di Pierangelo Colombo

venerdì 16 dicembre 2022

Recensione de: Un uso qualunque di te

 Una famiglia borghese apparentemente serena è quella formata da Viola, Carlo e dalla diciassettenne Luce: grandi occhi spalancati verso il futuro. Distratta madre e moglie, Viola coltiva mille dubbi sul suo presente e troppi rimpianti camuffati da consuetudini. Carlo, invece, è un marito presente e innamorato e la solidità del legame famigliare sembra dipendere soprattutto da lui. È quasi l'alba di una notte di fine primavera quando Viola riceve un messaggio da suo marito che le dice di correre in ospedale. Stava dormendo fuori casa e si deve rivestire in fretta, non c'è tempo per fare congetture, il cellulare ora è scarico e nel messaggio non si dice a quale ospedale debba andare né cosa sia successo. Una corsa disperata contro il tempo, i sensi di colpa e le inquietudini che da anni le vivono dentro. Fino al drammatico faccia a faccia con il chirurgo le cui parole porteranno a galla un segreto seppellito per anni e daranno una sterzata definitiva al corso della sua esistenza.



Il romanzo è un intreccio che oscilla fra il presente e un passato che ancora fa sentire la propria influenza.  Viola, la protagonista, è titolare di una galleria d’arte che conduce in società con Angela, amica fin dai tempi delle scuole elementari. Viola è una donna la cui vita score dietro una sequele di menzogne, ma che si racconta senza filtri, senza nascondere pregi e difetti, confessando egoismo, cattiveria gratuita e tradimenti.  Un personaggio che in un primo approccio può risultare quasi odioso, superficiale e inaffidabile, ma addentrandosi nella narrazione, scoprendo pagina dopo pagina il vissuto, ci si accorge che il suo carattere è il frutto della sofferenza patita per un uomo. Un’esperienza da cui ne esce cambiata tanto da arrivare a dire: "...quando una persona ti attraversa l'anima, una parte di te si sbriciola; peccato sia la parte su cui hai sempre contato".

Accanto a lei Carlo, un uomo che, se non l’amore della vita, è sicuramente il miglior padre che potesse desiderare per Luce, la figlia che le somiglia più di quanto credesse. Un uomo in apparenza ingenuo e dall’amore incondizionato, ma che, imparando a conoscerlo, mostrerà un aspetto inaspettato.

Una storia narrata con lo stile tipico della Rattaro, una penna scorrevole ed essenziale, capace di avvolgere il lettore con delle emozioni che non si potranno scordare.  Una intensità di sentimenti che traspaiono sia dalle descrizioni degli eventi che nella caratterizzazione dei personaggi, talmente vividi da sembrare così reali da indurre il lettore a scegliere fra l’amore e l’odio.

Un romanzo decisamente commovente e intenso.



 

venerdì 2 dicembre 2022

Le radici e le ali

Le radici e le ali




    «Scusa se ti ho chiamato, ma ero spaventata, non sapevo a chi…»
   «Non dirlo nemmeno per scherzo, i fratelli a cosa servono? Se non ci si aiuta fra noi… Piuttosto, come sta Andrea?»
   «Non lo so. Non dicono nulla. Dal pronto soccorso l’hanno portato in terapia intensiva; i medici vanno e vengono senza degnarmi di uno sguardo. D'altronde, sono solo la compagna» sbotta, accentuando il termine. «Non portando un anello al dito, non ho diritti. Lui è incosciente, non può dare il consenso». Marta parla con affanno, la voce incrinata dall’ansia.
   «Vedrai che andrà tutto bene» la rassicura Massimo, il tono, però, non ha il risultato sperato. È la prima volta che vede la sorella in questo stato. Ne è sconvolto, solitamente è lei a dare fiducia, vederla scoraggiata è disarmante.
   «Mi sento in colpa; se solo avessi capito prima…» esclama Marta, abbracciandolo. Trattiene a stento il magone. «Ieri, a cena, era strano, avrei dovuto capire; era inappetente e, soprattutto, confuso. Straparlava, chiedeva notizie di Carlotta, ma si erano sentiti due ore prima, al telefono» spiega, concitata. «Gliel’ho detto e mi ha guardata stranito, come fossi io a vaneggiare; qualche minuto di silenzio e poi ha ricominciato a chiedere di lei».
   «È possibile che, con tutti i farmaci che assume, abbia avuto un’intossicazione». Massimo tenta di tranquillizzarla, ma lei è assente, occupata a scavare nelle macerie del terremoto emotivo.
   «Ho pensato avesse la febbre» prosegue Marta. «Ma era fresco, diceva di non avvertire nulla fisicamente; persino i soliti dolori sembravano dargli tregua». Sospende il racconto vedendo entrare un infermiere. Trattiene il respiro auspicando notizie, ma il ragazzo passa oltre.
   «Sembrava alienato» riprende. «Mi guardava senza riconoscermi. Volevo portarlo al pronto soccorso, ma lui ha insistito di no. Diceva di star bene e che in ospedale ci doveva venire oggi, per la visita di controllo. Dopo cena sembrava essersi ripreso: era vigile e lucido».
   «Ma quando è stato male?» Taglia corto Massimo, consapevole che la prolissità della sorella sarebbe stata amplificata dalla tensione.
   «Questa mattina» risponde lei, scossa da un brivido. «Non riuscivo a svegliarlo, rispondeva a mugugni, aveva lo sguardo spento. Ho chiamato l’ambulanza e subito dopo te».
   «I paramedici hanno detto nulla?»
   «No. Gli hanno messo l’ossigeno, un’iniezione di non so cosa e poi ci hanno portati qui».
   «Devi essere forte». Marta sussulta a queste parole. Sono mesi che è consapevole dell’ineluttabilità di questo momento, ma ora, dinanzi a una prima scossa, si trova disarmata sentendosi un nano che deve affrontare un gigante impietoso.
   «Hai avvisato Carlotta?» chiede Massimo.
  «Sì, le ho detto del ricovero di suo padre, ma sono stata vaga per non farla spaventare. Mi ha richiamato poco fa, piangeva; prende il primo volo, ma da loro è piena notte».
   «Vado io a prenderla all’aeroporto».
   «Mi sento in colpa» confessa Marta.
   «Hai fatto quello che potevi. Non puoi rimproverarti nulla».
  «Gli ho nascosto la verità!» ribatte, con irruenza. «Gli ho dato una speranza inesistente. Nascosto il fatto di essere condannato senza permettergli la possibilità di… prepararsi. Non sopporto più questa situazione; pensavo di parlargliene in questi giorni, ma non ho trovato il coraggio. Ora però, non posso più rimandare; quando si riprende…» L’emozione ha il sopravvento.
   «L’avete fatto per lui» la interrompe Massimo, vedendola in lacrime. «Tu e Carlotta avete preso la decisione migliore. Andrea non avrebbe accettato la malattia, lo conoscete meglio di tutti, avrebbe fatto un colpo di testa, per sgravarvi dalla situazione. Carlotta stessa ti ha chiesto di tacere». 
   «L’abbiamo fatto per lui o per noi?» confessa Marta.
   «Per una speranza» ribatte Massimo. 
   «Già, speranza» replica Marta, disillusa. «Ma ora non ce la faccio più! Vederlo soffrire, imbottirsi di antidolorifici rassicurandolo che si tratta di una malattia lunga, ma che deve aver fiducia nei medici. Trattarlo come un bambino zittendone i lamenti». Sospira guardando il soffitto. «Ultimamente poi, ne sono convinta, non mi crede più. Ha perso quindici chili; fare dal soggiorno al bagno è diventato uno sforzo inumano; non si regge nel fare due passi, capisci, lui che ha corso la maratona di New York, ora vive gli ultimi giorni in un’alternanza fra narcosi e sonno. È straziante vedere un’anima libera bloccata a letto a bramare il mondo, la vita, al di fuori di una finestra». Marta si allontana da Massimo, approssimandosi alla porta dai vetri satinati, fissa il cartello che vieta l’accesso ai non autorizzati. Come può, si chiede, la mancanza di un documento, che certifichi la loro unione, impedirle di vederlo? Il loro amore è forse difforme se non sancito a norma di legge? Un anello può fare da salvacondotto a una cinica ex moglie, ma a lei, che condivide con lui sofferenze e preghiere, non è dato d’essere ammessa. La rabbia monta vorrebbe prendere per il bavero il primo medico, infermiere, inserviente che le passa a tiro facendosi strada a forza. Il cuore ha un sussulto quando, spalancandosi la porta, vede uscire un’infermiera. Gli occhi di Marta frugano furtivi nel piccolo reparto; da una finestrella scorge un paziente intubato, difficile riconoscerne i tratti. Percepisce un bip ritmato, pensa al cuore del suo Andrea. Un groppo in gola le impedisce di chiedere, implorare notizie all’infermiera che si allontana. La porta si richiude smorzando ogni legame fra lei e quel bip. Battito che, furtivamente, controllava nelle notti insonni; abbracciandolo sul fianco, appoggiava la testa sul torace, godendo del suo calore, attenta a non fargli male, incredula nel vedere il corpo del proprio guerriero farsi fragile. Le lacrime a bagnarne la giacca del pigiama, maledicendo il destino che non concedeva la fievole speranza di una cura, seppur devastante.
   «I parenti del sig. Bonini?» domanda un giovane medico.
   «Sono la compagna» risponde Marta. «La figlia vive a Boston». Avrebbe potuto mentire, spergiurare d’esserne la moglie, ma sarebbe equivalso a rinnegare la decisione di non omologare il loro amore con della burocrazia. Si bastavano: in due colmavano l’universo, il resto non importava.
   Il medico mostra titubanza, non ha ancora l’esperienza e il distacco necessari in questi casi. «Il paziente è stabile» informa, rompendo gli indugi. «In mancanza di un famigliare, posso solo dire che non è vigile e non risponde agli stimoli».
   «Sì, ma cosa…» irrompe Marta, spazientita.
   «Mi spiace, è presto per dirlo» risponde il medico, prima di andarsene. Massimo le si avvicina, Marta inizialmente ne rifiuta l’abbraccio per poi abbandonarsi in un pianto isterico. Non trattiene più la rabbia sentendosi discriminata, sola ad affrontare una battaglia verbale con dei sordi.
   I minuti scorrono con il contagocce; seduti nella sala d’attesa i due non parlano, solo gli sguardi si rinfrancano a vicenda. Lo stomaco chiuso dall’ansia. Nell’aria l’odore di disinfettante e il brusio delle lampade al neon. Radi parenti passano indossando grembiuli verdi, mascherina e soprascarpe. Marta li scruta con rabbia, invidia. Consulta spesso il cellulare attendendovi un cenno da Carlotta che, figlia del paziente, avrebbe titolo a ricevere informazioni.
   Attesa interrotta dalla chiamata di un altro medico; la situazione sta precipitando, quindi, senza pretendere credenziali, convoca Marta in una stanzetta richiudendo la porta dietro di loro. Massimo si avvicina per carpirne le voci, ma nulla trapela dal piccolo ambiente. Il colloquio è breve, l’uscio si spalanca lasciando uscire il medico. Massimo fruga nella penombra scovando Marta seduta su di una seggiola. Le mani a coprirne il volto.
   «Avevano detto tre mesi!» esplode lei, rabbiosa e delusa. «Avevano detto tre mesi e adesso, invece, si rimangiano la parola. È questione di ore, capisci, mi tolgono anche il tempo per stare con lui. Non sono ancora passati tre mesi». È fuori di sé, a parlare è la disperazione.
   «Calmati, non serve a nulla la rabbia».
   «Calmati un accidenti!» sbotta. «Io li denuncio tutti, non possono farmi questo. Io lo amo. Devo parlargli» singhiozza. «L’ultima volta che gli ho parlato è stato per sgridarlo, capisci, come fosse un bambino capriccioso. Gli ho dato persino uno scappellotto, ero furiosa, volevo farlo reagire, spingerlo a combattere. Invece di abbracciarlo, l’ho rimproverato, gli ho visto le lacrime negli occhi e non riesco a perdonarmi». Il magone le spezza il respiro.
   «Soffriva come un cane» riprende. «I dolori dovevano essere infernali, sai quanti narcotici prendeva per non impazzire?»
   «Gli sei stata sempre vicino». Massimo è impacciato, non ha parole.
    «E adesso non posso nemmeno vederlo. Sono sicura che può sentirmi, devo dargli forza. Sembra coraggioso, ma è un uomo fragile».
   «È questione di ore. Appena arriva Carlotta darà l’autorizzazione e potrai entrare».
   «Non c’è tempo, Andrea è debole, il medico dice che è in coma, che non sentirà nulla, ma io so che mi vuole; ha freddo, è solo».
   Massimo la stringe a sé, sconvolto nel vederla così fragile e impotente.
   «Cosa farò adesso?» chiede, stringendosi al fratello. Massimo comprende che non si riferisce soltanto al presente, nella voce c’è l’amara consapevolezza di trovarsi dinanzi alla fine di un amore immenso. Una coppia che, traendo la forza l’uno dall’altra, ha saputo affrontare difficoltà ideologiche; erano i primi anni ottanta quando si erano conosciuti: faceva ancora scandalo una ragazzina che andava a convivere con un uomo dieci anni più grande, divorziato e con una figlia. Ma la loro un’unione fu così salda, da resistere alle bordate perfide di una ex moglie, all’orgoglio ferito dei genitori di Marta che per lungo tempo non le rivolsero la parola, e poi le amiche volatilizzate, il marchio della vergogna, invisibile ma indelebile al tempo stesso, mentre la figlia di Andrea l’accusava d’essere la causa del divorzio.
    Stretta in sé stessa, Marta prega qualunque divinità possa concederle un ultimo desiderio: pochi istanti, il tempo di vederlo un’ultima volta, chiedergli perdono. Avvampa d’imbarazzo non riuscendo a soffocare un pensiero che, nel lasso di un lampo, la riporta ad amplessi straordinari a sancire una riappacificazione. Distesi sul letto, sfiniti, con gli occhi lucidi e appagati. L’universo avrebbe anche poteva implodere in quel momento per loro, tanto avevano saggiato l’eterno.
    Un’infermiera si accosta a Massimo, portandolo in disparte. Marta ha un sussulto, tende le orecchie captando il loro bisbiglio. Vorrebbe alzarsi, ma l’occhiata compassionevole dell’infermiera la blocca. Trattiene il respiro, auspicando in un miracolo. Speranza spazzata dal tono brusco che, la stessa infermiera, inspiegabilmente usa alzando il tono: «A ogni modo, nessuno può entrare nella stanza, anche se i medici non ci sono. Intesi?»
    Frastornata, Marta guarda Massimo ringraziare in un sussurro la ragazza.
    «Dai, spicciati» la incita Massimo, avvicinatosi. «Indossa camice e mascherina; non c’è più tempo e, ricorda, è una tua iniziativa».
    Marta nemmeno ribatte, balza in piedi fiondandosi nella saletta, indossa camice e mascherina. Tremando come una foglia spalanca adagio la porta, segue il corridoio sbirciando fra le salette occupate. Lo scorge riconoscendone i capelli canuti, corti e arruffati. La porta è aperta, una spia lampeggia, gli allarmi sono disinseriti: l’infermiera segue i parametri dalla sala. Marta si avvicina in punta di piedi, con mano tremante gli pettina i capelli con una carezza, la maschera dell’ossigeno non le permette di baciarne la guancia, si limita a sfiorarla con il dorso dell’indice. Afferratane la mano, la tira a sé stringendola, sfiorandone il dorso con le labbra.
    «Perdonami» sussurra. «Il tuo dolore adesso è il mio. Non riesco a credere un giorno lontano da te, come posso “essere” senza te. Non ho amato nessun’altro, perché nessuno è come te. Credevo d’entrare per darti forza, ma, come sempre, sei tu il più grande, tu dai coraggio a me. Grazie d’avermi amata, grazie per tutto quello che sei stato per me. L’avermi fatto sentire donna, amata e protetta. Per avermi spronata, sgridata e lusingata; per avermi donato delle radici, con cui ancorarmi al terreno e delle ali, per farmi volare». 
   Il respiro è un sibilo sempre più flebile, la bocca spalancata nel tentativo d’acchiappare l’ossigeno che pare sfuggire. Gli occhi chiusi, le palpebre tremolanti. Marta quasi non si accorge, avverte solo un lieve fremito nella mano che stringe a sé, un’altra spia si accende, mentre il respiro cessa.
   L’infermiera si avvicina spegnendo le apparecchiature. «Mi spiace» sussurra. Gli occhi lucidi. «Sta per arrivare il medico. Meglio che esca».
   Marta depone delicatamente il braccio. «Posso…» chiede, indicando la maschera dell’ossigeno. 
   «Sì», risponde l’infermiera.
   Con i gesti delicati di chi rimbocca le coperte a un bambino, Marta libera il volto di Andrea; da tempo non lo vedeva così rilasciato, sereno nel riposo dei giusti. Chinandosi, lo bacia. «Ti amo, amore mio» sussurra, con un filo di voce.



Scritto da Pierangelo Colombo, edito nell'antologia Bucefalo e altri racconti.

venerdì 11 novembre 2022

Bucefalo

Bucefalo



di Pierangelo Colombo

 Bucefalo, m’apostrofava sadicamente mio padre. Pseudonimo di cui fece un utilizzo così profuso da indurmi a credere avesse scordato il mio vero nome. Appellativo che nulla aveva da spartire con la mitologia evocata dall'omonimo destriero, ma, bensì, intesa nel significato letterario: testa di bue.
    Principe del foro, si era laureato con lode e abbraccio accademico e trovava insostenibile l’onta di un figlio che andava a scuola con l’unico obiettivo di scaldarne il banco.
     Crebbi sentendomi inadeguato quanto una candela all’entrata dell’inferno e anonimo come un granello di sabbia nel deserto. Ingenuo, mi lasciai irretire dalla cocaina che, ammaliandomi, mi catapultò in un mondo effimero e mi rese invincibile al pari di un gigante corazzato. Forte, svelto, indomabile proprio come quel maledetto cavallo che pareva irraggiungibile. L’Olimpo era alla mia portata, il mondo calpestabile quanto una merda di cane.
     Tuttavia, ero un colosso dai piedi d’argilla: gli dèi non hanno da pagar locazione; il mio posto fra loro, invece, aveva un costo altissimo. Precipitato nella prigionia della dipendenza, fui costretto a scippi, borseggi e spaccio per mantenere il fiele mascherato da elisir.
    Imboccato un vicolo cieco, non potei che finire sulla soglia del carcere. Fu in questura che subii l’ultimo sguardo aspro di mio padre. Superbo, tentò di lanciare un salvagente per trarre in salvo il buon nome della famiglia, non certo me. Raccolsi le ultime forze e lo rinnegai, rifiutando l’assistenza del suo pupillo, il perfetto modello del figlio sognato: un giovane promettente, capace di scovare un cavillo giudiziario in un pagliaio di leggi e commi.
     Rabbia repressa, gelosia e odio mi spinsero a quella cieca decisione: rigettare una difesa brillante per una d’ufficio. Rinnegando mio padre, mi ritrovai solo: avevo osato imbrattare il blasone di famiglia, costringendo il capostipite a recidermi dall’albero genealogico come un ramo secco.
    Sapevo che non sarebbe stato semplice anche se non immaginavo affatto l’inferno che mi attendeva, il marcio che avrei dovuto estrarre dal profondo dell’anima. L’odio a cui avrei dovuto dar sfogo per ritrovare la pace verso il mondo, verso me stesso.
     Ho conosciuto le sofferenze del travaglio, sino a partorire un nuovo Io. Un dolore fisico, ma anche mentale, che mi gettava in un labirinto di fobie e allucinazioni, istigandomi a gettare la spugna. Una lotta che, sfinendomi, mi ha ridotto a un ammasso informe di fango e sudore, argilla con cui, lentamente, mi sono riplasmato.
     La comunità, con il senno di poi, è stata la madre che, dopo una gestazione di due anni, mi ha riportato a nuova vita. Una famiglia dove ho potuto urlare, sbattere la testa contro il muro, imprecare contro Dio e l’universo intero, ma anche conoscere, con il tempo, il significato di amicizia, condivisione, comprensione e aiuto reciproco. Scoprire il significato del lavoro, la fatica che trasforma il sudore in cibo, un materasso in paradiso. La pace e il tormento che un vero padre sa infondere nei propri figli; la sicurezza che si può trarre dai suoi consigli che non sono sentenze.
     In Achille ho trovato non un amico, ma il vero significato della parola padre: colui che dà pane e protezione. Un educatore che mi si è affiancato nella corsa, adeguandosi al mio ritmo: non ha indicato scorciatoie e nemmeno mi si è sostituito nel saltare gli ostacoli; ha lasciato che cadessi, ma quando ero a terra, invece di sputare accuse, mi ha insegnato a rialzarmi.
     Achille è uno che si sporca le mani di vomito e urina. Conosce il fascino e il richiamo suadente della cocaina, per questo non tappa le orecchie con della cera, ma lega i propri compagni all’albero maestro, con lui, per affrontare assieme l’attraversata guardando in faccia le sirene ammaliatrici.
     Achille non chiude a chiave le porte. Quando sono fuggito, mi ha inseguito e, una volta raggiunto, non una parola di biasimo o punizione, ma l’offerta di rinnovato aiuto.
     Un giorno stavamo in campagna per la raccolta delle melanzane; il sole picchiava duro. Era quasi l’ora di pranzo e la fame mi dava il tormento; poco lontano, c’era un melo selvatico, e fra il fogliame spiccavano i piccoli frutti arrossati dal sole, invitanti. Il languore era tale da farmene cogliere l’aroma nell’aria, immaginando di gustarne la polpa zuccherina.
     Stiracchiando la schiena, mi avvicinai e ne colsi un frutto. Appena affondati i denti, però, il sapore aspro si sprigionò facendomi arricciare la lingua. Una smorfia deve avermi deformato il viso, perché Achille, che stava guardando, scoppiò a ridere. L’orgoglio mi costrinse a ingurgitare il resto del frutto, simulando un piacere estraneo. Gettato il torsolo, Achille si avvicinò.
     «Vieni» mi disse.
     Seguendone i passi, arrivammo ai piedi di una scarpata ferroviaria, dove c’era un piccolo cespuglio di fichi d’india. I frutti erano di un arancio caldo, ma le lunghe spine li rendevano poco attraenti. Arrampicandosi, Achille si avvicinò al cespuglio e, con l’aiuto di un coltellino e dei guanti, ne colse uno. Tornato da me, con maestria e pazienza ne incise la pelle per sbucciarlo.
     «Mangia» intimò, porgendomi la polpa.
     Il succo tiepido e dolciastro si sprigionò in bocca, donandomi un brivido di piacere.
     «La vita è una strada piena di buche e bivi» disse Achille. «A ogni bivio devi compiere una scelta: ricorda che non sempre la migliore è quella più comoda; i risultati più appaganti si raggiungono con fatica, impegno e sofferenza, ma la ricompensa è mille volte meglio». Mostrandomi le mani, aggiunse: «Si fanno degli sbagli, ci si ferisce, ma è inutile recriminare; piuttosto, traine insegnamento e prosegui nel tuo cammino, sempre a testa alta, perché ognuno ha diritto al proprio posto nel mondo».
     E ora, eccomi davanti al primo bivio: da un lato, la strada breve del gettare tutto alle ortiche, lasciarsi andare biasimando la società che non mi accetta; dall’altro lato, l’indirizzo fornitomi da Achille, un lavoro che mi darà pane in cambio di sudore, sofferenze che produrranno soddisfazioni. Tutto ciò che posseggo è chiuso in uno zaino: speranze, ricordi, cicatrici e malinconia. Alle spalle lascio una madre amorevole da cui, inevitabilmente, Achille ha reciso il cordone ombelicale che mi teneva legato; la comunità mi ha rimesso al mondo, Achille mi ha rieducato e reso autonomo.
     Tremo come una foglia, non è una crisi d’astinenza, è emozione. Sono consapevole di dover affrontare la prova più difficile: camminare sulle mie gambe, sostenere il marchio indelebile dell’essere stato un tossico; reinserirmi in una società che, veloce come un treno, dovrò prendere al volo. Per la prima volta, però, sono fiero d’essere “Bucefalo” perché sarà proprio la mia cocciutaggine a spronarmi in questo cammino a piedi scalzi sulla sabbia rovente, che è il vivere.

  

 

Bucefalo, edito e vincitore del IV Premio Letterario Giotto colle Vespignano (2017)


lunedì 31 ottobre 2022

La notte degli spiriti

 La notte degli spiriti


  La notte è una frontiera da esplorare come quella dei pionieri, illudendosi di poterla domare, conquistare. La notte è il regno di mezzo, dove possiamo sfiorare l’inconsistente come il buio, che non esiste, essendo mancanza di luce. La luce è un fatto, è misurabile. Il buio no, eppure è tangibile nella sua incorporeità. La notte è una zona franca dove si rimescolano le leggi della razionalità e i solidi si stemperano nell’oscurità che invade lo spazio, neutralizzando distanze e profondità. I sussurri acquistano la potenza degli strilli, una carezza può sciogliere il ghiaccio e l’immaginazione, attraverso i sogni, scansa la vita reale.
  Il mio Dio deve soffrire d’insonnia oppure ha l’animo felino: sonnecchia di giorno per agire indisturbato nella notte. Sta di fatto che i lanci principali dei dadi che muovono la mia vita, li ha tirati proprio di notte; dal mio primo vagito alla battaglia febbrile contro un’infezione bastarda, dal saggiare l’inebriante euforia nel farmi padre al devastante strazio nel rendermi orfano del mio.
  Il dare e il rendere, l’arrivo e la partenza. Quanta ipocrisia nell’abusato dire “dono della vita”. Chiamiamo le cose con il proprio nome! Tutt’al più la vita è in locazione, un comodato d’uso. I doni non si rendono, se non per mera rabbia al termine di un amore. Nascere non è stata certo una nostra scelta: ci ritroviamo scaraventati in un mondo meraviglioso e terribile al tempo stesso, con una cambiale di resa vita in mano, la cui scadenza ci è ignota. Il destino concede o reclama e, arbitrariamente, può troncare un percorso ancora da costruire, senza concedere il tempo necessario per lasciare traccia di noi.
  La prima infatuazione non si scorda mai; nel bene e nel male, la tempesta d’emozioni che attraversiamo saggiando da vergini la forza vitale, che è l’amore, solca un segno. Cicatrici e sogni si rimescolano imprimendosi nella memoria. Quando poi l’incontro è tanto breve quanto intenso, si fa amore bucolico, perfetto nell’assenza di grinze; la mancata quotidianità impedisce l’agire del tempo usurante sul sentimento, lasciandolo intatto, puro e completo. 
  Uno schianto inevitabile e bastardo ha spezzato i sogni di una ragazzina dagli occhi miele di castagno, rendendone immortale l’immagine, ma lasciando incompleta la sua opera. E così, in una notte di arida estate, un amore ancora agli albori è restato indefinito, un progetto faraonico che sarebbe stato degno d’essere annoverato fra le meraviglie dell’universo, ma ormai irrealizzabile. L’amore perfetto.
  Lo stesso destino canaglia non perde occasione, in momenti di sconforto, per riproporre quella domanda granitica e disarmante: come sarebbe stata la vita con lei? Come può, chiunque, reggere il confronto con l’icona dell’amore puro? 
  E la malinconia si fa fiele; l’assenza si manifesta in un vuoto destabilizzante, che dissemina la notte di sogni e desideri impossibili.
  In istanti come questi, in cui l’imbrunire d’autunno mi coglie solo in questa stanza, lascio che i pensieri materiali si stemperino nell’aria tiepida, mentre la testa, svuotandosi, capta il risveglio della vita che sonnecchia nel giorno. È l’ora in cui le creature della notte si stiracchiano, pronte a vivere nella protezione delle tenebre. La civetta plana silente in un primo volo rapido, mentre l’occidente si tinge di rosa e violetto. Le Pleiadi, figlie di Atlante, si mostrano timidamente guidando i pochi che, come me senza bussola, cercano una rotta. 
  Mi pare di captare il respiro delle travi della soffitta e in questa notte mistica la casa intera sembra prendere vita. È la notte degli spiriti, la vigilia di Ognissanti. Una notte che si perde nel tempo, nata ancor prima del nostro Credo, quando l’uomo e gli dèi si confrontavano quotidianamente e i molti quesiti rivolti alle stelle, a volte, ricevevano risposte. 
  È la notte di Samhain per i Celti, la notte che precede l’alba, confine tra i giorni della luce, quelli estivi, con quelli delle tenebre, l’imminente inverno. Lo stesso confine che divide il mondo dei vivi da quello dei morti che, proprio in questa notte, si fa così sottile da poter essere attraversato. Gli antichi dicevano che chiunque volesse rivedere i propri cari defunti, in quella che era la notte delle ombre, poteva scoperchiare il sepolcro ed entrarvi e l’unica condizione era rimanere nell’Aldilà per un anno intero, sino al successivo Samhain. Si correva un solo pericolo: che il caro defunto decidesse di tenersi vicina la persona amata, impedendole di tornare indietro.
  E qui, ora, mi chiedo a cuor scoperto, a cosa sarei disposto a rinunciare per rincontrare l’insoluta completezza di me stesso? Sarei disposto a lasciare ciò che ho costruito sulle macerie di un sogno perduto per poterla stringere, anche se per una notte sola?
  Nessuna esitazione ripensando ai suoi occhi limpidi, a quella piccola voglia, una goccia d’ambra, poco sopra la fossetta destra, alla zazzera di capelli corvini dove affondavo le mani in carezze. Riudirne la voce. 
  Nessun indugio pur di riabbracciarla, avvertirne il respiro sul collo, il profumo della pelle e i seni acerbi aderire al mio petto. Potersi finalmente sfamare in quel lauto banchetto promesso, ma sospeso in una chimera. Amarsi riappacificandomi finalmente con Dio e con il mondo, dopo l’odio generato dallo strazio di quei giorni laceranti.
  Di notte, però, dove tutto è possibile e i sogni sembrano farsi tanto concreti da poterli sfiorare, i sensi prendono il sopravvento e i sentimenti si amplificano. E come l’amore può farsi forza invincibile, anche il dubbio può intrufolarsi nell’animo, rendendo ogni cuore pavido dinanzi al nulla. Le domande si sovvertono facendosi tarli che indeboliscono la volontà. Sarei mai stato alla sua altezza? Avrei saputo renderla felice e scalare il piedistallo su cui l’avevo deposta? 
  Forse sarebbe stato in ogni caso un sogno irrealizzabile, un’utopica meraviglia il cui peso mi avrebbe travolto come una valanga. Il tempo, come una gramigna, avrebbe infestato quella terra promessa?
  Le domande istigate dal dubbio si susseguono. Allora le certezze odierne si palesano confortanti; forse è stato meglio così. Ma non posso controllare il fremito che nasce ripensando alle sue carezze, a quel vuoto allo stomaco che m’assale al solo pensarla. Il tempo lontano da lei è tempo dolente e, sovvertendo ogni legge fisica, s’è fatta il fulcro del mio universo. La sua mancanza è un buco nero da cui non posso sfuggire. Forse, questa notte è giunto il momento di lasciarsi cadere nel vortice, di raggiungerne il ricordo vivido e, giocandosi tutto, confessare a me stesso, prima di tutti, che ancora la amo. Ci si può lasciare alle spalle il dolore, forse, elaborando il senso d’impotenza dinanzi al furto della felicità e lasciandosi trasportare dalla corrente senza opporsi, aggrappati ai ricordi come a un relitto. Tuttavia, inevitabilmente, non si può estirpare quel seme che, gettato in noi da uno sguardo e germogliato con un sorriso, ha messo radice nel profondo della nostra anima.
  Questa è la notte degli spiriti, la notte in cui, allungando la mano, prego Iddio che mi perdoni e, mosso a misericordia, mi conceda un suo sguardo attraverso gli occhi di lei.     



Racconto inedito scritto da Pierangelo Colombo.
Condividete pure, ma non dimenticate di citarne l'autore 😉

domenica 16 ottobre 2022

Così vicina da poterne sfiorare l’anima

 Così vicina da poterne sfiorare l’anima

 


Di mia madre non serbo che briciole di percezioni; i ricordi si sono dissolti, assieme al timbro della sua voce. Ero troppo piccola per imprimere nella memoria un profumo o dei gesti quotidiani.
  Nel fiore degli anni, è stata la fiamma pilota che ha acceso in me la vita; il tempo di svezzarmi, progettare il mio futuro e si è dovuta giocare a dadi il proprio, con un destino bastardo che si è preso tutto di lei. In tre mesi ha dovuto cedere il testimone alla sorella, lasciandole in eredità me e, distrutto, mio padre.
  La mia, in fondo, è stata una vita comune, regolare nella sua mediocrità, se non fosse che l’assenza di mia madre ha pesato quanto un macigno.
  Ho provato sentimenti contrastanti nei suoi confronti, passando da un amore assoluto a un odio profondo. Piangevo in silenzio, incolpandola d’avermi abbandonata. I pensieri dei bambini non sono logici come negli adulti, ma viscerali, imprevedibili quanto la fantasia; passano dal bianco al nero senza considerare i grigi: non comprendono la morte, perché ancora non sanno cosa sia la vita. Hanno soluzioni semplici a problemi complicati, basta usare la fantasia: sei malato? Usa la magia! Mamma, però, non ha chiesto nessun sortilegio per restare con me, quindi, lentamente, si è insinuato nella mia mente il dubbio dell’essere stata abbandonata, assieme all’insanabile pensiero di non essere amabile, di non meritare nulla dalla vita.
  Detestavo le mie compagne quando parlavano continuamente delle proprie madri, e le invidiavo, rodendomi nel vederle ingaggiare duelli verbali da cui uscivano con dei lacrimoni, certo, ma anche con la consapevolezza che, dopo la buriana, sarebbero arrivate le carezze.
  Avrei dato tutto per sostituirmi a loro. Ho desiderato quelle carezze in ogni istante, come si può bramare il calore nel gelo dell’inverno o l’acqua nel deserto.
  Mi pesa il non avere ricordi di lei, anche se rammento interi pomeriggi a sfogliare vecchi album fotografici, nel tentativo di crearmi una sua immagine. A volte, mi mettevo dinanzi a uno specchio e, rimbalzando dal suo volto al mio, cercavo dei tratti che ci accomunassero. Aveva un bellissimo sorriso, di quelli che illuminano le notti più buie, con gli occhi che brillano come stelle da sopra le guance. Un sorriso che, nonostante gli sforzi, non sono mai riuscita a emulare.
  Avevo un angioletto di porcellana posato sul comodino; a detta della zia, era un regalo di mia madre: avrebbe dovuto vegliare e proteggermi nel sonno. Crescendo, ho fantasticato molto su quella statuetta, sulle possibili consegne di lei, parole che non ho mai udito, ma che ho immaginato in una lirica struggente. Più guardavo quell’angelo, più vi riconoscevo i suoi lineamenti quando, in una foto in bianco e nero, se ne stava in posa per la prima comunione.
  A quella statuetta confessavo desideri, paure e preghiere da recapitare in quella dimensione, per me incomprensibile, che i grandi chiamavano Paradiso.
  Sopportavo a stento i loro discorsi sul fatto che lei mi fosse sempre vicino, proteggendomi; quello che volevo era una madre imperfetta, tirannica, asfissiante, non uno spirito guida invisibile. Chiedevo solo di poter correre da lei, confessandole bugie ormai insopportabili o invocando protezione. Desideravo essere coperta d’amore.
  Di lei ho solo delle sensazioni; la più potente la saggiai una sera d’inverno. Avevo nove anni e andai con papà a far visita agli zii. Non ricordo molto della cena: rammento, però, che festeggiavano l’anniversario di matrimonio e, per celebrarne il ricordo, riesumarono una videocassetta della cerimonia.
  Me ne stavo seduta sul sofà, stringendo il braccio del babbo nella speranza che si alzasse per andarsene, mettendo fine alla noia soporifera. Lui, al contrario, sembrava apprezzare quel tuffo nel passato, commentando e raccontando aneddoti. Il mio interesse s’era spento fin dalle prime inquadrature, quando mi dissero che mamma non c’era: la gravidanza, quasi al termine, l’aveva costretta a rinunziare alla funzione.
  Arrendendomi, lasciai il babbo a godersi lo spettacolo, mentre io m’abbandonavo al sopore del sofà.
  Fu proprio mio padre a svegliarmi. «Guarda, c’è mamma!» disse, facendomi sussultare.
Stranita dal dormiveglia, mi rizzai cercando nella stanza la sua figura, con il cuore in gola per la sorpresa e il terrore di vedere un fantasma.
  «Guarda!» ripeté lui, indicando la tv. La delusione fu tale che mi lasciai cadere sul divano. Fissai lo schermo da dove, raggiante, lei sembrava guardarmi mentre salutava con la mano. Fui percorsa dai brividi; ancora intontita, non capivo che stesse salutando chi la riprendeva: sembrava fissare proprio me, con gli occhi lucidi d’emozione.
  La cosa mi sconvolse; irrigidendomi, strinsi i pugni: avevo paura. A tranquillizzarmi fu un suo gesto: abbassò le mani, portandosele sulla pancia enorme. Esibendo un sorriso mistico, chinò il capo di lato, posando lo sguardo sul ventre. Mi colpì la grazia con cui carezzò l’involucro che mi conteneva. Un gesto che comprendeva tutti i vocaboli dell’amore: protezione, desiderio, rassicurazione, calore, sprone, abbraccio, orgoglio, sostegno. Ebbi la sensazione di percepire il calore che dalle sue mani arrivava a me, nascitura. Calore che, quella sera, mi avvolse d’emozione.
  Ricordo bene la sensazione di benessere, lo stesso tepore che trovavo infilandomi nel letto di papà, quando fuori c’erano i lampi. Mi sentii cullata, investita da tutte le carezze desiderate; provai un senso inebriante di dolcezza, quanto una cioccolata calda in una notte siderale. Fu un’emozione così intensa che, chiudendo gli occhi, mi sollevai invocandone un abbraccio. Tendendole le braccia, mi lasciai andare in un pianto dirotto; avrei dato l’universo per un solo contatto.
  Come un ricordo, serbo questa emozione nello scrigno dei tesori più cari; mai come quella sera ho sentito mia madre così vicina da poterne sfiorare l’anima. È stata la notte in cui, slegando il nodo che mi stringeva lo stomaco, ho lasciato defluire l’odio, riappacificandomi con il mondo, con lei e la mia anima.
  Da allora, ho la percezione che dentro di me batta un doppio cuore.
 


Scritto da Pierangelo Colombo, edito nella raccolta, Bucefalo e altre storie. 

Primo classificato nella XII edizione Premio “G. Zanella” 2016

domenica 9 ottobre 2022

L'antimaestro

 L’antimaestro

 
 


 
  Alla fine ci è riuscita, mi ha placcata a pochi metri dal traguardo. Mancavo solo io alla collezione, ed eccomi qua, in lacrime. Ora può dirsi soddisfatta: depennandomi ha completato la lista. Attuando un lavoro certosino, in tre anni, per due ore la settimana, è riuscita a bollare l’intera classe con il suo marchio: un pianto mortificato.
  Odio queste lacrime, che non riesco a trattenere. Le mani fremono di rabbia, sospese sulla tastiera della pianola; collera che m’impedisce di distogliere lo sguardo, seppur affogato, dal suo ghigno soddisfatto. Compiaciuta nel vedermi umiliata, piegata finalmente alla sua autorità; guarda i miei compagni con la superbia del gladiatore vittorioso, in attesa del pollice verso. Ma lei non ha bisogno di verdetti, lei è sovrana, con diritto di vita o morte. Nei suoi occhi è lampante la convinzione: “Non combinerai nulla di buono nella vita”. Ed io, vinta, non posso che soggiacere alla sua perfidia. Il silenzio nell’aula è disturbato soltanto dai miei singulti, così le sue parole squillano chiare e pesanti: “Ringraziate la vostra compagna, se lunedì, ultimo giorno di scuola, nell’ultima ora, invece che far festa si farà lezione”. Frase che fa colpo sui compagni che, finalmente, vedono la secchiona imputata. Accusa che cancella dalla memoria il fatto che, poco prima, lei personalmente, aveva messo in agenda di: visionare i quaderni, controllare le schede d’ascolto e correggere l’ultimo dettato musicale, proprio in quella maledetta ultim’ora di scuola.
  La rabbia mi bolle dentro, non per le lacrime che le sto offrendo su di un piatto d’argento, o per la mortificazione dinanzi ai compagni che, durante le sue lezioni, sono avvezzi a dare o assistere a questo penoso spettacolo. La collera nasce dall’ingiustizia nell’accusa mossami; dal suo arrogarsi padreterno, onnisciente e infallibile. Ha stabilito che io sia impreparata, quindi, il suo pensiero si fa verbo, verdetto: ho cazzegiato nel fine settimana. Non importa se abbia rinunciato a seguire mio padre in Toscana, rosicandomi di sensi di colpa nel costringere anche mia madre a casa; d’essere la causa per cui, il babbo, pareva un orfano alla cerimonia cui non poteva mancare. Ma lei aveva fissato la mia interrogazione, concedendomi la possibilità di alzare la media da un nove punto otto a dieci. Una persona responsabile si sarebbe accontentata: “Grazie del pensiero, ma mi basta il nove”. Affermazione, bestemmia, nei confronti della religione da lei amministrata. Nessuno può osare, o solo pensare, di ridurre l’arte sacra della musica a materia secondaria. Unica alternativa, quindi, eseguire ad occhi chiusi i brani conosciuti. Ed io, idiota, che non temo epica, scienze o storia, ma tremo dinanzi a lei, cosa ho fatto? Trascorso, maledicendoli, il sabato e la domenica a passare e ripassare, martellando sui tasti, le note che leggevo sul pentagramma. Chiudendo gli occhi, rivedevo i diesis, i bemolle, le quartine, le pause, mentre stordivo mia madre con: Per Elisa o L’inno alla gioia.
  Gioia. Prima di lei, associavo questa emozione alla musica, festa, allegria, voglia di vivere. Ora, dopo tre anni di sue lezioni, di urla, minacce, note, insulti velati e non, vi associo tensione, incubo, insonnia.    Non so perché scarichi le frustrazioni su di noi, se ne prova sollievo o ne goda. Se si renda conto d’aver dinanzi dei ragazzini. Nessuno di noi, si è mai permesso di ritenersi migliore di lei, eppure ci ha sempre trattati da reietti, delle merde. “Lo faccio per voi, per prepararvi ad un mondo di squali”, ha detto. Non credo, però, che nella savana mettano un leone in un’aula per preparare i bambini ad affrontarlo.
  Ha voluto mettermi in crisi: “Inizia dal quinto rigo” ha chiesto. Ma io non sono una concertista come lei, manco d’esperienza; impensabile iniziare da una battuta qualsiasi, nel mezzo della frase musicale, trovando immediatamente il giusto ritmo della melodia. Come declamare una poesia partendo da un verso a caso e pretendere di creare, all’istante, la giusta enfasi. Se poi vi aggiungo l’ansia nel trovarmi a suo giudizio, la stessa fobia di un imputato dinanzi alla Santa Inquisizione. Non esagero, non sono sfoghi di chi, in fallo, cerchi di scaricare le proprie negligenze. La mia educazione mi porta a rispettare chi mi sta dinanzi, lei, però, esige stima, che è tutt’altra cosa. Sono una preadolescente, una ragazzina che ignora la serietà della vita, come lei sostiene, ma le assicuro che conosco il valore della stima, merito che si acquista con le azioni, mentre lei l’esige con il terrore. Gandi ha conquistato la stima dell’umanità, mentre i dittatori la impongono. La stima è un sentimento vero, non può essere edulcorato.
  Il nodo in gola, per fortuna, blocca ogni parola; fingo sottomissione, replicare significa compromettere l’imminente esame. Ci tiene in scacco usando l’assurda scala decimale. Il ricatto è il fulcro del suo metodo didattico. Sono codarda, lo ammetto, relego questo sfogo ad un foglio di carta, lettera che, di certo, non leggerà mai e, nel caso, cestinerebbe definendomi l’ennesima cretina. Tuttavia, seppur incredibile, devo ringraziarla. Benedirla per questo pianto che, sciogliendo la tensione, mi spalanca gli occhi: ho capito quello che non voglio diventare; se un giorno avrò la fortuna d’insegnare, potrò contare sull’esempio lampante di coma sia l’antimaestro. L’antimaestro, credendosi superiore, è in grado di stroncare sul nascere l’autostima di un allievo, quella barriera protettiva che il ragazzo tesse lentamente, cercando un proprio esistere. L’antimaestro massacra la propria arte con l’egocentrismo; non porta conoscenza, ma cancella ogni volontà d’apprendere ciò che, al contrario, l’allievo impara ad odiare.
  Lei si crede infallibile, un giudice pronto a sputare sentenze; un analista che, soltanto guardandoci in faccia, comprende la pasta che ci compone. Quando, persino noi, non abbiamo la più pallida idea di come veramente siamo. Stiamo cercando di costruirci, districarci dai luoghi comuni che voi, adulti, stampate in ciclostile, bollandoci come persone senza idee chiare sul futuro, scopo o un concetto che elevi le nostre mediocri esistenze. Giudizi che sputate senza nemmeno guardarvi alle spalle, dando una ripassata nella memoria per rammentare che, nel bene o nel male, anche voi siete passati da questa fase. Lei enuncia di volerci raddrizzare, come fossimo dei criminali da riformatorio, ma se anche lo fossimo, i virgulti si raddrizzano fornendogli un supporto cui poggiare, non certo colpendoli a bastonate. Quanti studenti hanno pianto e quanti ancora lo faranno, da qui alla pensione, schiacciati dal suo potere travestito da sapere. Si vanta d’averci fatto conoscere la musica, insegnato ad eseguirla. Non lo nego, mi chiedo, tuttavia, a cosa serva apprendere un’arte senza provarne amore.
  Con lei, antimaestra, ho conosciuto l’insicurezza, l’ansia, il panico, ma una sola grande certezza: appena terminata la scuola, chiuderò la tastiera in un baule seppellendolo e, da grande, non farò mai la pianista. E, scusi se mi permetto, ma chi ha veramente fallito, è stata lei.  

 


Ogni riferimento a persone o vicende realmente accadute è puramente casuale. 

Terzo classificato XIV ed. Premio “Vittorio Alfieri”

Scritto da Pierangelo Colombo, edito nella raccolta: Bucefalo e altre storie.


giovedì 29 settembre 2022

La lingua delle immagini


La lingua delle immagini




   I piedi del ragazzino calpestavano il selciato in discesa, mentre il pensiero galoppava altrove, inseguendo aironi nel cielo.
   «Martino!» lo richiamò una voce, «Martino, dove stai andando?»
   «Al fiume» rispose questo, mostrando un filo alla cui estremità luccicava un amo. «Vieni anche tu?» domandò al compagno che, arrivando dai campi, lo raggiunse di corsa.
   «Il babbo m’ha detto di raccogliere la legna» rispose questo, combattuto fra l’obbedienza e il desiderio di trascorrere un pomeriggio con l’amico.
  «Mica tutto il giorno, mi fai un po’ compagnia e poi, se vuoi, ti do una mano nei boschi.»
   «Va bene» rispose il ragazzino, entusiasta di poter raccontare le sue nuove.
   «Domenica non ti ho visto alla messa» lo anticipò Martino, curioso.
   «Ero con il babbo a Firenze» esclamò entusiasta.
   «A Firenze? A fare che?» domandò sbalordito e invidioso al tempo stesso. La città, seppur a una giornata di cavallo, era così lontana dalle sue possibilità, da sembrare Gerusalemme.
   «In autunno ci trasferiamo là» rispose l’amico, «il babbo ha trovato una bottega, anch’io ci lavorerò; entreremo nell’Arte della Lana.» Diversamente dalla prima, tuttavia, il ragazzo pronunciò la seconda novità con meno enfasi.
   «E ti piace come lavoro?» domandò Martino che, assuefatto agli spazi aperti dei pascoli, provava un senso di asfissia al pensiero di rinchiudersi in una bottega.
   «Sì… non lo so, devo ancora provare» rispose titubante, per nulla convinto della strada che avrebbe intrapreso. «Però, avrò la possibilità di vedere e imparare tante novità: poco distante da casa c’è una bottega di pittori.»
   «E che ci fai?» domandò Martino, non comprendendo l’utilità di qualcosa così lontana dalle mani callose dei contadini. Un mondo tremendamente terreno il suo, fatto di fatiche nei campi, di un sole cocente in estate e un gelo che irrigidisce le ossa in inverno. Pecore da pascolare o campi da dissodare. Giornate di fatica fisica che trovava compenso la sera quando, distendendosi sul pagliericcio, la schiena, tesa come un arco, trovava sollievo. Anche la religiosità era proiettata a concetti concreti, rivolgendo suppliche di buona salute, di pane quotidiano e la protezione a temporali e grandine. Il mondo dell’arte era tutt’altro, qualcosa riservato ai nobili o alla Chiesa, vite agiate che spesso passeggiavano a braccetto. Un mondo fatto di cose belle, ma senza utilità pratica, buone ad abbellire chiese e palazzi, ma null’altro.
   «Vorrei imparare a pittare» confidò il ragazzo, con aria sognante.
   «E per far che?» ribatté Martino, mentre le dita svelte districavano il filo per la pesca.
   «Per lasciare memoria.»
   «Memoria di cosa? Che sai pittare dei muri? Dammi aiuto piuttosto: cerca dei vermi.»
   «Nonno è morto da tempo ormai, e non ricordo più il suo viso» rispose l’amico, malinconico.
   «A te Firenze non è che t’à fatto bene» ribatté Martino, «che c’entra ora il tuo nonno?»
   «Il tempo è come l’acqua che scorre» indicò la corrente del fiume, «leviga la memoria, cancella le fisionomie. A Firenze ho visto il ritratto di un uomo, il babbo disse che si trattava di un antico prelato, vissuto molti anni fa. Guardandolo ho visto il suo volto, lo sguardo, il modo di mettere le mani conserte. Grazie al dipinto la sua memoria sopravvive al tempo.»
   «E vorresti avere un ritratto di tuo nonno per non dimenticarlo?» domandò Martino perplesso.
   Il ragazzo sorrise, senza distogliere lo sguardo dalla corrente del fiume.
   «Va bene, ma a chi vuoi che interessi di tuo nonno? Io faccio il pastore come mio padre, e suo padre prima di lui e così da molte generazioni. Ogni volta che guardo il pascolo e faccio i loro stessi gesti è come se ricordassi tutti loro, nessuno escluso. Anche questo è memoria» obiettò Martino che, pratico, non concepiva l’utilità di qualsiasi cosa non avesse un ritorno materiale.
   «Ma non capisci?» ribatté l’amico, «non si tratta di lasciare memoria di nonno o del babbo o chi vuoi tu. Ma è la potenza delle immagini: una lingua che tutti possono intendere.»
   «Tu parli come il pievano, ma le vostre parole, per chi non studia, confondono, non danno possibilità di difesa» rispose Martino che, al contrario dell’amico, non aveva ricevuto alcuna educazione se non il catechismo.
  «Ti ricordi l’anno passato? Quando siamo andati alla Pieve di Sant’Agata per la fiera del bestiame?» domandò il ragazzo conscio dell’effetto di un esempio pratico. Martino assentì con il capo. «Rammenti quando siamo entrati nella pieve? Cosa raffigurava il dipinto sulla parete?»
   «Certo che lo ricordo, l’asino sembrava vero, e ricordo anche lo scappellotto del babbo quando ho allungato la mano per toccarlo quell’asino.»
   «E ricordi che storia raccontava?»
   «La storia del buon samaritano.»
   «Proprio quella; e cosa vuole insegnare questa parabola?»
   «Insegna che dobbiamo amare il prossimo.»
   «E dimmi, ricordi il sermone che il nostro pievano ha predicato quest’altra domenica?»
   Martino, che prima lo fissava incuriosito, volse lo sguardo imbarazzato del proprio silenzio.
   «Capisci la potenza delle immagini? Basta uno sguardo per entrare fisicamente nella storia, come se fosti lì e i tuoi occhi potessero vedere quello che accade. Come hai detto tu sembra che, allungando un braccio, si possa toccare i protagonisti.»
   Martino tornò a volgere a lui lo sguardo, avrebbe voluto controbattere, ma non trovando argomenti convincenti tacque.
   «Vedi quel ponte?» proseguì il ragazzo indicando la costruzione poco più a valle. «Percorrendo quel sentiero verso il fiume lasci alle spalle il cammino già fatto, mentre dall’altra parte del fiume c’è il sentiero ancora da compiere; il passato su di una sponda e il futuro sull’altra, è il ponte che unisce le due sponde, il passato al futuro. E così è l’arte: collega il passato al futuro, mostra storie antiche alle genti che verranno. La parola vola nell’aria e il vento può portarsela via, la scrittura rimane, ma è per pochi, l’arte è solida, la si vede. È un testimone che resta.»
   «Ma sono i fiorini dei signori a fare i dipinti» obbiettò Martino.
   «Il denaro è solo il mezzo che permette di creare un’opera, ma il messaggio che questa lascia nel tempo è universale; le Sacre Scritture come i Vangeli, grazie all’arte sono comprensibili a me come a te, allo scrivano come al fabbro, al mugnaio come al Capitano del popolo. I fiorini pagano i colori, gli operai, l’artista, ma è solo colui che dipinge a dar vita ai personaggi.»
   «Parli di stregonerie: quelle figure non potranno mai essere vive.»
   «È vero. Il mio sogno, però, è di poter rappresentare dei personaggi il più possibile reali, così da sbalordire gli occhi di chi guarda. Vorrei dipingere i volti della gente comune, i loro sguardi e le espressioni, di modo che chiunque si fermi a guardare non pensi di essere dinanzi a un dipinto, ma abbia la sensazione di vivere in quella scena, di esserne un testimone.»
   «Amico mio, dammi retta, hai troppi grilli per la testa. Tuo padre ha molte terre fertili, che rendono bene» indicò il colle dove viveva il ragazzino, «ma che ti vai a impicciare con delle cose così… bislacche. Resta qui, che ti vai a fare la vita da cittadino, che noi si è gente legata alla terra, alle stagioni…»
   «Ora s’è fatto tardi» lo interruppe il ragazzino, «ho ancora da raccoglier la legna.»
   «Aspetta, t’aiuto come ho promesso» disse Martino che, preoccupato per l’amico, avrebbe voluto trovare degli argomenti che lo riportassero alla vita reale, che gli togliessero dalla testa quei sogni che, seppur belli, lo avrebbero certamente condotto a una vita di stenti e delusioni.
   «Non fa nulla, stai pure a pescare» rispose il ragazzino, stringendogli la spalla con la sua mano destra. «Stammi bene Martino» lo salutò avviandosi. Avrebbe voluto instillare in lui la voglia di sognare un avvenire differente. Conosceva, tuttavia, la testardaggine di Martino e, probabilmente, sarebbe stato più felice fra le sue pecore che altrove.
   «Stammi bene tu, che in città gira brutta gente.» Ricambiò il saluto scuotendo la testa, confermando il proprio dissenso all’idea balzana dell’amico.
   Il ragazzino era ormai prossimo al sentiero quando si sentì chiamare.
   «Oh, Giotto» urlò Martino, «se un giorno diventi un grande pittore» rise, «ci torni qui a dipingere per noi?»
   «Certo» rispose Giotto sorridendo, «dipingerò una Madonna con dei santi e ci metterò sicuramente San Martino.»




Racconto inedito di Pierangelo Colombo, finalista nel IX Premio Letterario Giotto Colle Vespignano.

lunedì 19 settembre 2022

Il volo dell'aquila

 Un racconto breve dedicato alla resilienza. Buona lettura.

Il volo dell’aquila

 


  Il movimento è essenziale, l’universo stesso è un’esplosione in costante espansione; la materia, la vita è in continuo mutamento. Il calore è prodotto dalle vibrazioni delle molecole; i cadaveri sono freddi. 
  Un lungo cammino inizia da un primo piccolo passo recita l’adagio, vincere l’immobilismo è quindi il principio. Lara ne è consapevole, è abbastanza intelligente da capire che nessuno recapita a domicilio successi ed esperienze. Sa che la vita, quella vera, pullula al di fuori delle solide mura domestiche. Ogni giorno il fato getta nell’aria i semi delle opportunità; a volte granelli minuscoli, quasi impercettibili, ma se afferrati e adagiati su di un semenzaio fertile, germoglieranno radicandosi nel terreno. Saranno, tuttavia, le cure riservategli a permettere alla pianta di dare frutti.
  Lara, però, teme il mondo, anche se odia la vita che conduce; un bruco che desidera farsi farfalla, ma prova terrore al pensiero di rompere il bozzolo dove si è rifugiata. Un guscio che la ripara, ma non le permette più di respirare. Le pareti di casa sembrano stringersi come l’interno di palloncino che va sgonfiandosi. Il sofà non è più placebo, ora le rimane soltanto il letto: quell’istante in cui, spegnendo la luce, tutto svanisce lasciando la sola sensazione di lenzuola pulite e tepore. Un battito di ciglia che la riconcilia con il vivere. Più duraturo, invece, un bel bagno caldo: immergersi nel surrogato del liquido amniotico, rievocando il battito materno.  
  Immersa nell’acqua ne assorbe il calore, ascoltando il ritmico gocciolio del rubinetto. Inspira profondamente lasciandosi pervadere dal profumo di mandorla del bagnoschiuma. Lo stato d’ansia pare assopirsi, i pensieri stemperarsi nel vapore che aleggia nell’aria, smorzando la cognizione del tempo. Sgravata dal peso corporeo resta immersa finché le dita avvizziscono.
  Sedutasi sul bordo della vasca si stringe nell’accappatoio; una goccia, addensandosi, scivola verso il basso percorrendo lo specchio appannato. Non sopporta la visione opaca, l’immagine sfocata che vi si riflette. Presa una salvietta asciuga la superficie spaventandosi del proprio pallore; gli occhi rifuggono la realtà, cercando l’unico elemento del corpo accettato: i lunghi capelli ricci.
  Sfilandosi l’accappatoio si volta mettendosi di profilo, non sopporta la vista frontale; eppure, gli occhi non si staccano dal riflesso, lo sguardo scivola via dai capelli, sfiorando il collo segue la sinuosità della spalla soffermandosi sulla scapola.
  «Cos’è questa?» chiese un giorno, ancora bambina, alla madre.
 «Questa?» rispose la donna, sfiorando la lieve protuberanza che la bimba indicava contorcendo il braccio.
  È l’attaccatura per le ali» rispose la donna.
  «Ali?»
  «Sì, le ali. Se avrai coraggio e crederai in te stessa, un giorno avrai delle ali con cui volare.»
  «Perché tu non le hai? E nemmeno papà?»
  «Tutti le abbiamo, ma non sono visibili. Le mie, ad esempio, mi hanno permesso di raggiungere la vetta più alta del mondo.»
  «Sei stata sull’Everest?» chiese sbalordita.
  «Molto più su.»
  «Ma è l’Everest il monte più alto» ribadì la bimba.
  «Da dove ero io, L’Everest pareva una piccola cunetta.»
  «Mi prendi in giro» ribatté la piccola, imbronciata.
  «Quando sei nata tu» spiegò la madre, «ho raggiunto il punto più alto del cielo: il culmine della felicità. E sono state le ali, che mi sono costruita, a portarmi fin lassù. Ali tessute di sogni, ma soprattutto fatica e amore.»
  «Anch’io avrò delle ali?» chiese la bimba, perplessa.
  «Certo. Ma non basta avere delle ali, anche la gallina le ha, ma non può che fare dei piccoli balzi. Per imparare a volare occorre credere in sé stessi e non perdersi mai d’animo. Tentare e ritentare, e ogni volta che si precipita a terra rialzarsi per riprendere il volo. E se vuoi librarti in alto come l’aquila, devi farti delle ali grandi e potenti come le sue, con sacrificio e volontà, perché, l’aquila, per spiccare il volo ha bisogno di spazio e forza.»
  Lara ripensa a quella vita, così diversa e lontana nel tempo da sentirsi la protagonista di due film diametralmente opposti.
  Aveva provato a volare, ma le sue ali erano delicate e, come Icaro, avvicinatasi troppo al sole si erano bruciate: l’uomo che avrebbe dovuta proteggerla ne aveva sbiadito ogni splendore, riducendola a dolore. Una storia lunga, dal finale liberatorio, ma è difficile cancellare il passato che, se non immunizzato, diviene un vortice di depressione.
  Ora, seppur libera, prova il peso della solitudine, un senso che, come un vuoto d’aria, toglie portanza alle ali facendola precipitare. La terapeuta le ha fornito un paracadute, certo, ma questo rallenta solamente la discesa. È consapevole del compito che l’attende: saper attutire il contatto con il suolo, riprendere fiato e, spiegando le ali, riprendere il volo. Ma avere i piedi per terra la disarma: uscire da casa, lasciare il sofà per affrontare nuovamente il mondo le incute una paura folle. Come potrà ritrovare la fiducia verso l’umanità? Abbandonarsi a un altro uomo o confidarsi con delle donne che, svestiti i panni dell’amicizia, le hanno voltato le spalle? Ritrovare quel senso di protezione tradito da chi, sminuendo, non ha teso la mano a trarla dalle spire del mostro? 
  Non sopporta più, tuttavia, la solitudine; la bolla in cui si è rifugiata sa di stantio. Sente il bisogno di spazi aperti, di socialità, anche se il solo pensiero le mette i brividi. Per mesi è stata una mosca che, attratta dalla luce, batteva continuamente la testa sul vetro, quella barriera interposta fra lei e la vita. Ora è il tempo di spalancare la finestra e librarsi nell’aria.
  Trema come una foglia dinanzi all’uscio di casa, l’uscita non ha come meta il rassicurante studio della terapia, è un volo senza paracadute, senza destinazione prefissata se non tornare a vivere. Nessun attacco di panico, ma l’ansia d’incappare in un nuovo mostro, l’ennesima delusione.
  Gira la maniglia scostando di poco l’uscio, con il rumore della città entra un refolo d’aria. Inspira profondamente controllando un principio di vertigini. Il bagaglio del passato, che non potrà mai abbandonare, non le schiaccia più le spalle. Si sente vestita, protetta dagli sguardi della gente. Lei è la vittima non la colpevole, ha il diritto di pretendere nuovamente la felicità, ha le forze per ritrovare sé stessa. Vuole tornare a volare come sua madre, regale come un’aquila, ma come tale necessita di un potente slancio per decollare, di spazio e coraggio.
  Scende gli scalini senza aggrapparsi al corrimano, la fronte alta, il passo deciso. Si sofferma sul marciapiede, osserva la gente che cammina spedita verso i propri obiettivi. Inspira nuovamente e, puntando verso il proprio, spicca il volo.    


Racconto edito di Pierangelo Colombo, classificatosi terzo nel Premio Città di Verona.
Condividete pure, ma non scordatevi di citare l'autore. 😀

giovedì 16 giugno 2022

A Taormina, la 12esima edizione di Taobuk

 Dal 16 al 20 giugno, a Taormina, la 12esima edizione di Taobuk-Taormina International Book Festival, ideato e diretto da Antonella Ferrara. Quest’anno è dedicato al tema della “verità”. I vincitori dei Taobuk Awards 2022 sono gli scrittori Paul Auster e Michel Houellebecq e il Premio Nobel per la Fisica del 2021 Giorgio Parisi.


Tale è l’alchimia di Taobuk che convoglia su Taormina, luogo unico al mondo, snodo fra cultura occidentale ed orientale, le eccellenze della letteratura, delle arti e del pensiero.
Il Festival, nato dodici anni fa, da un’intuizione di Antonella Ferrara che lo presiede e dirige, accoglie la vocazione di recepire i “sedimenti letterari” della città, sintesi di una storia che coagula eventi, miti, vissuti, tradizioni. Ogni anno, Taobuk sceglie un tema intorno a cui s’incardina un calendario di incontri, con il concorso di scrittori autorevoli, artisti, filosofi e scienziati. La kermesse ha assunto una configurazione multidisciplinare e il cartello si impreziosisce con mostre, spettacoli teatrali e di danza, retrospettive cinematografiche, in location suggestive di cui il più rappresentativo è il Teatro Antico, insieme a palazzi, angoli e grandi alberghi.
È Verità, il tema scelto per questa dodicesima edizione.
Una parola né plurale né singolare: non dogmatica, ma pervasa dal dubbio.
Racconta una ricerca che ben esprime le contraddizioni del nostro tempo: uno sforzo necessario, che si colloca alla radice stessa della conoscenza.
Sosteneva Eraclito che “la natura ama nascondersi”. Ecco: il festival si spinge a fondo, e dalla letteratura travalica e interseca altri campi, arti e scienze, per contemplare punti di vista allargati sul mondo.
Schopenhauer sapeva bene quanto la via verso il vero fosse scandalosa, scomoda, rivoluzionaria: “Ogni verità – scriveva – passa attraverso tre fasi: prima viene ridicolizzata; poi è violentemente contestata; infine viene accettata come ovvia”. Sarebbe stato ancora lungo il percorso – e il ribaltamento di prospettiva – del relativismo novecentesco, da cui Taobuk intende prendere le mosse.



Cogliendo un anniversario speciale: il centenario dalla morte di Giovanni Verga, padre del Verismo.
La ricchezza e la forza dirompente di Taobuk è rappresentata proprio dall’intersezione delle discipline, che ne fanno una grande manifestazione con uno sguardo aperto sul mondo.
Taobuk 2022 non solo offrirà l’opportunità di incontrare alcuni tra i più grandi autori contemporanei, ma nel segno della Belle Lettere, le discipline si intrecceranno aprendo finestre sulla realtà per ragionare sugli attuali scenari di guerra, sulla manipolazione della verità come strumento di condizionamento sociale e politico, sul significato di valori come libertà e democrazia provando a restituire delle risposte, mai assolute: ma punti di vista complessi. Un confronto ricco, per porre le basi di un futuro dove letteratura, arte, economia e scienza possano dettare la visione di un comune sentire.”

Antonella Ferrara
Presidente e Direttore artistico



A Bassano del Grappa la rassegna letteraria Resistere

 Bassano del Grappa, dal 16 al 19 giugno, la sesta edizione di Resistere, la rassegna letteraria organizzata da Palazzo Roberti. 



Resistere è una finestra sull’attualità con interventi di ospiti prestigiosi, dal 16 al 19 giugno, al via la rassegna letteraria organizzata da Palazzo Roberti. Quattro intense giornate fra Castello degli Ezzelini, Chiostro del Museo e Libreria, e in alcuni fra i luoghi più affascinanti del centro storico, si parla di storia, scienza, mafia, Europa, donne, ma anche di musica, nuove generazioni e sport.La sesta edizione di Resistere è una finestra sull’attualità. Organizzata da Libreria Palazzo Roberti, in collaborazione con la Città di Bassano del Grappa e con il supporto di AGB e SIND Tech Solution, la rassegna letteraria, ospitata dal 16 al 19 giugno in alcuni fra i luoghi più affascinanti del centro storico, parla di storia, scienza, mafia, Europa, donne, ma anche di musica, nuove generazioni e sport.



È il bello di questo progetto – commentano Lorenza, Lavinia e Veronica Manfrotto, titolari della Libreria Palazzo Roberti e promotrici della rassegna - ogni anno ci innamoriamo e cerchiamo di far innamorare i nostri spettatori di autori che ci propongono un punto di vista sulla realtà. Ci siamo chieste quale contributo potesse portare la nostra rassegna a un momento così tragico e la risposta l’abbiamo trovata ancora una volta nella profondità degli autori, nella varietà degli argomenti, nell’attesa dei nostri affezionati clienti e nel sostegno dei partner, che hanno rinnovato con convinzione la loro adesione. Siamo pronte, come sempre, a offrire emozioni, riflessioni ma anche un po’ di leggerezza, in quattro giorni da vivere per la maggior parte all’aperto e finalmente senza distanziamenti. Speriamo che la voglia di libri, già sperimentata negli incontri in libreria, riesploda anche in questa rassegna estiva”.

Quattro giornate fra Castello degli Ezzelini, Chiostro del Museo e libreria. Tra gli ospiti Romano Prodi e Roberto Saviano. Nel programma anche Francesca Michielin, Antonella Viola, Gemma Calabresi, Alessandro Benetton, Serena Dandini e tanti altri.


Il programma completo

mercoledì 15 giugno 2022

Lettera 423, Festival della Lettura di Isernia

 Lettera 423, a 423 metri sul livello del mare, su una collina tra due fiumi, sorge Isernia. In questi luoghi e in altri suggestivi angoli del centro storico, Isernia dal 16 al 19 giugno accoglierà Lettera 423 con i suoi eventi dedicati alla narrativa contemporanea, al giornalismo, alla divulgazione scientifica, alla cultura musicale e artistica, in una quattro giorni di festa diffusa.


A 423 metri sul livello del mare, su una collina tra due fiumi, sorge Isernia. Fra i suggestivi angoli del centro storico, dal 16 al 19 giugno si svolgerà Lettera 423 con i suoi eventi dedicati alla narrativa contemporanea, al giornalismo, alla divulgazione scientifica, alla cultura musicale e artistica.
Il tema di questa edizione sarà "Passaggi". Nuovi passaggi, quelli di tempo e di luogo, quelli di stato e di forma, quelli chiave ed epocali, saranno narrati nelle presentazioni, nei public talk, nei workshop, nei reading, durante gli spettacoli serali, e ancora con la musica e nell’arte.
Tra gli ospiti: Daniele Zovi, Erica Mou, Giorgio Manzi, Donatella Di Pietrantonio, Francesca Valente (Premio Campiello Opera Prima 2022), Mariolina Venezia, Nicola Feninno, Gaia Giovagnoli, le Menzioni Speciali Premio Calvino (che verranno scelte il 14 giugno dal premio, e poi verranno a Isernia), Andrea Gentile, Leonardo Luccone, Valentina Farinaccio, Marco Bonini, Domenico Iannacone, Pierpaolo Giannubilo, Isabella Perugini, Alessandro Gazzi, Gianluca Barbera, Orazio Labbate, Flavia Piccinni, Alessandro Ceccherini, Antonino Monteleone, Simone Colombari, Mattia Corrente