, fu travolto da un’ondata di emozioni, come se il tempo, fermandosi, ne avesse atteso il ritorno per ripartire dallo stesso istante. Titubante, calpestò le stuoie stese sul pavimento. Sulle pareti erano appesi i mantelli e le vesti dei fratelli, mentre dal focolare proveniva un profumo di zuppa di legumi. Folgorato, intravide in un angolo della grande stanza, inondato dai raggi di sole che penetravano attraverso la piccola finestra, il giaciglio su cui riposava suo padre; nonostante il tempo trascorso, questi lo riconobbe subito. Tracimante di felicità, lo invitò ad avvicinarsi.
Giosuè si slanciò ai suoi piedi; gli prese la mano e, accarezzandola, lo rassicurò: era tornato e avrebbero festeggiato assieme la festa più sacra.

Giosuè di Betania edito 2015

venerdì 23 marzo 2018

Giosuè di Betania capitolo II


 

Giosuè di Betania



cap. II


Lasciarono Sicar alle prime luci dell’alba.
Nonostante avesse dormito poco e male, Giosuè aggredì la via con passo spedito; Beniamino gli camminava al fianco, portando la propria bisaccia e una ghirba colma d’acqua. La carovana, composta per lo più da mercanti, aveva al seguito anche molti pellegrini, fra cui donne e bambini che rallentavano la marcia. Non potendo fare altrimenti, Giosuè si adeguò all’andatura, sprofondando in un silenzio in cui i pensieri rimbombavano nella testa come tuoni in una vallata.
Allontanandosi dal villaggio, si lasciò alle spalle la sagoma del monte Carmelo assorbita dalla foschia. La polvere alzata dagli animali da soma, si mescolava alla brezza che, dal mare, trasportava odore di salsedine ed erbe aromatiche.
Taciturno, Giosuè camminava sentendo sul petto tutto il peso dell’ansia, interrotta soltanto da scarne parole rivolte a Beniamino.
Con l’approssimarsi a quella ch’era stata la propria terra, sentì crescere un forte senso di disagio: pensieri simili a fantasmi ne tormentarono il sonno nei bivacchi notturni. Se ne stava disteso, pensieroso, fissando il cielo stellato. I ricordi riaffioravano nitidi: liti furibonde, accuse scagliate come pietre, riflessioni che contrastavano con il clima di festa dell’accampamento.
I giorni si susseguirono con una lentezza estenuante, e i passi divennero pesanti con l’avvicinarsi alla meta. Beniamino camminava silenzioso, rapito dal paesaggio del tutto nuovo per lui. Nei momenti di sosta sfuggiva allo sguardo del padre, andando a far gruppo con i coetanei. Finalmente vedeva tramutarsi in realtà le fantasticherie formatesi ascoltando i racconti sulla Giudea. Presto avrebbe visto Betània e visitato il Tempio di Gerusalemme; a conclusione del viaggio, sarebbero giunti alla città di Qumran, adagiata sulle sponde del Mar Morto. Una cittadella alla cui periferia sorgeva l’oasi di Zaccaria.
La carovana raggiunse finalmente Betània. Giosuè salutò i pochi con cui aveva stretto amicizia e, lasciata la comitiva ai margini della città, si addentrò fra le vie conosciute in gioventù.
Posta a poche miglia da Gerusalemme, Betània era un crocevia di carovane e mercanti: molte erano le lingue che rimbalzavano fra le case del villaggio, così come molti potevano essere gli affari, specie per un capace artigiano come lui. Giacomo gli aveva insegnato tutto ciò che sapeva sulla lavorazione dell’argilla; vedovo e con due figlie femmine, aveva desiderato che fosse proprio Giosuè a portare avanti la bottega. L’amore improvviso per Marta, però, portò lo scompiglio nella vita dei due, rimescolandone i progetti.
Percorrendo i vicoli animati della città, Giosuè rievocava, come fossero avvenuti pochi giorni prima, il susseguirsi del terremoto sentimentale che gli aveva sconvolto la vita.
Il giorno in cui aveva conosciuto Marta, ne fu subito irretito dal corpo esile e dai capelli neri come la notte senza luna, dal viso angelico e dallo sguardo caldo come può esserlo la sabbia del deserto.
Il desiderio di rivederla, di parlarle lo tormentava. Ogni istante lontano da quell’amore corrisposto era uno strazio cui non sapeva dar sollievo.
Una settimana era bastata a stravolgere una vita, creduta solida quanto le mura di una città. Sette giorni in cui entrambi si trovarono così in sintonia da non poter pensare a un possibile distacco.
Giosuè dovette affrontare sentimenti contrastanti, lacerato dalla lotta fra l’estasi nello starle accanto e il tormento nei confronti di Giacomo. Unica donna rimasta nella casa del proprio padre, infatti, Marta non poteva lasciare la Sammaria. Stava dunque a lui dover abbandonare Betània.
Rivedendo le botteghe, le fontane, le piazze, Giosuè non poteva credere fossero trascorsi anni da quei giorni. Il tempo pareva essersi fermato, conservando intatta la città; i ricordi aleggiavano nell’aria come il profumo di focaccia o lo zampillare di una fonte. Beniamino osservava stupito lo sguardo commosso del padre, gli occhi che frugavano fra la gente cercando volti noti.
«Ecco, quella laggiù è la casa di Giacomo» esclamò Giosuè a voce alta, non controllando l’emozione di rivedere l’amico amato.
«Dio benedica gli abitanti di questa casa» pronunciò dinanzi all’uscio.
Si affacciò Ester, la figlia maggiore di Giacomo. Lo squadrò e, riconoscendone le sembianze, sorrise.
«Dio benedica te, Giosuè, figlio di Zaccaria».
Lo invitò a entrare facendo gli onori di casa e subissandolo di domande, tanto che l’uomo ebbe un bel daffare a soddisfarne la curiosità.
«Sarete nostri ospiti» fu perentoria. «Mio padre non perdonerebbe l’affronto di un rifiuto».
«Accetto di buon grado, ma dov’è ora? Ho grande desiderio di parlare con lui».
«Si trova nella casa di Simone, che questa sera ha ospiti importanti alla sua mensa, così ha invitato molti uomini del villaggio per condividere la festa. Vai pure da lui è una persona cara: ti accoglierà con piacere».
Lasciatole in consegna Beniamino, stanco per il viaggio, Giosuè raggiunse l’abitazione che gli era stata indicata.
fermò un servitore. «Sto cercando Giacomo di Manasse».
Il padrone di casa, sentitolo, lo raggiunse e lo invitò a dividere la mensa. Il servitore gli porse un catino d’acqua per lavarsi le mani prima di unirsi ai commensali e gli indicò un angolo della casa. «L’uomo che cercate è seduto laggiù».
Giosuè si avvicinò al convivio. «Perdonate l’interruzione. La felicità e la brama di riabbracciare un caro amico è tale da non poter attendere oltre».
Giacomo balzò in piedi per abbracciarlo. «Giosuè, che il Signore ti benedica! I miei occhi non fidavano più di poterti rivedere. Ma ora fatti guardare» esclamò, squadrandolo con attenzione. «Dimmi, qual buon vento ti spinge in questi luoghi?»
«Sono in viaggio verso la casa di mio padre» rispose lui, accomodandosi. Gli raccontò delle condizioni del patriarca e, quindi, del desiderio di santificare assieme la festa.
«Porta a lui i miei più cari saluti e la mia benedizione» lo pregò Giacomo.
Il padrone di casa, intanto, discuteva con gli ospiti d’onore, richiamando l’attenzione di tutti i commensali.
«Chi sono quegli uomini?» chiese Giosuè.
«Galilei. Sono diretti a Gerusalemme. Vedi quello seduto vicino a Simone? I suoi seguaci lo chiamano rabbi, maestro; molti dicono sia un profeta».
Giosuè percepiva a tratti i loro discorsi; notava che Simone interrogava spesso costui, desideroso di conoscerne le opinioni sui precetti della Torah e sul futuro del popolo d’Israele. La lontananza e il vociare degli invitati impediva, però, a Giosuè di cogliere parte dei dialoghi; tuttavia, fu colpito dalla mitezza con la quale il rabbi si esprimeva: la sua voce giungeva leggera nell’aria, simile al sussurro di un vento caldo. Da ogni sillaba, ogni movimento traspariva una tranquillità contagiosa, una delicatezza disarmante.
Una donna entrò in casa dirigendosi verso l’ospite d’onore. Il mormorio dei commensali ne accompagnò i passi, mentre, stretto a sé, recava un prezioso vasetto d’alabastro.
Giosuè non le badò e approfittò dell’interruzione per riprendere a parlare con Giacomo. Dopo poco, però, la sua attenzione fu richiamata da un soave profumo che andò spandendosi nell’aria. Rivolgendo lo sguardo al gruppo di galilei, scorse la donna che, aperto il vasetto, ne versava il contenuto sul capo del rabbi.
Dalla fragranza capì doveva trattarsi di olio di Nardo genuino, un unguento assai prezioso; si domandò allora chi potesse essere costui, per ricevere un simile gesto. Fu colpito soprattutto dall’amorevolezza del suo sguardo nei confronti della donna.
Allontanandosi dall’amico, cercò d’avvicinarsi al gruppo di ospiti per poterne captare ogni gesto o parola e si rannicchiò in un angolo per non disturbare. Uno di loro rimproverò la donna per lo spreco che faceva di quell’unguento, affermando che avrebbero potuto venderlo e il ricavato offrirlo ai poveri.
Ma il rabbi la difese. «Lasciatela stare; perché le date fastidio? Ella ha compiuto verso di me un’opera buona; i poveri, infatti, li avete sempre con voi e potete beneficarli quando volete, me invece non mi avete sempre. Essa ha fatto ciò ch’era in suo potere, ungendo in anticipo il mio corpo per la sepoltura»[1].
I suoi occhi mutarono: pronunciate quelle parole, la malinconia prese il sopravvento, e il dolore e l’angoscia ne velarono lo sguardo.
I loro occhi s’incrociarono; Giosuè fu pervaso da una sensazione di calore e serenità: la stessa di un focolare domestico, della voce di una madre nel cantare una nenia. Sarebbe rimasto per ore ad ascoltarlo se non fosse stato per Giacomo che, data l’ora tarda, decise di rincasare.
Salutato e ringraziato il padrone di casa, lasciarono il banchetto. Attraversarono il villaggio affiancati, senza parlare. Il silenzio colmava le vie dove i muri delle case rilasciavano la calura accumulata durante la giornata.
«Quale pensiero turba la tua anima?» chiese Giacomo che, conoscendolo, ne leggeva i pensieri come fossero scritti su di una pergamena.
«Sono dispiaciuto per mio padre» rispose, non sapendo interpretare ancora bene i propri sentimenti. La scena della donna e le parole usate a difenderla risuonavano nella sua mente come un’eco fra le montagne: … me invece non mi avete sempre. Essa ha fatto ciò che era in suo potere, ungendo in anticipo il mio corpo per la sepoltura.
Parole che ne toccavano l’animo, mettendolo in subbuglio. Immagini che, come una finestra spalancata su di un cielo limpido, mostravano ciò che era celato dalle tenebre dell’egoismo. Esempio lampante che ben calzava raffrontato a Giuda. I gesti che Tommaso aveva riferito potevano apparire uno sperpero di denaro, ma, visti con altri occhi, non erano che omaggi nei confronti di un uomo che, dopo una vita di sacrifici, si trovava ad affrontare la via del tramonto.
Camminando fra i vicoli, Giosuè rifletteva a mente lucida; l’ansia opprimente di parlare al fratello fu soppiantata da un profondo rimorso nei confronti del padre. Da quando aveva appreso delle sue condizioni, non un solo pensiero di compassione, malinconia o rimpianto era stato rivolto nei suoi confronti.
Cosa n’era stato degli insegnamenti ricevuti da fanciullo? Da quanto tempo il suo cuore si era inaridito? Aveva anteposto le ricchezze all’affetto. Inoltre, aveva mal giudicato Giuda, accusandolo di sperperare il denaro destinato anche agli altri fratelli, invece di accusare loro di cupidigia. Anche se gli doleva ammetterlo, non si era preoccupato del benessere di Tommaso, Maria, Ismaele o Rachele; il primo impulso era stato il terrore che un giorno, caduti in disgrazia, avrebbero potuto chiedere aiuto proprio a lui.
«Amico mio» chiese Giacomo, «cosa turba tanto la tua anima?»
Giosuè ristette; i sensi di colpa erano una stretta al cuore. «L’avidità», con occhi lucidi fissò lo sguardo preoccupato di Giacomo, «l’avidità ha preso il sopravvento sui miei sentimenti, oscurando realmente ciò che, invece, v’è di più caro».
Si confidò con l’amico, raccontandogli tutta la vicenda.


Giosuè di Betania edito 2015


[1] Marco 14,6-8

giovedì 22 marzo 2018

Giosuè di Betania capitolo I


 Il pregiudizio è un’immagine preliminare che abbiamo riguardo a qualcosa o qualcuno. Una visione negativa che ci influenza nel considerare quella cosa o persona in un determinato modo. Difficile liberarsi dai pregiudizi in quanto li abbiamo interiorizzati. Essi ci impediscono di aprire in modo completo la nostra mente, di godere davvero di libertà di pensiero. Oltretutto, tendiamo a valutare gli altri sulla base di un giudizio che in qualche modo non applichiamo alle nostre prestazioni. Tendiamo a preoccuparci di quello che fanno tutti gli altri e a giudicarli senza considerare quello che stiamo facendo noi stessi.
A riguardo vorrei dedicarvi il primo, di tre capitoli, di questo mio racconto.

 
 

Giosuè di Betania


cap. I


Chino dinanzi alla fornace, Giosuè vi gettava nuova legna, così da innalzare la temperatura e cuocere le crete modellate durante la giornata.
«Hai lavorato a sufficienza per oggi» disse rivolgendosi al figlio.
«Sì, ho quasi terminato» rispose Matteo che, intento a rifinire una brocca, diede le ultime spinte al tornio cigolante.
Premendosi le mani sui lombi doloranti, Giosuè si avvicinò al manufatto. «Hai carpito nuove idee dai mercanti fenici?»
Il sole, di poco alto sopra l’orizzonte, filtrava attraverso la stuoia di giunchi intrecciati, disegnando una graticola sul terreno. Ricavata nel patio della casa, la loro era una bottega modesta, come umile era l’abitazione che, assieme ad altre, formava il villaggio di Sicar, situato sulle colline della Sammaria; una terra montuosa che divideva la Galilea dalla Giudea.
«È rimasto un angolino per la cena, o i miei uomini hanno stipato l’intero forno?» domandò Marta che, provenendo dalla cucina, reggeva una pentola di coccio.
«Con quale pietanza ci vizia la mia dolce moglie?» la canzonò Giosuè, sbirciando nel contenitore.
«Pecora. Offerta dalla famiglia di Tobia» rispose lei, allontanandogli le mani e infilando la terrina nella fornace. «A pagamento del vasellame che avete fatto per il corredo della figlia» concluse, richiudendo la bocca del forno.
«Hanno pagato con una pecora?»
Giosuè era crucciato: aspettava quel compenso da settimane, confidando nell’onestà del vicino. Le tasse imposte da Roma erano esose e gli esattori pretendevano moneta sonante.
Marta sospirò. «Sii comprensivo, l’annata è stata difficile per tutti: le greggi hanno risentito del pascolo scarso. Tobia è un brav’uomo, si è indebitato per il corredo di Anna. Ti assicuro che rinunciare a questa pecora è stato per loro un vero salasso».
Il rumore di passi sul selciato interruppe il discorso. L’ombra allungata di un uomo si proiettò sulla stuoia, preannunciando una visita. Giosuè guardò la moglie e il figlio, domandando tacitamente se aspettassero ospiti. I due mostrarono, però, la stessa espressione sorpresa.
Lavatosi le mani nel catino dell’acqua, il capofamiglia uscì ad accogliere il viandante. Sicar, trovandosi lungo la via principale, era attraversata da numerose carovane: pellegrini diretti a Gerusalemme o semplici mercanti che facevano la spola fra la Galilea e la Giudea.
Pensando a un commerciante, Giosuè auspicò una buona trattativa. Transitando vicino la cucina, percepì la fragranza della focaccia che Sara, la figlioletta di sette anni, stava impastando per cena. Interpretò il fatto come un buon segno e meditò d’invitare l’eventuale cliente a cenare con loro.
Uscito fuori, salutò delle donne di ritorno dal pozzo. Si portò la mano alla fronte per ripararsi gli occhi dal sole che, alle spalle del viandante, impediva di distinguerne la fisionomia.
Preceduta dalla propria ombra, una sagoma scura si fece avanti.
«Pace a te, Giosuè, figlio di Zaccaria».
Si stupì: nessuno lo chiamava in quel modo da anni; per tutti, nei paraggi, era Giosuè di Betània, la città da cui proveniva. Quando l’uomo fu abbastanza vicino, riconoscendone il viso, gli si gettò addosso con un balzo e lo strinse in un abbraccio.
«Tu sia benedetto, Tommaso, fratello mio. La tua visita è tanto inaspettata quanto carica di gioia per il mio cuore».
Gli pose le mani sulle spalle, squadrandolo dalla testa ai piedi.
«Come ti sei fatto grande. Sei un uomo, ormai».
«Il tempo passa, vecchio mio; e se quella sulla tua barba non è argilla, significa che l’età sta tingendo di bianco ciò che ricordavo nero come il carbone» ribatté benevolo Tommaso.
«Ma non restiamo qui fuori; vieni dentro, Marta e Matteo saranno felici di rivederti. Inoltre, voglio presentarti a Beniamino e Sara. Ricordi Beniamino? Era ancora in fasce l’ultima volta che ci siamo visti; vedrai che ragazzotto s’è fatto. Dovrebbe essere di ritorno: aiuta Zebedeo, un amico, a pascolare le capre. Sara, invece, è una signorina, lo specchio della piccola Rachele».
«Piccola Rachele? È davvero molto che non ci vediamo, quindi; nostra sorella ha due bambini!»
Rachele era l’ultima dei figli di Zaccaria; Giuda era il primogenito, seguito da Giosuè, Maria, Ismaele e Tommaso. Giosuè aveva lasciato la casa paterna che era ancora un ragazzo; trasferitosi a Betània, aveva lavorato nella bottega di Giacomo che, al pari di un secondo padre, gli aveva insegnato a plasmare e decorare le terrecotte.
«Hai ragione, è trascorso molto tempo dalla mia ultima visita».
«Già, troppo tempo» sospirò Tommaso.
«Cosa ti ha portato ad affrontare questo viaggio da solo?» chiese Giosuè che, ripresosi dall’emozione, scrutò la via, senza scorgervi, però, nessuno che potesse essersi attardato nel cammino. «Dimmi che non sei messaggero di cattive notizie».
«Purtroppo, le nuove che ti porto non sono liete: il mio cuore è colmo di tristezza e, temo, presto anche il tuo dovrà sopportare il peso di tale afflizione».
«Parla, non tenermi ancora sulle spine!»
«Nostro padre, come tu sai, è giunto a un’età considerevole: il respiro si fa sempre più faticoso e le forze lo stanno abbandonando. Ormai, raramente lascia il suo giaciglio per uscire da casa, ogni movimento gli costa fatica». Posandogli una mano sulla spalla, ne fissò gli occhi. «Temo che l’ora funesta si avvicini rapidamente».
Giosuè abbassò lo sguardo velato di lacrime.
«Anche lui ne è cosciente» proseguì Tommaso. «Ed è per questo che mi ha inviato da te; è suo desiderio, infatti, festeggiare l’imminente Pèsach[1] in tua compagnia, così da concederti la propria benedizione».
Giosuè percepì appieno l’amarezza della notizia; amava molto suo padre, uomo giusto e saggio che, nei momenti di carestia, più volte aveva rinunciato alla propria porzione di cibo per donarla a loro. Amorevole e severo al tempo stesso, li aveva cresciuti timorati di Dio e rispettosi dei precetti della Torah.
Parlando, i due raggiunsero la soglia di casa.
«Accomodati, sarai stanco per il lungo viaggio».
Marta venne loro incontro facendo gli onori di casa. Sedutosi, Tommaso riprese a parlare con tono greve.
«V’è dell’altro cui devo metterti a conoscenza» proferì imbarazzato. «Parlo anche a nome dei nostri fratelli» aggiunse subito, quasi volesse sgravarsi del peso di ciò che stava per dire. «Si tratta di Giuda».
Giosuè sussultò: il rapporto con Giuda, infatti, era da sempre burrascoso; quando ancora vivevano nella casa paterna, numerosi furono gli attriti fra loro. Di carattere contrapposto, si trovarono a scontrarsi, anche duramente, a causa delle divergenze d’opinioni sulla gestione del gregge, patrimonio del padre.
«Negli ultimi tempi» continuò Tommaso, «Giuda si comporta in modo strano, sconsiderato. Trascura le greggi e le messi, che affida con leggerezza ai servi, mentre lui sta di continuo al capezzale di nostro padre».
«Non trovo in ciò una colpa, anzi, è segno d’affetto e responsabilità» intervenne Giosuè.
«Certo, ma c’è Maria e anche Rachele che possono occuparsi dei suoi bisogni. Ciò che affligge me e gli altri fratelli è che Giuda ha iniziato a sperperare il patrimonio di nostro padre; ha speso una fortuna per acquistargli una sontuosa veste, pur sapendo non la indosserà mai al di fuori di casa. Qualche giorno fa, ha venduto un magnifico montone per comprargli un nuovo giaciglio, ma quello che aveva era ancora in buono stato».
Giosuè inarcò le sopracciglia.
«E non è tutto» proseguì Tommaso. «Spesso organizza lauti banchetti invitando molta gente, con il pretesto di portare allegria a nostro padre. Altre cose sono successe, ma non starò ora a crucciarti. Temiamo, però, che in breve tempo possa dilapidare l’intero patrimonio. Solamente tu puoi parlargli, hai sempre saputo tener testa al suo temperamento. A te darà retta, devi farlo ragionare».
Giosuè si fece serio; un turbine di emozioni lo investì, scagliandolo in un lontano passato. Liti e gelosie mai risolte riaffiorarono, portando malinconia e inquietudine.
«Tommaso, quello che mi racconti è molto grave. Ti assicuro che mai; avrei pensato che nostro fratello potesse comportarsi così. Sai bene, tuttavia, che non ho più alcun diritto sul patrimonio di Zaccaria; infatti, prima di trasferirmi a Betània, chiesi la parte dell’eredità che mi spettava. Nostro padre accettò senza indugi vendendo una parte del gregge e, assieme al ricavato, mi diede la sua benedizione. Temo che ora Giuda possa interpretare il mio intervento come un tentativo di ricavarne ciò che non mi spetta».
«Tutti conosciamo la tua posizione, ma sappiamo che se nessuno tenta di riportare Giuda al giudizio, la nostra famiglia è destinata a cadere in miseria».
Giosuè si agitò, angosciato dal pensiero d’affrontare una discussione con Giuda che, certamente, si sarebbe tramutata in lite.
Marta, interpretandone il pensiero, gli accarezzò il viso. «Vai da tuo padre, ti aspetta. Giuda è un uomo forte e determinato, ma sono certa che saprà ascoltarti».
Giosuè le afferrò la mano, stringendola alla guancia.
«Partirò al più presto» decise.
Durante la cena, Matteo cercò di alleggerire l’atmosfera raccontando aneddoti su Beniamino che, tornato dal pascolo, fece la conoscenza dello zio. Giosuè sorrideva, cercando di scacciare i pensieri che lo tormentavano. L’immagine del fratello maggiore, però, faceva breccia nella sua testa, battendo come il martello di un fabbro su di un’incudine.
Quando i figli furono a letto, organizzò la partenza.
«Domani parte una carovana diretta a Gerusalemme, mi unirò a loro sino a Betània. Lì farò visita a Giacomo, sarà felice d’ospitarmi. Dopodiché prenderò la via che, attraverso le montagne, porta al villaggio di mio padre».
«Ti preparo la bisaccia» disse Marta mettendosi all’opera.
«Porterò con me Beniamino: conoscerà suo nonno». Si rivolse al fratello. «Tommaso, ti chiedo di fermarti presso la mia casa: Matteo ha sedici anni, ormai è un uomo, ma ti sarei grato se potessi dargli una mano in mia assenza».
«Conta pure su di me! La tua famiglia è la mia famiglia».


Giosuè di Betania edito 2015


[1] Pasqua ebraica

mercoledì 21 marzo 2018

È ancora possibile la poesia


Il 21 marzo si celebra la Giornata mondiale della poesia, istituita dall’Unesco nel 1999 e celebrata per la prima volta il 21 marzo 2000. L’obiettivo della giornata è quello di valorizzare il ruolo dell’espressione poetica nella promozione del dialogo interculturale, della comunicazione e della pace. La poesia, che un tempo era un mezzo d’espressione complesso e sfaccettato, è oggi una delle forme di arte più sottovalutate. La poesia non si limita a dar voce ai sentimenti, è in grado di dare forma alle grandi questioni su cui l’uomo si interroga fin dai primordi.
Qual è il senso della poesia oggi? In questa società dominata dalla comunicazione di massa in cui i messaggi sono stilizzati, dal contenuto smagrito da un linguaggio sempre più impoverito?
Il nostro tempo, caratterizzato dalla frenesia, si proietta verso il culto dell’immagine e usufruisce di una informazione monopolizzata dai media standardizzati; resta da chiedersi se siamo ancora in grado di ‘isolarci’ dedicandoci alla riflessione, all’analisi esistenziale, la ponderatezza del dubbio a quella che, in definitiva, è la Poesia.
Sembra che oggi, la poesia, abbia perso la prerogativa di accompagnare l’uomo nel proprio cammino attraverso gli affanni d’amore, il susseguirsi delle stagioni, le perdite o l’elogio dei ricordi. Se in epoche precedenti il poeta era una figura rispettata, quasi divinizzata, ai giorni d’oggi sembra non trovare più spazio nella società. Vassalli osserva come la poesia al giorno d’oggi sia diventata un genere letterario che desta l’interesse di una ristretta cerchia di cultori.
A tale proposito vorrei riproporre il discorso tenuto da Eugenio Montale nel ritirare il premio Nobel.




Eugenio Montale - Nobel Lecture
Nobel Lecture, December 12, 1975

È ancora possibile la poesia
II premio Nobel è giunto al suo settantacinquesimo turno, se non sono male informato. E se molti sono gli scienziati e gli scrittori che hanno meritato questo prestigioso riconoscimento, assai minore è il numero dei superstiti che vivono e lavorano ancora. Alcuni di essi sono presenti qui e ad essi va il mio saluto e il mio augurio. Secondo opinioni assai diffuse, opera di aruspici non sempre attendibili, in questo anno o negli anni che possono dirsi imminenti il mondo intero (o almeno quella parte del mondo che può dirsi civilizzata) conoscerebbe una svolta storica di proporzioni colossali. Non si tratta ovviamente di una svolta escatologica, della fine dell'uomo stesso, ma dell'avvento di una nuova armonia sociale di cui esistono presentimenti solo nei vasti domini dell'Utopia. Alla scadenza dell'evento il premio Nobel sarà centenario e solo allora potrà farsi un completo bilancio di quanto la Fondazione Nobel e il connesso Premio abbiano contribuito al formarsi di un nuovo sistema di vita comunitaria, sia esso quello de Benessere o del Malessere universale, ma di tale portata da mettere fine, almeno per molti secoli, alla multisecolare diatriba sul significato della vita. Intendo riferirmi alla vita dell'uomo e non alla apparizione degli aminoacidi che risale a qualche miliardo d'anni, sostanze che hanno reso possibili l'apparizione dell'uomo e forse già ne contenevano il progetto. E in questo caso come è lungo il passo del deus absconditus! Ma non intendo divagare e mi chiedo se è giustificata la convinzione che lo statuto del premio Nobel sottende; e cioè che le scienze, non tutte sullo stesso piano, e le opere letterarie abbiano contribuito a diffondere o a difendere nuovi valori in senso ampio «umanistici ». La risposta è certamente positiva. Sarebbe lungo l'elenco dei nomi di coloro che avendo dato qualcosa all'umanità hanno ottenuto l'ambito riconoscimento del premio Nobel. Ma infinitamente più lungo e praticamente impossibile a identificarsi la legione, l'esercito di coloro che lavorano per l'umanità in infiniti modi anche senza rendersene conto e che non aspirano mai ad alcun possibile premio perché non hanno scritto opere, atti e comunicazioni accademiche e mai hanno pensato di «far gemere i torchi» come dice un diffuso luogo comune. Esiste certamente un esercito di anime pure, immacolate, e questo è l'ostacolo (certo insufficiente) al diffondersi di quello spirito utilitario che in varie gamme si spinge fino alla corruzione, al delitto e ad ogni forma di violenza e di intolleranza. Gli accademici di Stoccolma hanno detto più volte no all'intolleranza, al fanatismo crudele, e a quello spirito persecutorio che anima spesso i forti contro i deboli, gli oppressori contro gli oppressi. Ciò riguarda particolarmente la scelta delle opere letterarie, opere che talvolta possono essere micidiali, ma non mai come quella bomba atomica che è il frutto più maturo dell'eterno albero del male.
Non insisto su questo tasto perché non sono né filosofo, né sociologo, né moralista.

Ho scritto poesie e per queste sono stato premiato, ma sono stato anche bibliotecario, traduttore, critico letterario e musicale e persine disoccupato per riconosciuta insufficienza di fedeltà a un regime che non poteva amare. Pochi giorni fa è venuta a trovarmi una giornalista straniera e mi ha chiesto: come ha distribuito tante attività così diverse? Tante ore alla poesia, tante alle traduzioni, tante all'attività impiegatizia e tante alla vita? Ho cercato di spiegarle che non si può pianificare una vita come si fa con un progetto industriale. Nel mondo c'è un largo spazio per l'inutile, e anzi uno dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell'inutile alla quale sono sensibili particolarmente i giovanissimi.
In ogni modo io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà. Ma non è il solo, essendo la poesia una produzione o una malattia assolutamente endemica e incurabile.
Sono qui perché ho scritto poesie: sei volumi, oltre innumerevoli traduzioni e saggi critici. Hanno detto che è una produzione scarsa, forse supponendo che il poeta sia un produttore di mercanzie; le macchine debbono essere impiegate al massimo. Per fortuna la poesia non è una mercé. Essa è una entità di cui si sa assai poco, tanto che due filosofi tanto diversi come Croce storicista idealista e Gilson cattolico, sono d'accordo nel ritenere impossibile una storia della poesia. Per mio conto, se considero la poesia come un oggetto ritengo ch'essa sia nata dalla necessità di aggiungere un suono vocale (parola) ali martellamento delle prime musiche tribali. Solo molto più tardi parola e musica poterono scriversi in qualche modo e differenziarsi. Appare la poesia scritta, ma la comune parentela con la musica si fa sentire. La poesia tende a schiudersi in forme architettoniche sorgono i metri, le strofe, le così dette forme chiuse. Ancora nelle prime saghe nibelungiche e poi in quelle romanze, la vera materia della poesia è il suono. Ma non tarderà a sorgere con i poeti provenzali una poesia che si rivolge anche all'occhio. Lentamente la poesia si fa visiva perché dipinge immagini, ma è anche musicale: riunisce due arti in una. Naturalmente gli schemi formali erano larga parte della visibilità poetica. Dopo l'invenzione della stampa la poesia si fa verticale, non riempie del tutto lo spazio bianco, è ricca di « a capo » e di riprese. Anche certi vuoti hanno un valore. Ben diversa è la prosa che occupa tutto lo spazio e non dà indicazioni sulla sua pronunziabilità. È a questo punto gli schemi metrici possono essere strumento ideale per l'arte del narrare, cioè per il romanzo. È il caso di quello strumento narrativo che è l'ottava, forma che è già un fossile nel primo Ottocento malgrado la riuscita del Don Giovanni di Byron (poema rimasto interrotto a mezza strada). Ma verso la fine dell'Ottocento le forme chiuse della poesia non soddisfano più né l'occhio né l'orecchio. Analoga osservazione può farsi per il Blank verse inglese e per l'endecasillabo sciolto italiano. E nel frattempo fa grandi passi la disgregazione del naturalismo ed è immediato il contraccolpo nell'arte pittorica. Così con un lungo processo, che sarebbe troppo lungo descrivere, si giunge alla conclusione che non si può riprodurre il vero, gli oggetti reali, creando così inutili doppioni; ma si espongono in vitro, o anche al naturale, gli oggetti o le figure di cui Caravaggio o Rembrandt avrebbero presentato un facsimile, un capolavoro. Alla grande mostra di Venezia anni fa era esposto il ritratto di un mongoloide: era un argomento très dègoûtant, ma perché no? L'arte può giustificare tutto. Sennonché avvicinandosi ci si accorgeva che non di un ritratto si trattava, ma dell'infelice in carne ed ossa. L'esperimento fu poi interrotto manu militari, ma in sede strettamente teorica era pienamente giustificato. Già da anni critici che occupano cattedre universitarie predicavano la necessità assoluta della morte dell'arte, in attesa non si sa di quale palingenesi o resurrezione di cui non s'intravvedono i segni.
Quali conclusioni possono trarsi da fatti simili? Evidentemente le arti, tutte le arti visuali, stanno democraticizzandosi nel senso peggiore della parola. L'arte è produzione di oggetti di consumo, da usarsi e da buttarsi via in attesa di un nuovo mondo nel quale l'uomo sia riuscito a liberarsi di tutto, anche della propria coscienza. L'esempio che ho portato potrebbe estendersi alla musica esclusivamente rumoristica e indifferenziata che si ascolta nei luoghi dove milioni di giovani si radunano per esorcizzare l'orrore della loro solitudine. Ma perché oggi più che mai l'uomo civilizzato è giunto ad avere orrore di sé stesso?
Ovviamente prevedo le obiezioni. Non bisogna confondere le malattie sociali, che forse sono sempre esistite ma erano poco note perché gli antichi mezzi di comunicazione non permettevano di conoscere e diagnosticare la malattia. Ma fa impressione il fatto che una sorta di generale millenarismo si accompagni a un sempre più diffuso comfort, il fatto che il benessere (là dove esiste, cioè in limitati spazi della terra) abbia i lividi connotati della disperazione. Sotto lo sfondo così cupo dell'attuale civiltà del benessere anche le arti tendono a confondersi, a smarrire la loro identità. Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione, hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione. Il tempo si fa più veloce, opere di pochi anni fa sembrano « datate » e il bisogno che l'artista ha di farsi ascoltare prima o poi diventa bisogno spasmodico dell'attuale, dell'immediato. Di qui l'arte nuova del nostro tempo che è lo spettacolo, un'esibizione non necessariamente teatrale a cui concorrono i rudimenti di ogni arte e che opera sorta di massaggio psichico sullo spettatore o ascoltatore o lettore che sia. Il deus ex machina di questo nuovo coacervo è il regista. Il suo scopo non è solo quello di coordinare gli allestimenti scenici, ma di fornire intenzioni a opere che non ne hanno o ne hanno avute altre. C'è una grande sterilità in tutto questo, un'immensa sfiducia nella vita. In tale paesaggio di esibizionismo isterico quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia? La poesia così detta lirica è opera, frutto di solitudine e di accumulazione. Lo è ancora oggi ma in casi piuttosto limitati. Abbiamo però casi più numerosi in cui il sedicente poeta si inette al passo coi nuovi tempi. La poesia si fa allora acustica e visiva. Le parole schizzano in tutte le direzioni come l'esplosione di una granata, non esiste un vero significato, ma un terremoto verbale con molti epicentri. La decifrazione non è necessaria, in molti casi può soccorrere l'aiuto dello psicanalista. Prevalendo l'aspetto visivo la poesia è anche traducibile e questo è un fatto nuovo nella storia dell'estetica. Ciò non vuoi dire che i nuovi poeti siano schizoidi. Alcuni possono scrivere prose classicamente tradizionali e pseudo versi privi di ogni senso. C'è anche una poesia scritta per essere urlata in una piazza davanti a una folla entusiasta. Ciò avviene soprattutto nei paesi dove vigono regimi autoritari. E simili atleti del vocalismo poetico non sempre sono sprovveduti di talento. Citerò un caso e mi scuso se è anche un caso che ini riguarda personalmente. Ma il fatto, se è vero, dimostra che ormai esistono in coabitazione due poesie, una delle quali è di consumo immediato e muore appena è espressa, mentre l'altra può dormire i suoi sonni tranquilla. Un giorno si risveglierà, se avrà la forza di farlo.
La vera poesia è simile a certi quadri di cui si ignora il proprietario e che solo qualche iniziato conosce. Comunque la poesia non vive solo nei libri o nelle antologie scolastiche. Il poeta ignora e spesso ignorerà sempre il suo vero destinatario. Faccio un piccolo esempio personale. Negli archivi dei giornali italiani si trovano necrologi di uomini tuttora viventi e operanti. Si chiamano coccodrilli. Pochi anni fa al Corriere della Sera io scopersi il mio coccodrillo firmato da Taulero Zulberti, critico, traduttore e poliglotta. Egli affermava che il grande poeta Majakovskij avendo letto una o più mie poesie tradotte in lingua russa avrebbe detto: « Ecco un poeta che mi piace. Vorrei poterlo leggere in italiano ». L'episodio non è inverosimile. I miei primi versi cominciarono a circolare nel 1925 e Majakovskij (che viaggiò anche in America e altrove) morì suicida nel 1930.
Majakovskij era un poeta al pantografo, al megafono. Se ha pronunziate tali parole posso dire che quelle mie poesie avevano trovato, per vie distorte e imprevedibili, il loro destinano.
Non si credo però che io abbia un'idea solipsistica della poesia. L'idea di scrivere per i così detti happy few non è mai stata la mia. In realtà l'arte è sempre per tutti e per nessuno. Ma quel che resta imprevedibile è il suo vero begetter, il suo destinano. L'arte-spettacolo, l'arte di massa, l'arte che vuole produrre una sorta di massaggio fisico-psichico su un ipotetico fruitore ha dinanzi a sé infinite strade perché la popolazione del mondo è in continuo aumento. Ma il suo limite è il vuoto assoluto. Si può incorniciare ed esporre un paio di pantofole (io stesso ho visto così ridotte le mie), ma non si può esporre sotto vetro un paesaggio, un lago o qualsiasi grande spettacolo naturale.
La poesia lirica ha certamente rotto le sue barriere. C'è poesia anche nella prosa, in tutta la grande prosa non meramente utilitaria o didascalica: esistono poeti che scrivono in prosa o almeno in più o meno apparente prosa; milioni di poeti scrivono versi che non hanno nessun rapporto con la poesia. Ma questo significa poco o nulla. Il mondo è in crescita, quale sarà il suo avvenire non può dirlo nessuno. Ma non è credibile che la cultura di massa per il suo carattere effimero e fatiscente non produca, per necessario contraccolpo, una cultura che sia anche argine e riflessione. Possiamo tutti collaborare a questo futuro. Ma la vita dell'uomo è breve e la vita del mondo può essere quasi infinitamente lunga.

Avevo pensato di dare al mio breve discorso questo titolo: potrà sopravvivere la poesia nell'universo delle comunicazioni di massa? È ciò che molti si chiedono, ma a ben riflettere la risposta non può essere che affermativa. Se s'intende per la così detta belletristica è chiaro che la produzione mondiale andrà crescendo a dismisura. Se invece ci limitiamo a quella che rifiuta con orrore il termine di produzione, quella che sorge quasi per miracolo e sembra imbalsamare tutta un'epoca e tutta una situazione linguistica e culturale, allora bisogna dire che non c'è morte possibile per la poesia.
E' stato osservato più volte che il contraccolpo del linguaggio poetico su quello prosastico può essere considerato un colpo di sferza decisivo. Stranamente la Commedia di Dante non ha prodotto una prosa di quell'altezza creativa o lo ha fatto dopo secoli. Ma se studiate la prosa francese prima e dopo la scuola di Ronsard, la Plèiade, vi accorgerete che la prosa francese ha perduto quella mollezza per la quale era giudicata tanto inferiore alle lingue classiche ed ha compiuto un vero salto di maturità. L'effetto è stato curioso. La Plèiade non produce raccolte di poesie omogenee come quelle del Dolce stil nuovo italiano (che è certo una delle sue fonti), ma ci dà di tanto in tanto veri « pezzi di antiquariato » che andranno a far parte di un possibile museo immaginario della poesia. Si tratta di un gusto che si direbbe neogreco e che secoli dopo il Parnasse tenterà invano di eguagliare. Ciò prova che la grande lirica può morire, rinascere, rimorire, ma resterà sempre una delle vette dell'anima umana. Vogliamo rileggere insieme un canto di Joachim Du Bellay. Questo poeta, nato nel 1522 e morto a soli trentacinque anni, era nipote di un cardinale presso il quale visse a Roma qualche anno riportando profondo disgusto per la corruzione della corte pontifica. Du Bellay ha scritto molto, imitando più o meno felicemente i poeti della tradizione petrarchista. Ma la poesia (forse scritta a Roma), ispirata da versi latini del Navagero, che raccomanda la sua fama, è frutto di una dolorosa nostalgia per le campagne della dolce Loira da lui abbandonate. Da Sainte-Beuve fino a Walter Pater, che dedicò a Joachim un profilo memorabile, la breve Odelette des vanneurs de blé è entrata nel repertorio della poesia mondiale. Proviamo a rileggerla se questo è possibile, perché si tratta di una poesia in cui l'occhio ha la sua parte.
A vous troppe legere,
qui d'aele passagere
par le monde volez,
et d'un sifflant murmure l'ombrageuse verdure doulcement esbranlez,

j'offre ces violettes,
ces lis et ces fleurettes,
et ces roses icy,
ces vermeillettes roses,
tout freschement écloses,
et ces oeilletz aussi.

De vostre doulce halaine
eventez ceste plaine,
eventez ce sejour,
ce pendant que j'ahanne
a mon blé, que je vanne
a la chaleur du jour.
Non so se questa Odelette sia stata scritta a Roma come intermezzo nel disbrigo di noiose pratiche d'ufficio. Essa deve a Patter la sua attuale sopravvivenza. A distanza di secoli una poesia può trovare il suo interprete.
Ma ora per concludere debbo una risposta alla domanda che ha dato un titolo a questo breve discorso. Nella attuale civiltà consumistica che vede affacciarsi alla storia nuove nazioni e nuovi linguaggi, nella civiltà dell'uomo robot, quale può essere la sorte della poesia? Le risposte potrebbero essere molte. La poesia è l'arte tecnicamente alla portata di tutti: basta un foglio di carta e una matita e il gioco è fatto. Solo in un secondo momento sorgono i problemi della stampa e della diffusione. L'incendio della Biblioteca di Alessandria ha distrutto tre quarti della letteratura greca. Oggi nemmeno un incendio universale potrebbe far sparire la torrenziale produzione poetica dei nostri giorni. Ma si tratta appunto di produzione, cioè di manufatti soggetti alle leggi del gusto e della moda. Che l'orto delle Muse possa essere devastato da grandi tempeste è, più che probabile, certo. Ma mi pare altrettanto certo che molta carta stampata e molti libri di poesia debbano resistere al tempo.
Diversa è la questione se ci si riferisce alla reviviscenza spirituale di un vecchio testo poetico, il suo rifarsi attuale, il suo dischiudersi a nuove interpreta-zioni. E infine testa sempre dubbioso in quali limiti e confini ci si muove parlando di poesia. Molta poesia d'oggi si esprime in prosa. Molti versi d'oggi sono prosa e cattiva prosa. L'arte narrativa, il romanzo, da Murasaki a Proust ha prodotto grandi opere di poesia. El il teatro? Molte storie letterarie non se ne occupano nemmeno, sia pure estrapolando alcuni geni che formano un capitolo a parte. Inoltre: come si spiega il fatto che l'antica poesia cinese resiste a tutte le traduzioni mentre la poesia europea è incatenata al suo linguaggio originale? Forse il fenomeno si spiega col fatto che noi crediamo di leggere Po Chü-i e leggiamo invece il meraviglioso contraffattore Arthur Waley? Si potrebbero moltiplicare le domande con l'unico risultato che non solo la poesia, ma tutto il mondo dell'espressione artistica o sedicente tale è entrato in una crisi che è strettamente legata alla condizione umana, al nostro esistere di esseri umani, alla nostra certezza o illusione di crederci esseri privilegiati, i soli che si credono padroni della loro sorte e depositari di un destino che nessun'altra creatura vivente può vantare. Inutile dunque chiedersi quale sarà il destino delle arti. E' come chiedersi se l'uomo di domani, di un domani magari lontanissimo, potrà risolvere le tragiche contraddizioni in cui si dibatte fin dal primo giorno della Creazione (e se di un tale giorno, che può essere un'epoca sterminata, possa ancora parlarsi).
From Les Prix Nobel en 1975, Editor Wilhelm Odelberg, [Nobel Foundation], Stockholm, 1976



* Disclaimer
Every effort has been made by the publisher to credit organizations and individuals with regard to the supply of audio files.
Please notify the publishers regarding corrections.

Copyright © The Nobel Foundation 1975